ENRICO VALENTINI

ZULI-GASTONE Tratto da Animali Animati


<!-- @page { margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } -->C'era una volta un ragazzino di nome Zuli.Era un mio compagno di giochi e viveva nella casa con le fragole, di fianco alla mia, al Finale, vicino ai giardini pubblici.Noi ragazzi lo consideravamo molto fortunato perché davanti alla sua abitazione c'era un piccolo campo di fragole selvatiche e Zuli, la mattina appena sveglio, poteva scendere dal lettino, trasferirsi nel fragoleto e consumare la colazione mangiando i gustosi frutti scarlatti.Il bambino seduto in mezzo al campo punteggiato di rosso, mangiando fragole, sembrava un dipinto impressionista di Monet e la scena allargava il cuore, per la dolcezza e delicatezza sprigionata.Nei pomeriggi ci trasferivamo a casa da questo o da quell'amico per giocare e quando l'anfitrione di turno era Zuli, eravamo ancora più felici perché avevamo il campo di fragole a disposizione.Zuli aveva tre sorelle più grandi di noi: Ari di sedici anni, Clio di quindici e Paolina di quattordici.Ari un giorno ci insegnò le conte; erano tiritere che servivano a stabilire chi dovesse iniziare un gioco di gruppo, come Mosca Cieca o Nascondiglio:Bari bari cotini cotari, becca fissa becca bari, bari bari cotini cotari.Oppure: astan blan femine gutan, gali gali stuck, me-ren-gut.E ancora: sotto il ponte di Baracca c'é Pierin che fa la cacca, la fa dura dura dura che il dottor gliela misura, la misura trentatré, a star sotto tocca a tè. Oltre il campo di fragole c'era una casa disabitata e noi ragazzi avevamo forzato la serratura riuscendo ad aprirla con un grimaldello di nostra costruzione; entravamo in quella catapecchia per giocare e quando a sera ne uscivamo, serravamo bene la porta, per non insospettire il proprietario, che ogni tanto la domenica si faceva vivo.Nella casupola violata ci divertivamo a giocare a guardie e ladri, nascondendoci nelle stanze deserte che odoravano di muffa.Tra il palazzo dove vivevo e la casa disabitata c'era un grande quercia secolare.Sull'albero avevamo costruito un capanna di legno; il materiale lo avevamo recuperato dalla catapecchia abbandonata.La capanna consisteva in una piattaforma di assi di pioppo racchiusa da una sorta di parete angolare, su cui avevamo appiccicato con delle puntine da disegno svariati disegni di cartoni animati, trovati sui giornalini di fumetti.A volte in quel rifugio aereo mi ci nascondevo a piangere, dopo aver ricevuto una punizione dai miei genitori.Appena salito sulla piattaforma, arrampicandomi con una fune legata a un ramo, le lacrime sparivano, come si volatilizza la nebbia padana spazzata da una folata di vento. Chiacchieravo con i personaggi di carta attaccati al legno e poi, svanito il malumore, scendevo e tornavo a casa. Le scorribande nella casupola fatiscente erano molto divertenti e i nostri genitori non seppero mai nulla del nostro rifugio segreto.Controllandoci dalla finestra di casa ci vedevano mangiare fragole nel campo e un attimo dopo sparivamo come dei folletti all'interno della casa abbandonata.C'era anche un pozzo nelle vicinanze; l'imboccatura era protetta da una rete di ferro stampato e noi bambini ci aggrappavamo al bordo per guardare giù in fondo e lanciare sassi, pietre e qualsiasi altro oggetto ci capitasse a tiro. Per questo, la mamma di Zuli, quando ci beccava, cacciava urli e maledizioni che probabilmente udivano dalla piazza del paese. Secondo lei, il continuo gettito avrebbe riempito la cavità e non si sarebbe più potuto cavarne acqua; ma quel pozzo era in disuso da anni a mai più sarebbe stato utilizzato. Ogni tanto veniva a trovarci nel quartiere un amico che si chiamava Gianin.Gianin era un bambino ancora più scapestrato di noi e abitava in una casa poco distante; dovendo attraversare la strada statale, la madre, vigile e attenta, lo accompagnava per evitare che venisse investito dalle auto; verso sera veniva a riprenderselo e a volte stentava a riconoscere il figlio, sozzo com'era. Gianin, se transitava vicino ad una pozzanghera ci si tuffava dentro; se scovava un barattolo di vernice, lo scoperchiava e se lo versava addosso e se passava di lì un cane randagio ci faceva la lotta, scaravoltandosi in mezzo al fango insieme all'animale. La madre, quando all'imbrunire venive a ritirare la sua proprietà, si metteva le mani nei capelli e noi ci disperdevamo immediatamente, per non sentire il suono squillante dei ceffoni che volavano.  Zuli oltre ad essere fortunato perché poteva mangiare fragole appena sveglio, lo era anche perché al gioco delle figurine vinceva sempre. Usavamo le figurine dei calciatori come moneta di scambio, e ce le giocavamo a testa o croce usando le figurine stesse: la facciata con la foto del campione era testa, il retro era croce, termine che avevamo convertito in ”lettera”. Appoggiavamo un certo numero di figurine nel palmo della mano sinistra e coprivamo ben bene il malloppo con la destra; questa operazione veniva svolta dando le spalle all'avversario al quale poi si chiedeva: -Testa o lettera?-Se il giocatore avversario indovinava, vinceva la pila di figurine. Ne esistevano di molto rare, quasi introvabili, che valevano il triplo delle altre.Zuli, su dieci volte che stoppava (questo era il termine utilizzato per nascondere in mano i cartoncini stampati), otto le vinceva e pertanto possedeva centinaia e centinaia di figurine; rare, meno rare, comuni e doppioni. Le doppie ce le prestava per rivincerle subito dopo.Il nostro amico Zuli era favorito dalla sorte non solo per le fragole a colazione e la cospiqua collezione di figurine, ma anche per via del suo successo con le bambine del quartiere: ad una ad una, a turno, se ne erano innamorate; era conteso per il suo fragoleto, per l'immensa collezione di figurine Panini, e per i suoi capelli biondi e ricci.Quando disegnavamo certi personaggi dei cartoni animati, il suo nome veniva scritto sotto la figura di Gastone Paperone, il cugino fortunato di Paolino Paperino. Un nostro amico che abitava al di là del fiume nel Borgo della Selvabella, tutti i fine settimana li trascorreva insieme a noi, nel nostro quartiere; veniva a far visita alla nonna materna e giocava con noi gran parte del tempo.Si chiamava Valentino, ma per noi era solo Tino, più corto e sbrigativo; non c'era tempo per pronunciare i nomi per intero.Il sabato pomeriggio, puntuale come un orologio svizzero, arrivava Tino della Selvabella.Lo si accoglieva come se l'avessimo visto dieci minuti prima; invece era passata una settimana intera. Lo si accoglieva come fosse uno della banda, anche se abitava al di là del fiume.Tino della Selvabella, ogni sabato pomeriggio arrivava e portava con sé, per la gioia di tutti, le novità tecnologiche appena arrivate da Milano; il padre lavorava come tecnico in un'azienda che commerciava quegli articoli, e il figlio riceveva in regalo una bussola o un giroscopio, oppure un telescopio per guardare le stelle in cielo.Una volta arrivò con un proiettore tascabile a manovella.Era una scatoletta di metallo che somigliava a una cinepresa. Avvicinando l'occhio alla lente del mirino e girando la manovella, scorreva la sequenza di un cortometraggio di cartoni animati. La macchinetta era corredata di una custodia che la conteneva e di vari dischetti pieni di fotogrammi, ognuno col suo bravo titolo: Paperino alle olimpiadi, Topolino e Macchia Nera, la torta di Nonna Papera.Tino, che aveva giocato col proiettore tascabile per tutta la settimana, ce lo prestava volentieri e i litigi e le scazzottate per impadronirsene erano all'ordine del giorno.Guardando il filmato di Paperino alle olimpiadi, a un certo punto compariva il fortunato Gastone e il bambino di turno, regolarmente gridava: -Zuli! Ci sei anche tu!- Una bambina che viveva con la sua famiglia nello stesso mio palazzo e che si chiamava Orianna, collezionava giornali a fumetti. Ne possedeva un numero talmente esagerato che non sapeva più dove stivarli; ne teneva delle pile anche sotto il letto. Sua madre gestiva un'edicola del centro e quando restituiva le rimanenze ai rappresentanti delle case editrici, ne teneva qualche copia per l'Orianna; possedendone già tante, le passava a noi della banda, e ce le davamo di santa ragione per impossessarcene. A volte passavamo interi pomeriggi a sfogliare le strisce, stravaccati sul pavimento della capanna aerea. Man mano che un giornaletto veniva letto, lo si lanciava, stracciandone le pagine, sul prato sottostante. La sera, dopo cena, i genitori spedivano i figli a raccogliere i fogli stampati, accompagnandoli a calci nel sedere.Io non provai quell'emozione perché mio padre tornava dal lavoro piuttosto tardi, quando il prato era già stato ripulito. Poi c'era la Pinuccia. Il padre della Pinuccia lavorava come tecnico in un negozio di elettrodomestici, dove era in funzione uno dei primi televisori, naturalmente in bianco e nero.La bottega non era tanto distante dalle nostre abitazioni; bastava attraversare i giardini pubblici e si era arrivati.Un venerdì sì e uno no, io e altri tre fortunati ci recavamo al negozio per seguire un programma televisivo favoloso: la mitica Tivù dei Ragazzi.Quando arrivava il giovedì entravamo in fibrillazione, e a volte, la sera prima dell'evento, si faceva fatica a prender sonno.Il venerdì mattina, a scuola avevamo la testa che viaggiava per conto proprio, pensando all'appuntamento nel negozio di elettrodomestici. Poi, finalmente dopo un pranzo frettoloso, elemosinavamo ai nostri genitori il permesso di alzarci da tavola in anticipo per correre ai giardini pubblici, luogo d'appuntamento per la partenza verso il negozio col televisore. Arrivati a destinazione consumavamo il primo quarto d'ora litigando per sedere sulle sedie in prima fila; come se il più vicino potesse toccare e accarezzare i personaggi del Mago di Oz o della Nonna del Corsaro Nero. Ai giardini pubblici, nell'anello asfaltato che li circondava, sfrecciavamo con dei trabiccoli a spinta montati su cuscinetti a sfera che fungevano da ruote. Le curve erano garantite da uno sterzo pivottante comandato da un pezzo di corda legato alle due estremità dell'asse anteriore; le derapate e i testa coda erano degni dei migliori piloti di auto da corsa e gli alluci schiacciati dalle macchinette impazzite diventavano viola come la marmellata di more. Per questo sport si doveva procedere in coppia: uno, dietro spingeva come un forsennato, l'altro seduto sulla macchina infernale, saettava in mezzo alla gente con un fracasso inimmaginabile; i vecchi col toscano fra le labbra, seduti sulle panchine, ci lanciavano maledizioni e minacce, ma noi continuavamo le galoppate come se niente fosse.La frenata del mezzo supersonico era assicurata dallo sfregamento dei tacchi sul ruvido asfalto. Chi praticava questo affascinante sport lo si riconosceva dalle calzature prive di tacchi. Le mamme non erano molto contente dello sport praticato dai figli; i calzolai, al contrario ne erano felicissimi. Mia madre era doppiamente scontenta, in quanto usavo il trabiccolo anche nel corridoio del palazzo, suscitando nei condòmini un giustificato istinto omicida.Ci costruivamo da soli in cantina queste trappole, reperendo i materiali qua e là e corredando le assi del telaio con decalcomanie dei personaggi dei cartoni animati. Il trabiccolo più veloce era, manco a dirlo, quello del pilota Zuli, riconoscibile per il grosso Gatto Silvestro, stampigliato sul sedile. Al mio avevo appiccicato il numero diciotto racchiuso in un cerchio bianco, come le vere macchine da corsa e un adesivo della Pantera Rosa.Gli autoriparatori ci fornivano i cuscinetti usati che smontavano dalle automobili; bestemmiando, ci chiedevano se li mangiavamo col pane, visto che un giorno sì e uno nò eravamo in officina a chiederne dei nuovi; il motivo di queste frequenti richieste era ovvio: il cuscinetto, strisciando sull'asfalto e non lavorando per lo scopo per cui era stato costruito, si consumava come si consuma un gelato tornito dalla lingua di un bambino, e dopo un paio di volate in circuito, il macchinino strisciava sul legno del telaio, dopo aver perso per strada tutte le sfere. Dal carrettino a cuscinetti passammo, in un battito d'ali, alle Cinquecento e alle Duecavalli d'occasione, ma sull'automobile che mentre scrivo posseggo, sul lunotto posteriore campeggia l'autoadesivo della Pantera Rosa e ogni tanto mi scappa ancora qualche testa coda.