elio ciccarelli

L'imperativo popolare Cap 1


Ipotesi “futuro”Supponiamo che in un lontano ed ipotetico futuro, a seguito del verificarsi di cataclismi più o meno naturali, la nostra millenaria civiltà rimanga sepolta sotto le sue stesse macerie e che di noi e della nostra cultura si perda praticamente ogni traccia, ogni memoria. Supponiamo ancora che molti secoli dopo tali eventi, mossi da flebili indizi e da congetture ritenute pazzesche dai più, un gruppo di illuminati archeologi si muova alla ricerca delle proprie origini. Individuata una zona desertica ed inospitale, lontanissima dalle moderne città, gli studiosi iniziano gli scavi e dopo breve tempo incominciano a rinvenire interessantissimi reperti che testimoniano di un preistorico insediamento urbano il cui nome, grazie alla decifrazione di taluni misteriosi geroglifici, pare dovesse essere stato“Palermo”. Dal confronto con analoghi siti emerge con chiarezza che doveva trattarsi di una civiltà profondamente diversa dalle altre più o meno coeve e l’ipotesi trova subito conferma nel ritrovamento di una misteriosa scritta, un tetragramma, la cui diffusione in quell’area archeologica è tale da non avere eguali in nessun altro luogo conosciuto: SUCA. Gli studiosi lo trovano inciso o graffiato o dipinto nei luoghi più strani: brandelli di muri, cartelli abbattuti, strade, cortecce di alberi pietrificati….insomma, dovunque. Le ormai frammentarie conoscenze delle antiche civiltà non consentirebbero di individuarne con certezza il significato, intrinseco o simbolico che sia, con la inevitabile conseguenza di far fiorire le più svariate congetture, talune delle quali,invero, assai fantasiose. Taluni studiosi forse evidenzierebbero il valore rituale del termine, altri ne coglierebbero quello scaramantico, né probabilmente mancherebbero quelli che, ipotizzandone un uso evocativo, si spingerebbero addirittura a collocarlo nella sfera religiosa. “ Ubi veritas?” si chiederebbero quegli ignari scienziati, ponendosi interrogativi non meno assillanti di quelli che, ai giorni nostri, tormentano gli archeologi contemporanei davanti al rinvenimento di una qualche necropoli o nell’inesausta ricerca di Atlantide o nel seguire le tracce dell’Arca di Noè. Potrebbe davvero andare così? Chissà. Di sicuro, per me, è andata nel modo seguente. La scopertaLa mia prima volta fu a circa sei anni. Il luogo, l’austero e freddo Convitto Nazionale di Piazza Sett’Angeli, alle spalle della Cattedrale. Avevo chiesto, timido e vergognoso, il permesso di uscire alla mia severissima Signora Maestra e lei, lasciandosi appena scivolare fin sulla punta del naso gli occhiali, aveva scrutato le mie due dita, unite e sollevate, che invocavano il suo nulla osta e aveva giudicato sincera la mia richiesta, spontanea e degna del suo “Sì, puoi andare. Ma torna presto!”. Mi affrettai davvero: vuoi per non spazientire la Maestra, vuoi perché davvero mi scappava! Fu proprio lì, in quel monumentale gabinetto, che lo vidi scritto sul muro per la prima volta: a stampatello, alla mia altezza, con penna blu, tratto sicuro e deciso.Fu quella la prima volta che incontrai quella parola che poi, nel corso degli anni, avrei visto e sentito chissà quante altre volte e non soltanto a scuola: l’imperativo popolare per antonomasia. Avevo appena imparato a leggere e non avevo ancora iniziato a studiare la grammatica così che non sapevo ancora che si trattava di un verbo, di un imperativo. Men che mai avrei sospettato che si trattasse di una voce popolare. Per me era soltanto una parola, generica e vaga, incomprensibile e strana. Rientrai subito in classe e non ne chiesi a nessuno fino alla ricreazione. Quando finalmente giunse l’ora di tirare fuori dalla cartella ( sì, la cartella perché gli zaini allora erano soltanto accessori da montagna) la mia solita colazione, costituita da un panino farcito di abbondante cioccolato al latte ( sì, perché non c’erano, allora, le merendine né le monoporzioni preincartate), tra un morso e l’altro ne parlai col mio compagno di banco istintivamente, non so perché, sottovoce. Quello, inghiottendo a fatica il suo boccone, dopo essersi guardato in giro con inusuale circospezione, anche lui sottovoce sussurrando, mi disse: “E’ una parolaccia! Non la ripetere mai!”. Non capivo. Una parolaccia! E chi l’ha scritta? E perché l’hanno fatto se è una parolaccia? “Sicuramente sarà stato un convittore. Tu non ripeterla mai!” mi disse il fidato compagno, quasi mi avesse letto nel pensiero. I convittori! Vestivano in uniforme grigia dalla testa ai piedi. Noi, che al suono dell’ultima campana potevamo andare via, li vedevamo uscire inquadrati ed allineati in direzione delle loro stanze su per la scala che portava ai piani superiori. I convittori. Perché mai i convittori avrebbero dovuto scrivere una parolaccia sul muro di un gabinetto? Una vendetta o forse uno sfregio nei confronti di un’istituzione che li teneva segregati? Chissà. Mi rimaneva il mistero di quel termine, il cui significato restava per il momento oscuro. Ed oscuro sarebbe rimasto ancora per qualche anno, almeno finchè qualche amichetto più grande ( e più smaliziato) non me ne chiarì i contorni, il contesto e, per così dire, il senso.Il sensoIn effetti, proprio di sensi si trattava, almeno nelle prime spiegazioni che mi diedero. Tuttavia, non impiegai troppo tempo a capire che non si trattava affatto di una ben precisa pratica sessuale. D’altra parte, che motivo ci sarebbe stato di scrivere SUCA sui muri dello stadio, sulle pareti degli ascensori, nei bagni delle scuole, nelle “ritirate” dei treni, sui banchi, sui quaderni dei compagni …? Evidentemente, per comprendere il “fenomeno”, occorreva andare oltre il senso letterale, cogliere le sfumature, penetrarle e, soprattutto, non dimenticare mai che si tratta di qualcosa di intimamente palermitano e per di più sentitamente popolare. Intendiamoci: l’abitudine di scrivere sui muri (e dovunque ce ne sia possibilità, monumenti compresi) non è certo una prerogativa del palermitano DOC così come quella di adornarli con amenità varie, più o meno oscene. Tutte le città del mondo conoscono questo genere di attività creative. Ma, ditemi se ad Aosta avete mai visto scritto a caratteri cubitali un bell’imperativo popolare all’ingresso del Casino de la Vallèe o a Bologna in Piazza Maggiore o a Venezia in Piazza San Marco o a …. Provate ad andare a Piazza Politeama e vedrete la differenza! Quanto poi al fatto che si tratta di espressione decisamente popolaresca, direi che non sussistono dubbi: mai sentito in un salotto né in un’occasione mondana qualcuno degli astanti pronunciarla. Magari qualcuno l’avrà pensato ma…. quanto al dirlo…neanche sottovoce! Pena l’immediato allontanamento del “tascio” e la sua esclusione da qualunque riunione conviviale futura. Una sorta di pubblico bando che, nei casi più ostinati, potrebbe persino giungere alla damnatio memoriae!Giochi scritti di paroleI ragazzini, si sa, amano giocare e qualunque occasione è utile per farlo; figuriamoci poi se lo si può fare con ciò che è proibito e che,quindi, meglio si presta a creare complicità, intesa tra pochi, parola d’ordine tra “eletti”. Una delle pratiche più ricorrenti nelle scuole medie degli anni ’60 consisteva nella correzione della parola in modo da travisarla e renderla, per così dire, irriconoscibile. Parlo di quel periodo, semplicemente perché fin lì (o poco oltre) si estende la mia memoria ma, in tutta franchezza, non mi sentirei di far risalire in sede storica proprio a quel tempo l’inizio di tale abitudine. Potrebbe trattarsi di usanza atavica, che si perde nella notte dei tempi…. Tale ipotesi tuttavia condurrebbe all’analisi etimologica del termine, il che sarà argomento di un successivo capitolo (se avrete la pazienza di arrivarci). Torniamo dunque ai Fab Sixties. Non ci voleva molto: bastava un minimo di manualità, una penna dello stesso colore, pochi tocchi et voilà! Il gioco era fatto: l’imperativo popolare diventava 800A , espressione misteriosa (almeno secondo noi), che solo gli adepti avrebbero compreso. Era proprio la voglia di “fare gruppo” a motivarci anche se non posso escludere che talora interveniva una sorta di pudore, di volontà riparatoria a spingere quella stessa mano che aveva imbrattato il muro o il registro di classe a farsi pietosa e ad intervenire artisticamente, non foss’altro che per non incorrere nelle ire dei “grandi”. Un ulteriore lampo di genialità fu quello di trasformare l’irriguardoso termine in sigla, in acrostico di qualcosa il cui senso complessivo, secondo noi, sarebbe sfuggito ai più. Fu così che divenne S.U.C.A. e a chi ne chiedeva il significato, con candore e malcelata malizia, si rispondeva: “ Ma, come, non lo sai? E’ una nota casa dolciaria, la famosa Società Unica Caramelle Amenta!”. Qualcuno ci cascava. Rimaneva però un problema da superare: che dire di quel FORTE che spesso accompagnava il nostro tetragramma? Più tardi, negli anni del liceo, quando più compiutamente si affinano le innate qualità critiche e creative in un crescendo culturale di tipo esponenziale, a qualcuno venne in mente di stupire il mondo e, novello Marino, ben consapevole che “E’ del poeta il fin la maraviglia, chi non sa far stupir vada alla striglia”, scrisse con la vernice nera e a caratteri giganteschi sul muro esterno del Liceo Umberto in Via Parlatore un imponente SUDA cui, a scanso di equivoci, aggiunse in basso (ma a caratteri appena visibili) l’onnipresente FORTE. Erano gli anni della “contestazione studentesca”, dell’impegno ideologico, del mito della rivoluzione più o meno permanente e spesso la passione politica veniva estrinsecata anche così. Nessuna sorpresa dunque quando su un muro nei pressi di un altro liceo palermitano apparve la scritta : “ El pueblo unido che mas sarà vencido”, slogan assai diffuso a quel tempo e conosciuto praticamente in tutto il mondo grazie alla musica degli Inti Illimani. Decisamente più sorprendente fu invece l’intervento scritto di un’ignota mano che, per non tradire la natura linguistica ispanica di quell’espressione, aggiunse un laconico quanto beffardo :” SUECA”. Nessuno riuscì mai ad identificarne l’autore e rimase il mistero se si trattasse di un avversario politico di destra o soltanto di un burlone, ipotesi, questa, che comunque non escludeva sic et simpliciter l’altra precedente. Eh! La scuola! Che palestra per l’ingegno è la scuola!Giochi orali (di parole! Accidenti alla malizia!)Il Liceo Umberto ( non me ne vogliano i coetanei che frequentavano gli altri Licei) era in quegli anni una vera fucina di intelletti. Non solo valenti e stimati professionisti (di cui non farò i nomi perché temo di dimenticarne qualcuno e io…. al saluto ci tengo!) si sono formati su quei banchi ma anche tanti altri personaggi destinati a diventare popolarissimi anche a livello nazionale e persino internazionale. Due nomi per tutti: Gigi Burruano ed il collega Gianni Nanfa. Il clima era a dir poco effervescente, tanto che a voler narrare soltanto gli aneddoti risalenti a quegli anni, ci sarebbe da farne un altro libro. L’euforia che si respirava nell’aria era talmente contagiosa da prendere anche chi si trovava nei paraggi, come Totuccio,il panellaro che stazionava dalle dieci in poi davanti al cancello dell’Umberto in attesa della sospiratissima ricreazione. A quel punto iniziava anche lui ad esibirsi ed era solito abbanniare così la sua rosticceria: “ Arancine! E su’ c’a carne! E s’un m’i vinnu m’i manciu!”. A nessuno sfuggiva l’arguzia del gioco di parole dove l’espressione “E sono con la carne” non intendeva soltanto magnificare la genuinità e l’abbondanza del ripieno ma…alludeva! Indovinate voi a che a cosa! Così, mentre le ragazze, fingendo di non capire o di non aver sentito, “giovenilmente vezzeggiando” si allontanavano mangiucchiando le loro porzioni di crocchè, panelle e rascature, i più “anziani” dei nostri, che evidentemente nel corso del tempo avevano maturato con Totuccio ( e con il non distante tavernaro, U’ zu’Arturo *** ) un rapporto più che confidenziale, si producevano in una sempre varia e scoppiettante cascata di battute che durava sino all’odiato suono della campana di fine ricreazione. Non c’era bisogno di aspettare il Festino di Santa Rosalia perché quella era già una vera masculiata!  C’era chi, memore di quanto appreso alle Medie, invitava il compagno a tradurre in dialetto espressioni del tipo:” Tua sorella mi lascia il secchio dietro la porta”e, a traduzione avvenuta ( To suoro mi lass’u catu rarrieri a porta”), si scompisciava felice perché l’amico era caduto nel tranello linguistico. Qualcun altro, tanto per restare in tema di sorelle, improvvisava rime baciate del tipo: “ A temp’i lattuca, to suoro m’a …” E tutti in coro, come presi da un raptus, urlavano a squarciagola il bisillabo mancante alla rima. Non mancava infine chi, evidentemente punto sul vivo, trovava la forza di reagire e, mostrando spirito ed acrimonia ad un tempo, rispondeva: “ A mia e ‘o duca”. Si trattava forse di un residuo di un’aristocrazia d’altri tempi? Chissà.Lontano da scuolaD’altra parte, anche lontano dalla scuola le amenità non mancavano come, per esempio, a Villa Bonanno. Qui erano soliti riunirsi (e credo lo facciano ancora) tanti pensionati che, tra le immancabili ingiurie rivolte al governo e le lamentele per i crescenti acciacchi, usavano trascorrere il tempo giocando a carte su improvvisati tavolini costituiti da una cassetta per la frutta ed un pezzo di cartone steso sopra a mò di ripiano. Chiunque passasse da quelli parti poteva sentirli urlare espressioni del tipo: “U carricu! Calaci u carricu fuori via!”. Talvolta, se qualcuno sbagliava la giocata o era in procinto di farlo, il compagno lo avvisava minaccioso: “ Si l’assu cari” mentre gli altri che già pregustavano l’errore e la conseguente, inevitabile lite, accennando con la testa ripetevano: “ L’assu cari, l’assu cari”. Certe volte, abbandonate le solite argomentazioni, la conversazione assumeva caratteri, per dir così, stagionali, intonati cioè alla stagione in corso. Accadeva allora che in inverno, in una giornata particolarmente fredda, qualcuno esclamasse: “ Cu stu friddu, u nasu care!” manifestando così il proprio intirizzimento nonché la preoccupazione che il naso, repentinamente congelatosi, potesse cascargli per terra. Analogamente, in primavera, quando la mitezza dell’aria induce ad alleggerire l’abbigliamento, c’era pure qualcuno che, rivolgendosi all’amico freddoloso che ancora si ostinava a vestire abiti invernali, gli diceva: “ S’u calasse u’ cuddaru!” invitandolo in tal modo a partecipare al risveglio della natura! Certo, a Firenze avrebbero cantato : “E’ primavera, svegliatevi bambine..” Ma qui da noi…perché non esercitare la fantasia sfruttando le enormi potenzialità dell’imperativo popolare? Non saprei dire quante volte mi è personalmente capitato di assistere a conversazioni, giocate sul filo della malizia, come quando qualche simpaticone, fingendo di aver perduto le chiavi, indicando un posto qualunque, chiede all’amico: “Ci su chiavi?” oppure quando in un Salone (o Sala da barba, se preferite), luogo tradizionalmente deputato allo scambio di facezie, il barbiere, con un ghigno che lascia ben poco spazio al dubbio, chiede all’avventore se vuole essere servito “ misu ca’ testa n’arrieri” vale a dire “con la testa rivolta all’indietro”. Naturalmente sta parlando dello shampoo! Indubbiamente ci vuole faccia tosta, genio e malizia, ma non sempre. Esiste anche una comicità involontaria!  Come quella volta che un caro ragazzo, a tutti noto per la sua bontà d’animo, gentile e disponibile verso il prossimo (e forse proprio per questo suo essere “inoffensivo”, sempre circondato da leggiadre fanciulle), raccogliendo le confessioni e le lacrime di un’amica abbandonata dallo zito, per consolarla non trovò di meglio da dirle se non: “ Su, Camilla! Non fare così!”. Non l’avesse mai detto. Apriti cielo! Di quel che accadde poi “Fia laudabile il tacerci”.La sfida Si diceva, qualche pagina fa, delle nuances che l’imperativo popolare assume a seconda dei contesti linguistici e delle occasioni di vita in cui viene adoperato. Si tratta come di intonazioni diverse, di pennellate di colore che il “maestro” imprime all’opera e che possono portare al capolavoro, quando estro e genialità riescano a fondersi. Ciò accade, per esempio, quando ci si trovi in condizioni particolarmente proibitive, in situazioni in cui l’avversario è, sul momento, palesemente più forte, magari perché indossa una divisa. E’ allora che bisogna far ricorso a tutto il proprio “sangue freddo” ed a tutte le proprie energie intellettuali, astenendosi dall’uso di quelle fisiche, così da averla vinta malgrado tutto. E’ ancora ben presente nella memoria di tanti, allora giovani frequentatori delle Aule del Tribunale, l’episodio che vide protagonista l’avvocato B., penalista di chiara fama nonché “Principe” del Foro palermitano negli anni ’60, il cui patrocinio venne richiesto da un suo amico di vecchia data, nonché suo collega. Costui, nel corso di un diverbio con un vigile urbano che l’aveva, secondo lui, ingiustamente multato per divieto di sosta, era riuscito a stento a trattenersi dall’impulso di farne capoliato ma non volle rinunciare alla possibilità di esprimere argutamente il suo dissenso: in quella parte del verbale in cui allora l’automobilista sanzionato aveva la facoltà di far inserire le proprie dichiarazioni, fece scrivere, dettandola con tono solenne, la seguente frase: “ Il vigile me la può sucare”. Quello, a sua volta, non fece una piega benché, forse, a quel punto, avrebbe voluto anche lui reagire a quella sfida non solo a parole. Fece rapporto ai superiori e, convinto che la sua onorabilità fosse stata lesa da quella espressione ingiuriosa, gli intentò una causa civile con tanto di richiesta di risarcimento per il danno morale subito. L’avvocato multato chiese allora che a difenderlo fosse proprio l’amico, l’avvocato B., che di buon grado, per quanto fosse abituato a ben altri processi, accettò, vuoi per amicizia o vuoi perché intravide in quella causa l’occasione per ergersi a difensore di un’intera fetta di umanità (quella delle vittime innocenti) contro un’altra progenie: quella di coloro che, facendosi scudo dell’uniforme e del potere che ne deriva, sordi alle implorazioni di pietà, calpestano la dignità del prossimo. Una cosa epica! Come se bene e male, cielo e terra fossero giunti allo scontro finale! Le udienze che ne seguirono si fecero sempre più affollate (anche perché la fama dell’avvocato B. era davvero enorme) ed il dibattimento vieppiù serrato e partecipato. Le argomentazioni furono le più varie e dotte ma probabilmente senza l’esperienza del grande oratore e senza la sua ammiccante fantasia il processo non avrebbe avuto storia. Alla fine, la tesi vincente fu quella messa in campo dall’avvocato B. che, ricorrendo a tutta la sua scienza linguistica (oltre che giuridica), riuscì a dimostrare che non di oltraggio si era trattato ma di semplice espressione di una potenzialità che, peraltro, tale era rimasta dal momento che il pizzardone non aveva dato seguito a quella sorta di “invito”. Difficile immaginare che in un altro tribunale la causa avrebbe potuto chiudersi allo stesso modo! Difficile anche immaginare un esito diverso senza la divertita (e, chissà, forse anche risentita) partecipazione di una giuria tutta palermitana!