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L'imperativo popolare Cap 3

Post n°12 pubblicato il 23 Aprile 2014 da elio_cicca

 

L’apoteosi

“ S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”. Solo che stavolta non si tratta del campo di battaglia di Maclodio ma di un campo di calcio, quello della “Favorita”, recentemente ribattezzato “Barbera” in memoria dell’indimenticabile Presidente del Palermo degli anni ‘60, Renzo Barbera. Chiunque segua le imprese dei rosanero in tv, avrà certamente notato che spesso, oltre ai soliti cori di incitamento della squadra e di presa in giro degli odiati “cugini” catanesi ( “ Chi non salta catanese è”), ce ne sono alcuni che risulta obiettivamente difficile comprendere. Ciò accade, in particolare, quando ci sia una rimessa dal fondo campo da parte del portiere. Proprio nel momento in cui viene calciata la palla, parte un primo coro da una delle curve. Immediatamente quella opposta risponde rimandando il coro alla prima la quale chiude il dialogo a distanza con un ultimo urlo. E’ una sorta di ping- pong sonoro che si conclude con un applauso generale cui si uniscono le gradinate e le tribune tutte. Qual è l’argomento di tanto tripudio? Cosa urla la gente con tanto calore? Bisogna essere andati allo Stadio per capirlo, perché solo lì, dal vivo, si può comprendere e, volendo, partecipare con gioia all’immancabile festa dei tifosi DOC. Il “gioco” parte in concomitanza del rinvio del portiere con un possente SUCA al quale la curva opposta risponde: “ Fuorte” . Di rimando, la prima urla :“C’a puompa”e l’altra, a sua volta, ribadisce: “Chiù fuorte!”. Quindi l’applauso, grandioso, liberatorio, catartico. E’ l’apoteosi dell’imperativo popolare! Se già il pronunciarlo o il sentirlo pronunciare provoca un certo effetto, pensate all’emozione di gridarlo in trentacinquemila! Imparagonabile e, al contempo, imperdibile. Quelle poche migliaia di supporters della squadra ospite, stipati nel chiuso della cosiddetta “gabbia” che li protegge ed evita gli scontri, assistono stupiti ed ammutoliti al “rito”, senza comprenderne il senso né la finalità. Tornati a casa non ci penseranno più o scambieranno per entusiasmo caloroso quella partecipazione così vivace del pubblico del “Barbera”. Come spiegare tutto ciò? Come spiegarlo a mia figlia che, nonostante i suoi sei anni (buon sangue non mente), è gia tifosa di Toni & Co.? “ Papà, ma che dicono?”. “Niente, tesoro. Fanno il tifo per il Palermo. Facciamolo anche noi: Forza Palermoooo!”.

“ All’alta fantasia qui mancò possa…”

 
 FINE

 

 

 

 

Dedica:

A Zupa che, con la sua tenace pazienza, mi ha “costretto” a prendere in mano penna e carta;

A Chiara che, leggendo questo libro da grande, forse mi ricorderà con simpatia.

Ringraziamenti:

A Vincenzo Inglese, la cui quarantennale amicizia mi ha ispirato e suggerito tante idee;

A Maria Elena Vittorietti, un tempo alunna ed ora Editor. (Chissà che sadica gioia avrà provato nel giudicare chi per anni la giudicò!)

Alla mia memoria che, per quanto a tratti, malgrado tutto, “ancor non mi abbandona”.

Scuse:

 

A tutti quei poeti che tanto indegnamente citai qui,“Da l’infima lacuna de l’universo”.

 

 

 
 
 

L'imperativo popolare Cap 2

Post n°11 pubblicato il 23 Aprile 2014 da elio_cicca

Questioni di “rispetto”

Volgare, vastaso, tascio, l’imperativo popolare (e con lui tutte le locuzioni che lo contengono) non conosce confini di classe sociale né, come si è appena visto, di luoghi o di occasioni. E’ pur vero, tuttavia, che un qualche limite esiste, sia pur molto esile, tale “ Che ‘l trapassar dentro è leggero”. Questa soglia, al di là della quale non è lecito andare, è il “rispetto”. Intendiamoci: si tratta di un concetto molto anfibio che vale sì ma che può anche essere aggirato senza destare soverchia sorpresa e senza esserne troppo svilito. E’ il caso che si presenta quando l’imperativo viene rivolto a persona più anziana. In queste occasioni è buona abitudine farlo precedere da un rispettosissimo Assa che non ne muta il senso ma, per così dire, lo colloca in un contesto linguistico d’altri tempi, quando ancora si usava il Voi. Allo stesso modo, rivolgendosi all’anziano nonno che fatica ad accendere il Toscano o la pipa, per invitarlo ad un maggior vigore nell’aspirazione, rispettosamente gli si dice: “Assa suca ca sbampa”.

Onde illustrare meglio il concetto, riferirò un episodio narratomi da un vecchio amico, oggi valente e stimato cattedratico ma, all’epoca dei fatti, poco meno che “cagnolo” in quanto in buona compagnia di altri suoi coetanei. Puntualizzo subito per non creare fraintendimenti: singolarmente presi, si sa, i ragazzi sono tutti buoni, bravi e cari ma quando fanno gruppo e si lasciano trascinare da quel demone che è il sivo ( o trippo o sdillinchio che dir si voglia), sono dolori! Lo ripeteva spesso Don Biagio M., Padre agostiniano reverendissimo non meno che illustre grecista che ha educato intere generazioni di liceali al Gonzaga , quando ancora si chiamava così. Quando, nel corso dei Consigli di classe, veniva richiesto di un parere sul comportamento di un qualche studente, con monotona convinzione ripeteva: “Senatores boni viri, senatus mala bestia!”. All’epoca dell’episodio prestava servizio di portineria un uomo simpaticissimo, ex sarto prima di trovare questa occupazione, da tutti stimato per la sua cortesia oltre che per il suo alto senso del dovere e dell’ubbidienza alle regole della Casa, come, non senza ragione, usavano chiamare il Liceo Gonzaga i Gesuiti che per l’appunto ci abitavano. Ogni mattina, sempre alla stessa ora, con svizzera puntualità, il portiere, il signor V., suonava la campana dell’entrata e subito, vociante e confusa si riversava la folla degli studenti diretti ciascuno alla propria classe. Un bel giorno, chissà a chi e perché, a qualcuno venne in mente di approfittare di quel momento di calca per urlare all’indirizzo del signor V. un sonoro SUCA seguito, appunto, dal suo cognome. Era evidentemente un gesto vile in quanto, oltretutto, chi lo metteva in atto era praticamente sicuro di non poter essere mai identificato in quella folla. Il signor V. dapprima non ci fece caso ma davanti al ripetersi quotidiano dell’episodio, aggravato dal fatto che dopo i primi giorni non più uno solo ma addirittura un gruppetto di scanazzati aveva preso l’abitudine di apostrofarlo in coro, decise di passare al contrattacco. Si appostò dalla parte opposta a quella dove si trovava la sua guardiola e non ci mise molto ad acciuffare gli sciagurati. Li rimproverò assai aspramente, li minacciò di riferire tutto alle rispettive famiglie oltre che al Padre Rettore, ricordò loro che i ragazzini devono portare rispetto a chi è più anziano e si guadagna da vivere onestamente…… L’indomani, la solita folla vociante si riversò nell’androne dell’austero edificio e mentre ancora il buon V. teneva il dito sul pulsante della campana, dalla marmaglia si levò un coro: “ Signor V. , SUCHI!!! “. Era bastato l’uso del congiuntivo per ristabilire il rispetto!

Un’etimologia ( azzardata?)

Chiunque abbia frequentato il Liceo e si sia cimentato nell’ardua prova della traduzione di un classico greco, avrà certamente incontrato per via il termine psuchè che vuol dire “soffio vitale”, “vita” e corrisponde a quel concetto che già i latini chiamavano “anima”. Da Omero in poi il termine è praticamente presente in tutti o quasi gli autori classici. Se nel tradurlo nessuno studente degno di questo nome ha mai trovato difficoltà (tanto è diffuso e rinvenibile in qualunque versione), nel pronunciarlo…i problemi esistevano, stante l’allucinante somiglianza fonica con la nostra “voce verbale”. Non c’era proprio scampo: malignare era praticamente inevitabile e le battutacce e le risate irrefrenabili. Si arrivava al punto di sperare di non essere mai interrogati su qualsivoglia passo in cui figurasse il termine: meglio improvvisare una qualunque traduzione o fare “scena muta” piuttosto che scoppiare a ridere (sull’onda degli sghignazzi dei compagni ) mentre si era alla cattedra, sotto gli occhi degli inorriditi docenti! Non c’era (e non c’è) evidentemente altro legame tra i due termini se non quello esclusivamente sonoro, “musicale”: si tratta infatti di concetti talmente distanti che nemmeno al più aberrato sarebbe mai venuto in mente di metterli in relazione. Peccato! Perché se allora, quando si studiava il greco, a qualcuno fosse venuta la curiosità di chiedersi quale fosse veramente l’etimologia del popolarissimo SUCA….chissà! Voglio provarci adesso. Spero scuserete il ritardo ( nonché l’ardire)! Nella Grecia antica pare andassero assai “di moda”i furti di fichi, cosa peraltro comprensibilissima considerata la loro abbondanza nell’area Mediterranea oltre che la bontà del frutto in sé. Era una pratica talmente diffusa e difficile da estirpare, nonostante le leggi promulgate per debellare il fenomeno, che ci fu chi s’inventò la professione di accusatore dei ladri di fichi.

Costui si chiamava sicofante ed altro non era se non una spia, un delatore o, in caso di innocenza, un diffamatore. “Che c’entra questo? “ Si chiederà qualcuno spazientito. C’entra sì, perché in greco fico si dice sukon , nome neutro, che al nominativo plurale fa suka.  Ed eccoci arrivati al capolinea del ragionamento. Se la strada percorsa fosse quella giusta, allora si potrebbe proporre anche più di una interpretazione etimologica per il nostro imperativo. La prima, la più evidente, si riconnetterebbe alla sfera sessuale, a quella “oralità” alla quale apertamente si riferisce l’imperativo popolare: i fichi, come noto a tutti i buongustai, non si mangiano soltanto….! Intelligentibus pauca. E poi, come non collegare il termine alla voce popolaresca ( non soltanto siciliana) che designa l’organo sessuale femminile? L’altra via sarebbe invece quella che richiama alla mente l’odiato mestiere del sicofante, il che spiegherebbe la carica di disprezzo, di eversivo ed irridente sarcasmo che quasi sempre si intuisce nelle scritte, solo apparentemente immotivate, che riempiono la città! Che altra valenza può avere, per esempio, scriverlo in ascensore senza neanche l’indicazione del destinatario cui l’ingiuria è rivolta? Vuoi vedere che i convittori della mia infanzia erano gli inconsapevoli “portatori sani” del millenario gene dell’odio verso gli spioni? O dei contestatori sovversivi e rivoluzionari in pectore? Ah, l’etimologia! Che miracoli può fare! Ma, a proposito: siamo veramente sicuri che si tratti di una scienza esatta?

Espressioni proverbiali

Se, come giustamente si ritiene, nei proverbi si riconosce l’anima di un popolo (oltre che la sua sagacia e la sua saggezza), allora sarà opportuno darci almeno una sbirciatina, sia pure superficiale, dal momento che le espressioni proverbiali, per la loro stessa natura di manifestazioni prevalentemente orali nate all’interno delle cosiddette “culture subalterne”, sono tanto intimamente legate alle realtà locali e presentano una tale varietà che, forse, nemmeno la pluriennale esplorazione del Pitrè è riuscita a catalogarle tutte. Proprio in questo territorio l’imperativo popolare e le locuzioni contenenti il verbo nella sua forma infinitiva hanno trovato ampia e facile cittadinanza, senza peraltro suscitare scandalo alcuno, finendo, anzi, per divenire di uso comune, per quanto colorito. Espressioni del tipo: “ Sucarisi a qualcuno cu l’uocchi” non arrossano le guance di nessuno, signorine comprese. Andrebbero, anzi, maggiormente apprezzate per la loro delicatezza perché se “ Mangiarsi qualcuno con gli occhi” è cosa che si fa in un batter d’occhi, il “sucarisi a qualcuno è operazione assai più diluita nel tempo e voluttuosa, ci si sente meglio il gusto, se ne prolunga il piacere…Come nella pubblicità televisiva di una nota mozzarella! E che dire dei babbaluci , pietanza principe e principesca di tante occasioni palermitane, Festino di Santa Rosalia in testa? Qui l’azione lenta è dettata dalla necessità di evitare i gusci ma, quand’anche ciò non fosse necessario, state pur certi che il palermitano DOC mai e poi mai brucerebbe in un solo istante un tale piacere godurioso. Certo, ci sono delle occasioni in cui il nostro verbo trova pure luogo in contesti di scarsa piacevolezza anzi di vera e propria delusione, come per taluni festeggiamenti, come quelli che seguono matrimoni e battesimi, per i quali ci si era preparati magari attraverso un duro digiuno, ma che si sono poi rivelati un vero FLOP, almeno dal punto di vista gastronomico. E’ il caso delle feste proverbialmente “Fatte coi fichi secchi” che da noi vengono bollate con l’infamante Agneddu e sucu e finiu u’ vattiu, espressione che facilmente si presta a storpiature e doppi sensi. I dottissimi studenti liceali di un tempo, infatti, con la massima naturalezza usavano renderla in latino ( Agnus sucusque…) ma tra gli stessi non mancavano quelli, non meno dotti e sicuramente più maliziosi, che la mantenevano nella sua forma dialettale “limitandosi” soltanto a sostituire il sucu con l’imperativo popolare e, a chi faceva rimostranza per la volgarità, rispondevano candidi: “ Ma è soltanto un proverbio!”.

 

Mandare al diavolo

“ Te c’hanno mai mannato a quer paese…” cantava con scanzonata ironia Alberto Sordi. E, chissà quante volte ci sarà capitato di mandare qualcuno al diavolo ( o di esserci mandati)! Esiste un’espressione per così dire “nazionale” ( il celeberrimo VAFFA) ma poi c’è, un po’ come accade con i proverbi, l’infinita varietà dei modi di dire locali. A Palermo, tra le tante possibilità, ce ne sono almeno un paio che meritano di essere osservate più da vicino, sia perché contengono il nostro verbo, sia perché la dicono lunga sulla creatività verbale dei concittadini. La prima ( va sucati un pruno ) si caratterizza per la sua insolita morbidezza, per la finezza del sentire che vi è sottesa, tale da apparire addirittura fuori luogo in un contesto che si suppone carico d’ira e/o di delusione. A chi verrebbe in mente di esprimersi così durante una agitata se non proprio violenta discussione per un posteggio oppure a conclusione di una storia d’amore, di quelle che si chiudono con il tanto tradizionale quanto ipocrita “ Restiamo buoni amici” ? Ci si aspetterebbe sonori schiaffoni, pianti, “ Orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle”… e invece, basta un semplice quanto efficace: “ Ma va sucati un pruno”! Ci vuole proprio il “ Cor gentile” per esprimersi in siffatta manieeeeera (per dirla con l’ex Presidente del Milan) ! Pur tuttavia non sempre le umane reazioni sono caratterizzate da toni altrettanto idillici: spesso gli stati d’animo divengono esacerbati, l’ira e lo sdegno, non più controllabili, superano gli argini delle buone maniere, tracimano, travolgendo tutte le convenzioni e persino il buon senso. E’ in questi frangenti che può accadere di sentire: “ Va sucaci i piriti ai gnuri” . Si tratta di espressione ignominiosa e decisamente plebea, ributtante, vomitevole alla quale qualcuno fa ricorso solo quando l’odio si sposa con lo sdegno, la rabbia cieca con il disprezzo. Impensabile una cosa simile ed ovviamente, in quanto provocazione, irrealizzabile. Ma , ve la immaginate una situazione del genere? No, decisamente no. Il solo pensiero fa “Tremar le vene e i polsi”. Per quanto comprensibile sia il perdere le staffe, questo proprio non si può giustificare. Resta però un dubbio: perché proprio “ ai gnuri”, cioè i cocchieri ? Cos’hanno di più abominevole rispetto al restante genere umano i “ gnuri” ? Non sarà mica per la vicinanza coi cavalli?

Sarcasmo ed ironia

Tra i tanti usi (e talora abusi) dell’imperativo popolare, c’è ampio spazio per le stilettate sarcastiche, ironiche e, più in generale, per quei motteggi che, a seconda della situazione, riescono a mettere in difficoltà il prossimo (meglio se un avversario) dissuadendolo dalle sue intenzioni oppure coprendolo di ridicolo in modo da indurlo a non “provarci” più. Accade così, per esempio, che a qualcuno venga in mente di fare una proposta per così dire insolita e magari provocatoria del tipo:” Totuccio, che ne dici di portarci tutti al ristorante e di pagare il pranzo?” La risposta di Totuccio non può che essere l’arcinoto SUCA con la non lieve variante di un abnorme prolungamento dell’accento sulla “ U “ ( SUUUUUUCA!!!) dove il conseguente stiramento del suono sta a significare, appunto, quanto pazzesca sia ritenuta l’avance precedentemente profferita. Se poi al suono si accompagna anche il gesto…. Non ci sono proprio dubbi. Analogamente, la risposta si potrebbe ripetere per qualunque tema affrontato: votare quel partito piuttosto che quell’altro; prestare dei soldi a qualcuno che notoriamente dimentica di restituirli; fidanzarsi “in casa” con una fanciulla che, per dimostrare la propria illibatezza, produce un certificato otorinolaringoiatrico…e via di questo passo. Se in tutti questi casi, evidentemente, l’imperativo popolare equivale all’espressione: “Fossi matto!” oppure “ Sei diventato pazzo?”, ve ne sono diversi altri in cui la parola, pronunciata però stavolta in maniera secca e repentina, equivale a dire: “Ma che stai dicendo?”, “Piantala “oppure “ Parla come mangi!”.

 

Era proprio questo il senso di un sonoro imperativo che fu pronunciato con voce stentorea in Piazza Politeama all’indirizzo di un uomo politico abbastanza noto che, dalla nativa provincia lombarda, era venuto a tenere un comizio a Palermo. Costui, aveva iniziato a snocciolare dati, percentuali, espressioni economiche in lingua straniera, il tutto in una prosa contorta, cervellotica e farraginosa. Ad un certo momento, nel silenzio generale dei non molti presenti, peraltro più confusi che persuasi da quella cascata di parole, si udì un solenne SUCA, rapido e tagliente come una lama. Per un attimo fu il panico: l’oratore s’interruppe, le persone ammutolite si guardarono l’un l’altra. Poi a qualcuno scappò da ridere e fu subito il contagio: nessuno più riusciva a trattenersi e tutti proruppero in un fragoroso applauso. Sul palco, qualcuno del seguito sussurrò qualcosa all’orecchio dell’uomo politico che, evidentemente perplesso, dopo poche battute chiuse opportunamente il proprio intervento e scomparve alla vista mentre dagli altoparlanti si levavano le note dell’inno del suo partito. Fu come una “caduta degli dèi”, ingloriosa ed imprevedibile e a determinarla era stata una sorta di APROSDOKETON , una battuta finale a sorpresa, come in tanta letteratura giambica ma, stavolta, dal sapore inconfondibilmente popolare.

 


 
 
 

L'imperativo popolare Cap 1

Post n°10 pubblicato il 23 Aprile 2014 da elio_cicca

Ipotesi “futuro”

Supponiamo che in un lontano ed ipotetico futuro, a seguito del verificarsi di cataclismi più o meno naturali, la nostra millenaria civiltà rimanga sepolta sotto le sue stesse macerie e che di noi e della nostra cultura si perda praticamente ogni traccia, ogni memoria. Supponiamo ancora che molti secoli dopo tali eventi, mossi da flebili indizi e da congetture ritenute pazzesche dai più, un gruppo di illuminati archeologi si muova alla ricerca delle proprie origini. Individuata una zona desertica ed inospitale, lontanissima dalle moderne città, gli studiosi iniziano gli scavi e dopo breve tempo incominciano a rinvenire interessantissimi reperti che testimoniano di un preistorico insediamento urbano il cui nome, grazie alla decifrazione di taluni misteriosi geroglifici, pare dovesse essere stato“Palermo”. Dal confronto con analoghi siti emerge con chiarezza che doveva trattarsi di una civiltà profondamente diversa dalle altre più o meno coeve e l’ipotesi trova subito conferma nel ritrovamento di una misteriosa scritta, un tetragramma, la cui diffusione in quell’area archeologica è tale da non avere eguali in nessun altro luogo conosciuto: SUCA. Gli studiosi lo trovano inciso o graffiato o dipinto nei luoghi più strani: brandelli di muri, cartelli abbattuti, strade, cortecce di alberi pietrificati….insomma, dovunque. Le ormai frammentarie conoscenze delle antiche civiltà non consentirebbero di individuarne con certezza il significato, intrinseco o simbolico che sia, con la inevitabile conseguenza di far fiorire le più svariate congetture, talune delle quali,invero, assai fantasiose. Taluni studiosi forse evidenzierebbero il valore rituale del termine, altri ne coglierebbero quello scaramantico, né probabilmente mancherebbero quelli che, ipotizzandone un uso evocativo, si spingerebbero addirittura a collocarlo nella sfera religiosa. “ Ubi veritas?” si chiederebbero quegli ignari scienziati, ponendosi interrogativi non meno assillanti di quelli che, ai giorni nostri, tormentano gli archeologi contemporanei davanti al rinvenimento di una qualche necropoli o nell’inesausta ricerca di Atlantide o nel seguire le tracce dell’Arca di Noè. Potrebbe davvero andare così? Chissà. Di sicuro, per me, è andata nel modo seguente.

 

La scoperta

La mia prima volta fu a circa sei anni. Il luogo, l’austero e freddo Convitto Nazionale di Piazza Sett’Angeli, alle spalle della Cattedrale. Avevo chiesto, timido e vergognoso, il permesso di uscire alla mia severissima Signora Maestra e lei, lasciandosi appena scivolare fin sulla punta del naso gli occhiali, aveva scrutato le mie due dita, unite e sollevate, che invocavano il suo nulla osta e aveva giudicato sincera la mia richiesta, spontanea e degna del suo “Sì, puoi andare. Ma torna presto!”. Mi affrettai davvero: vuoi per non spazientire la Maestra, vuoi perché davvero mi scappava! Fu proprio lì, in quel monumentale gabinetto, che lo vidi scritto sul muro per la prima volta: a stampatello, alla mia altezza, con penna blu, tratto sicuro e deciso.

Fu quella la prima volta che incontrai quella parola che poi, nel corso degli anni, avrei visto e sentito chissà quante altre volte e non soltanto a scuola: l’imperativo popolare per antonomasia. Avevo appena imparato a leggere e non avevo ancora iniziato a studiare la grammatica così che non sapevo ancora che si trattava di un verbo, di un imperativo. Men che mai avrei sospettato che si trattasse di una voce popolare. Per me era soltanto una parola, generica e vaga, incomprensibile e strana. Rientrai subito in classe e non ne chiesi a nessuno fino alla ricreazione. Quando finalmente giunse l’ora di tirare fuori dalla cartella ( sì, la cartella perché gli zaini allora erano soltanto accessori da montagna) la mia solita colazione, costituita da un panino farcito di abbondante cioccolato al latte ( sì, perché non c’erano, allora, le merendine né le monoporzioni preincartate), tra un morso e l’altro ne parlai col mio compagno di banco istintivamente, non so perché, sottovoce. Quello, inghiottendo a fatica il suo boccone, dopo essersi guardato in giro con inusuale circospezione, anche lui sottovoce sussurrando, mi disse: “E’ una parolaccia! Non la ripetere mai!”. Non capivo. Una parolaccia! E chi l’ha scritta? E perché l’hanno fatto se è una parolaccia? “Sicuramente sarà stato un convittore. Tu non ripeterla mai!” mi disse il fidato compagno, quasi mi avesse letto nel pensiero. I convittori! Vestivano in uniforme grigia dalla testa ai piedi. Noi, che al suono dell’ultima campana potevamo andare via, li vedevamo uscire inquadrati ed allineati in direzione delle loro stanze su per la scala che portava ai piani superiori. I convittori. Perché mai i convittori avrebbero dovuto scrivere una parolaccia sul muro di un gabinetto? Una vendetta o forse uno sfregio nei confronti di un’istituzione che li teneva segregati? Chissà. Mi rimaneva il mistero di quel termine, il cui significato restava per il momento oscuro. Ed oscuro sarebbe rimasto ancora per qualche anno, almeno finchè qualche amichetto più grande ( e più smaliziato) non me ne chiarì i contorni, il contesto e, per così dire, il senso.

Il senso

In effetti, proprio di sensi si trattava, almeno nelle prime spiegazioni che mi diedero. Tuttavia, non impiegai troppo tempo a capire che non si trattava affatto di una ben precisa pratica sessuale. D’altra parte, che motivo ci sarebbe stato di scrivere SUCA sui muri dello stadio, sulle pareti degli ascensori, nei bagni delle scuole, nelle “ritirate” dei treni, sui banchi, sui quaderni dei compagni …? Evidentemente, per comprendere il “fenomeno”, occorreva andare oltre il senso letterale, cogliere le sfumature, penetrarle e, soprattutto, non dimenticare mai che si tratta di qualcosa di intimamente palermitano e per di più sentitamente popolare. Intendiamoci: l’abitudine di scrivere sui muri (e dovunque ce ne sia possibilità, monumenti compresi) non è certo una prerogativa del palermitano DOC così come quella di adornarli con amenità varie, più o meno oscene. Tutte le città del mondo conoscono questo genere di attività creative. Ma, ditemi se ad Aosta avete mai visto scritto a caratteri cubitali un bell’imperativo popolare all’ingresso del Casino de la Vallèe o a Bologna in Piazza Maggiore o a Venezia in Piazza San Marco o a …. Provate ad andare a Piazza Politeama e vedrete la differenza! Quanto poi al fatto che si tratta di espressione decisamente popolaresca, direi che non sussistono dubbi: mai sentito in un salotto né in un’occasione mondana qualcuno degli astanti pronunciarla. Magari qualcuno l’avrà pensato ma…. quanto al dirlo…neanche sottovoce! Pena l’immediato allontanamento del “tascio” e la sua esclusione da qualunque riunione conviviale futura. Una sorta di pubblico bando che, nei casi più ostinati, potrebbe persino giungere alla damnatio memoriae!

Giochi scritti di parole

I ragazzini, si sa, amano giocare e qualunque occasione è utile per farlo; figuriamoci poi se lo si può fare con ciò che è proibito e che,quindi, meglio si presta a creare complicità, intesa tra pochi, parola d’ordine tra “eletti”. Una delle pratiche più ricorrenti nelle scuole medie degli anni ’60 consisteva nella correzione della parola in modo da travisarla e renderla, per così dire, irriconoscibile. Parlo di quel periodo, semplicemente perché fin lì (o poco oltre) si estende la mia memoria ma, in tutta franchezza, non mi sentirei di far risalire in sede storica proprio a quel tempo l’inizio di tale abitudine. Potrebbe trattarsi di usanza atavica, che si perde nella notte dei tempi…. Tale ipotesi tuttavia condurrebbe all’analisi etimologica del termine, il che sarà argomento di un successivo capitolo (se avrete la pazienza di arrivarci). Torniamo dunque ai Fab Sixties. Non ci voleva molto: bastava un minimo di manualità, una penna dello stesso colore, pochi tocchi et voilà! Il gioco era fatto: l’imperativo popolare diventava 800A , espressione misteriosa (almeno secondo noi), che solo gli adepti avrebbero compreso. Era proprio la voglia di “fare gruppo” a motivarci anche se non posso escludere che talora interveniva una sorta di pudore, di volontà riparatoria a spingere quella stessa mano che aveva imbrattato il muro o il registro di classe a farsi pietosa e ad intervenire artisticamente, non foss’altro che per non incorrere nelle ire dei “grandi”. Un ulteriore lampo di genialità fu quello di trasformare l’irriguardoso termine in sigla, in acrostico di qualcosa il cui senso complessivo, secondo noi, sarebbe sfuggito ai più. Fu così che divenne S.U.C.A. e a chi ne chiedeva il significato, con candore e malcelata malizia, si rispondeva: “ Ma, come, non lo sai? E’ una nota casa dolciaria, la famosa Società Unica Caramelle Amenta!”. Qualcuno ci cascava. Rimaneva però un problema da superare: che dire di quel FORTE che spesso accompagnava il nostro tetragramma? Più tardi, negli anni del liceo, quando più compiutamente si affinano le innate qualità critiche e creative in un crescendo culturale di tipo esponenziale, a qualcuno venne in mente di stupire il mondo e, novello Marino, ben consapevole che “E’ del poeta il fin la maraviglia, chi non sa far stupir vada alla striglia”, scrisse con la vernice nera e a caratteri giganteschi sul muro esterno del Liceo Umberto in Via Parlatore un imponente SUDA cui, a scanso di equivoci, aggiunse in basso (ma a caratteri appena visibili) l’onnipresente FORTE. Erano gli anni della “contestazione studentesca”, dell’impegno ideologico, del mito della rivoluzione più o meno permanente e spesso la passione politica veniva estrinsecata anche così. Nessuna sorpresa dunque quando su un muro nei pressi di un altro liceo palermitano apparve la scritta : “ El pueblo unido che mas sarà vencido”, slogan assai diffuso a quel tempo e conosciuto praticamente in tutto il mondo grazie alla musica degli Inti Illimani. Decisamente più sorprendente fu invece l’intervento scritto di un’ignota mano che, per non tradire la natura linguistica ispanica di quell’espressione, aggiunse un laconico quanto beffardo :” SUECA”. Nessuno riuscì mai ad identificarne l’autore e rimase il mistero se si trattasse di un avversario politico di destra o soltanto di un burlone, ipotesi, questa, che comunque non escludeva sic et simpliciter l’altra precedente. Eh! La scuola! Che palestra per l’ingegno è la scuola!

Giochi orali (di parole! Accidenti alla malizia!)

Il Liceo Umberto ( non me ne vogliano i coetanei che frequentavano gli altri Licei) era in quegli anni una vera fucina di intelletti. Non solo valenti e stimati professionisti (di cui non farò i nomi perché temo di dimenticarne qualcuno e io…. al saluto ci tengo!) si sono formati su quei banchi ma anche tanti altri personaggi destinati a diventare popolarissimi anche a livello nazionale e persino internazionale. Due nomi per tutti: Gigi Burruano ed il collega Gianni Nanfa. Il clima era a dir poco effervescente, tanto che a voler narrare soltanto gli aneddoti risalenti a quegli anni, ci sarebbe da farne un altro libro. L’euforia che si respirava nell’aria era talmente contagiosa da prendere anche chi si trovava nei paraggi, come Totuccio,il panellaro che stazionava dalle dieci in poi davanti al cancello dell’Umberto in attesa della sospiratissima ricreazione. A quel punto iniziava anche lui ad esibirsi ed era solito abbanniare così la sua rosticceria: “ Arancine! E su’ c’a carne! E s’un m’i vinnu m’i manciu!”. A nessuno sfuggiva l’arguzia del gioco di parole dove l’espressione “E sono con la carne” non intendeva soltanto magnificare la genuinità e l’abbondanza del ripieno ma…alludeva! Indovinate voi a che a cosa! Così, mentre le ragazze, fingendo di non capire o di non aver sentito, “giovenilmente vezzeggiando” si allontanavano mangiucchiando le loro porzioni di crocchè, panelle e rascature, i più “anziani” dei nostri, che evidentemente nel corso del tempo avevano maturato con Totuccio ( e con il non distante tavernaro, U’ zu’Arturo *** ) un rapporto più che confidenziale, si producevano in una sempre varia e scoppiettante cascata di battute che durava sino all’odiato suono della campana di fine ricreazione. Non c’era bisogno di aspettare il Festino di Santa Rosalia perché quella era già una vera masculiata!  C’era chi, memore di quanto appreso alle Medie, invitava il compagno a tradurre in dialetto espressioni del tipo:” Tua sorella mi lascia il secchio dietro la porta”e, a traduzione avvenuta ( To suoro mi lass’u catu rarrieri a porta”), si scompisciava felice perché l’amico era caduto nel tranello linguistico. Qualcun altro, tanto per restare in tema di sorelle, improvvisava rime baciate del tipo: “ A temp’i lattuca, to suoro m’a …” E tutti in coro, come presi da un raptus, urlavano a squarciagola il bisillabo mancante alla rima. Non mancava infine chi, evidentemente punto sul vivo, trovava la forza di reagire e, mostrando spirito ed acrimonia ad un tempo, rispondeva: “ A mia e ‘o duca”. Si trattava forse di un residuo di un’aristocrazia d’altri tempi? Chissà.

Lontano da scuola

D’altra parte, anche lontano dalla scuola le amenità non mancavano come, per esempio, a Villa Bonanno. Qui erano soliti riunirsi (e credo lo facciano ancora) tanti pensionati che, tra le immancabili ingiurie rivolte al governo e le lamentele per i crescenti acciacchi, usavano trascorrere il tempo giocando a carte su improvvisati tavolini costituiti da una cassetta per la frutta ed un pezzo di cartone steso sopra a mò di ripiano. Chiunque passasse da quelli parti poteva sentirli urlare espressioni del tipo: “U carricu! Calaci u carricu fuori via!”. Talvolta, se qualcuno sbagliava la giocata o era in procinto di farlo, il compagno lo avvisava minaccioso: “ Si l’assu cari” mentre gli altri che già pregustavano l’errore e la conseguente, inevitabile lite, accennando con la testa ripetevano: “ L’assu cari, l’assu cari”. Certe volte, abbandonate le solite argomentazioni, la conversazione assumeva caratteri, per dir così, stagionali, intonati cioè alla stagione in corso. Accadeva allora che in inverno, in una giornata particolarmente fredda, qualcuno esclamasse: “ Cu stu friddu, u nasu care!” manifestando così il proprio intirizzimento nonché la preoccupazione che il naso, repentinamente congelatosi, potesse cascargli per terra. Analogamente, in primavera, quando la mitezza dell’aria induce ad alleggerire l’abbigliamento, c’era pure qualcuno che, rivolgendosi all’amico freddoloso che ancora si ostinava a vestire abiti invernali, gli diceva: “ S’u calasse u’ cuddaru!” invitandolo in tal modo a partecipare al risveglio della natura! Certo, a Firenze avrebbero cantato : “E’ primavera, svegliatevi bambine..” Ma qui da noi…perché non esercitare la fantasia sfruttando le enormi potenzialità dell’imperativo popolare? Non saprei dire quante volte mi è personalmente capitato di assistere a conversazioni, giocate sul filo della malizia, come quando qualche simpaticone, fingendo di aver perduto le chiavi, indicando un posto qualunque, chiede all’amico: “Ci su chiavi?” oppure quando in un Salone (o Sala da barba, se preferite), luogo tradizionalmente deputato allo scambio di facezie, il barbiere, con un ghigno che lascia ben poco spazio al dubbio, chiede all’avventore se vuole essere servito “ misu ca’ testa n’arrieri” vale a dire “con la testa rivolta all’indietro”. Naturalmente sta parlando dello shampoo! Indubbiamente ci vuole faccia tosta, genio e malizia, ma non sempre. Esiste anche una comicità involontaria!  Come quella volta che un caro ragazzo, a tutti noto per la sua bontà d’animo, gentile e disponibile verso il prossimo (e forse proprio per questo suo essere “inoffensivo”, sempre circondato da leggiadre fanciulle), raccogliendo le confessioni e le lacrime di un’amica abbandonata dallo zito, per consolarla non trovò di meglio da dirle se non: “ Su, Camilla! Non fare così!”. Non l’avesse mai detto. Apriti cielo! Di quel che accadde poi “Fia laudabile il tacerci”.

La sfida

 

Si diceva, qualche pagina fa, delle nuances che l’imperativo popolare assume a seconda dei contesti linguistici e delle occasioni di vita in cui viene adoperato. Si tratta come di intonazioni diverse, di pennellate di colore che il “maestro” imprime all’opera e che possono portare al capolavoro, quando estro e genialità riescano a fondersi. Ciò accade, per esempio, quando ci si trovi in condizioni particolarmente proibitive, in situazioni in cui l’avversario è, sul momento, palesemente più forte, magari perché indossa una divisa. E’ allora che bisogna far ricorso a tutto il proprio “sangue freddo” ed a tutte le proprie energie intellettuali, astenendosi dall’uso di quelle fisiche, così da averla vinta malgrado tutto. E’ ancora ben presente nella memoria di tanti, allora giovani frequentatori delle Aule del Tribunale, l’episodio che vide protagonista l’avvocato B., penalista di chiara fama nonché “Principe” del Foro palermitano negli anni ’60, il cui patrocinio venne richiesto da un suo amico di vecchia data, nonché suo collega. Costui, nel corso di un diverbio con un vigile urbano che l’aveva, secondo lui, ingiustamente multato per divieto di sosta, era riuscito a stento a trattenersi dall’impulso di farne capoliato ma non volle rinunciare alla possibilità di esprimere argutamente il suo dissenso: in quella parte del verbale in cui allora l’automobilista sanzionato aveva la facoltà di far inserire le proprie dichiarazioni, fece scrivere, dettandola con tono solenne, la seguente frase: “ Il vigile me la può sucare”. Quello, a sua volta, non fece una piega benché, forse, a quel punto, avrebbe voluto anche lui reagire a quella sfida non solo a parole. Fece rapporto ai superiori e, convinto che la sua onorabilità fosse stata lesa da quella espressione ingiuriosa, gli intentò una causa civile con tanto di richiesta di risarcimento per il danno morale subito. L’avvocato multato chiese allora che a difenderlo fosse proprio l’amico, l’avvocato B., che di buon grado, per quanto fosse abituato a ben altri processi, accettò, vuoi per amicizia o vuoi perché intravide in quella causa l’occasione per ergersi a difensore di un’intera fetta di umanità (quella delle vittime innocenti) contro un’altra progenie: quella di coloro che, facendosi scudo dell’uniforme e del potere che ne deriva, sordi alle implorazioni di pietà, calpestano la dignità del prossimo. Una cosa epica! Come se bene e male, cielo e terra fossero giunti allo scontro finale! Le udienze che ne seguirono si fecero sempre più affollate (anche perché la fama dell’avvocato B. era davvero enorme) ed il dibattimento vieppiù serrato e partecipato. Le argomentazioni furono le più varie e dotte ma probabilmente senza l’esperienza del grande oratore e senza la sua ammiccante fantasia il processo non avrebbe avuto storia. Alla fine, la tesi vincente fu quella messa in campo dall’avvocato B. che, ricorrendo a tutta la sua scienza linguistica (oltre che giuridica), riuscì a dimostrare che non di oltraggio si era trattato ma di semplice espressione di una potenzialità che, peraltro, tale era rimasta dal momento che il pizzardone non aveva dato seguito a quella sorta di “invito”. Difficile immaginare che in un altro tribunale la causa avrebbe potuto chiudersi allo stesso modo! Difficile anche immaginare un esito diverso senza la divertita (e, chissà, forse anche risentita) partecipazione di una giuria tutta palermitana!

 

 
 
 

La scatola delle lettere Capitolo 7

Post n°9 pubblicato il 09 Aprile 2014 da elio_cicca

Palermo 26 marzo

Grazie, grazie per gli auguri! Ma come hai fatto a ricordarti il mio onomastico? Neanche io, a dir la verità, ci avevo pensato fino alla settimana scorsa. Poi, la festa del papà e, soprattutto, l’arrivo della primavera mi hanno rimesso sulla buona strada. In effetti finalmente le giornate si allungano e il freddo, per quanto ancora fastidiosamente a tratti presente, sembra aver lasciato spazio a sempre più frequenti pause di lieve tepore, di quelle che ti mettono voglia di uscire, di partire, di rinnovarti. E che la primavera sia arrivata te ne accorgi da tanti segni, a cominciare dal traffico per le strade. Non di quello automobilistico parlo: quello, si sa, è sempre presente e con l’inquinamento che provoca, contribuisce, per dirla con un alunno di qualche anno fa, ad allargare “ il buco dell’orzoro” attraverso il quale, come noto, filtrano i pericolosissimi “raggi ultraviolenti”. No. Parlo della gente che si riversa per strada, della “gioventù del loco” che “lascia le case e per le vie si spande e mira ed è mirata”. Dico delle ragazzine che vagano, ombelico al vento e mutanda firmata in bella vista, dal Massimo al Politeama facendo capolinea davanti al Mac Donald. Intanto, nei quartieri popolari e nei mercati torna, a bordo della sua lapa, quel tale che, inconsapevolmente minaccioso, ti ricorda: “ Quando mi cercate non mi trovate” e, pertanto… “Accattativi u’sale!” mentre intanto lui, novello Nostradamus, ben lieto di aver seminato il panico tra le casalinghe, “Di sentiero in sentiero rinnova il grido giornaliero”. Sembrerebbe proprio che nulla sia cambiato nel ciclico ripetersi delle stagioni se non fosse per i prezzi: prima erano “Cingue pacchi milla lira” ora “ Quattro pacchi un euro”. Più o meno come accade per la carta igienica: fino a qualche anno fa avresti sentito abbanniare: “ Ventiquattro rotoli doppio velo li pagate a milla lira”. Ora.... beati gli stitici! Caro Pappo, io ci scherzo su ma certe volte mi verrebbe da ripetere anch’io quella battuta amarissima che ho sentito sull’autobus poco tempo fa. La vettura era, come al solito, piena come un uovo. Alla fermata dell’Arco di Cutò sale un vecchietto, carico dei pacchi della spesa fatta a Ballarò, che va diritto al posto riservato agli invalidi e, fatta alzare una ragazza, posato faticosamente il suo bagaglio, si lascia scivolare, dapprima lentamente e poi pesantemente, sul sedile. Quindi, tirato un gran sospiro esclama: “Ah! S’ u’ sapieva... arristava picciottu!”. Paradossale, surreale, straordinaria, geniale battuta! T’immagini se si potesse fare davvero? Cambiamo discorso. A proposito di spesa appena fatta, ieri me ne è capitata un’altra che mi ha lasciato di stucco. Tornavo a casa cercando di stabilire se poi sia vero o no che “ U’ pipi è megghiu r’a’ carne” e sorridevo tra me e me perchè ancora nelle orecchie mi risuonava l’abbanniata maliziosa del fruttivendolo ( “L’aiu gruossa, l’aiu nivura! A mulincianaaaa!”)quando, all’altezza di Via Trabia, angolo Via Maqueda, mi imbatto in una coppia di giapponesi, con tanto di mappa della città in mano, che si guardavano intorno indicando “or quinci or quindi”, mentre parlavano fitto tra di loro, evidentemente indecisi sulla direzione da seguire. Proprio in quel momento passa un ragazzino, tutto vestito di bianco, a cavallo di una bicicletta con una gran cesta montata sulla ruota posteriore. Hai presente quei garzoni dei fornai che consegnano il pane a domicilio? Esattamente uno di questi. Bene, il cagnolo, volendo fare lo spiritoso, mentre continuava a pedalare, gli passa accanto e prende a scimmiottarli parlando, secondo lui, giapponese: “ Cin ciun cian Kawasaki Mitsubishi....”. Quelli si girano e gli gridano: “SU- KA”. Proprio così. Allucinante. Dapprima ho pensato di non aver sentito bene. Poi ho dubitato che volessero dire “scusa. Poi mi sono chiesto cosa diavolo potesse significare in giapponese. Infine, non mi è rimasta altra spiegazione logica se non quella che nasce dall’esperienza che un po’ tutti, andando all’estero, abbiamo fatto: non sono forse proprio le “parolacce” le prime cose che si chiede di sapere e di imparare quando si visita un altro paese? Che ne pensi tu? Fammi sapere.

Fissato! Non c’è altro aggettivo per definirlo. E poi, se avesse almeno girato un po’ per il mondo…. magari avrebbe scoperto che la stessa espressione esiste praticamente in tutte le lingue! Ti ricordi quando mi hanno trasferito a Barcellona?

“Certo che mi ricordo… le Ramblas, la Sagrada Familia, il ballo della Sardana ogni domenica a mezzogiorno….che bellezza!”

E del mio collega di stanza ti ricordi? Quello che per mandare qualcuno a quel paese gli diceva: “ Vete a chuparla!”, che poi equivale esattamente al palermitano “Suca”.

“Già, che simpatico che era…”

Beh, a questo punto devo proprio scrivergli! Non foss’altro che per dargli il nostro nuovo indirizzo.

“ Giusto. Non dimenticare di mandargli i miei saluti”.

Caro Jolly,

scusa la mia scrittura a tratti tremolante ma ti scrivo da un treno in movimento. Che ci faccio su un treno? Indovina un po’….. Ancora una volta, come sempre (mi verrebbe voglia di dire), sto cambiando la “location” della mia esistenza. Vado a vivere con i miei in un’altra città dove, per via di una promozione,sono stato trasferito. Per ora di pranzo sarò nella nuova abitazione ed entro stasera anche il trasloco dei mobili sarà concluso. Nel preparare i bagagli mi sono imbattuto in una vecchia scatola dove avevo conservato le lettere che mi hai spedito in questi ultimi anni. Le ho rilette quasi tutte con grande piacere e, perché no, anche con un pizzico di nostalgia. Anzi, a dire il vero, m’è venuta tanta di quella voglia di rivedere Palermo e i suoi colori, di riconoscerla pur nei suoi inevitabili cambiamenti, di risentire i suoi profumi per le strade, le voci, le abbanniate…. Siamo quasi a Maggio e mancano ormai pochi mesi all’arrivo dell’estate. Resisterò fino ad allora e poi….toccherà a te, stavolta, di mettere in piedi il comitato d’accoglienza con tanto di trombe, tamburi e musicanti! Il mio nuovo indirizzo lo trovi sul retro della busta. Fatti vivo al più presto. 

Ti abbraccio.

Tuo Pappo.

P.S. Tieni presente che negli ultimi tempi ho mangiato polenta ogni giorno e cicoria nei giorni di festa…. Sai cosa fare!!!!

 

 

Ancora una volta........ “ All’alta fantasia qui mancò possa”.

 

 FINE 

 

Dediche:

a Zupa, imparziale giudice di primo grado

a Chiara, perché continui a sorridere anche da grande

Ringraziamenti:

alla memoria di Pietro Vittorietti, prezioso serbatoio di memorie

Scuse:

ai poeti tanto indegnamente citati

Emanuele Ciccarelli, classe 1950, è nato e vive a Palermo

dove insegna negli Istituti Superiori.

Autore di diversi saggi critici su scrittori e poeti italiani

contemporanei, ha pubblicato “ L’imperativo popolare”

( Sigma edizioni, Novembre 2005)

 

Musica, arte e calcio sono le sue passioni.

 
 
 

La scatola delle lettere Capitolo 6

Post n°8 pubblicato il 09 Aprile 2014 da elio_cicca

ALL’ALBA (o quasi)

 “Toti! Toti! Svegliati! Ma che fai lì sul divano con quella scatola in mano?”

“Oh, ciao. Ahhhhaaa! Devo essermi assopito…”

“Assopito? Hai dormito tutta la notte sul divano! Altro che! ”

“Sì? Davvero? Dev’essere stata la stanchezza del trasloco o forse quella pizza….”

“Vieni di là, ho preparato il caffè. Vieni.”

“Sì. Un buon caffè è proprio quello che ci vuole. Ahi! Ahi! Le mie povere ossa!”

“Ma come hai fatto ad addormentarti?”

“Non lo so proprio. Certo, quelle lettere… mi hanno fatto fare un salto indietro di quarant’anni. Sai,ho perfino sognato..”

“Che cosa?”

“Oh! Se te lo dico…tu te la ricordi Villa d’Orleans?”

“No. Dov’è?”

“A Palermo. È un posto bellissimo! Ti ci porterò quando ci torneremo. Comunque, ascolta: ti ricordiquel mio amico…”

“Sì. Me l’hai già detto. Quello delle lettere….il vecchio compagno di scuola…..Ma, dimmi un po’, toglimi una curiosità: perché ti chiamava Pappo? Che razza di soprannome è?”

“Ah! Lunga storia! Devi sapere che lui dava i soprannomi a tutti….A spetta, ti leggo una delle lettere della scatola che spiega tutto… Ascolta…

Carissimo,

avevo appena preso la penna in mano per comunicarti la lieta novella, quando nel mio studio si affaccia mia moglie: “ A chi scrivi?”. “ A Pappo”, rispondo. “ A chi?”. “ A Pappo!”, ribadisco.

“Pappo? E chi è Pappo?”. Già! Chi è Pappo? O meglio, da dove e quando e perché è nata questa ‘ngiuria? Sai che a furia di chiamarti così, quasi non ricordavo più l’occasione in cui ti ribattezzai con questo nomignolo destinato a restarti appiccicato addosso, anche nei ricordi dei vecchi amici! Ho dovuto fare un certo sforzo di memoria che, per fortuna, “ancor non m’abbandona”. Ho ricostruito sinteticamente ben cinque anni della nostra vita, dal quarto ginnasio alla maturità, rivedendo in rapida successione episodi, situazioni, persone e personaggi, gioie e dolori e, per dirla col Poeta, “ Ciò che per l’universo si squaderna”, tutto nel volgere di pochi istanti. Poi, ritrovato il bandolo della matassa: le ho parlato di quell’antica maschera dell’atellana, di quel personaggio sempre pieno di voglie insoddisfatte, vecchio, piccolo e calvo che finisce sempre con l’essere preso in giro per certe sue abitudini... in una parola PAPPUS. Proprio come, appunto, io avevo preso a chiamarti. Certo, allora, vecchio non eri né calvo ma di certo non eri un corazziere! Chissà poi perché ( mettendo da parte certe tue abitudini ) mi nacque quell’ispirazione ma certo mi piaceva proprio quel nome, sarà stato forse per il suo suono... Di certo la cosa piacque e fu così che per tutti diventasti “ Pappo per sempre”. Meno male che mia moglie è del mestiere, così che poche parole sono bastate a farle capire il contesto culturale ch’era sotteso a certe invenzioni e non c’è stato bisogno di spiegarle cos’è l’atellana. Ma tu, piuttosto, carissimo sbitalampe, te ne ricordi più? D’altra parte, dopo aver risposto “ a la question prima”, mi sono quasi sentito in dovere di “seguitare alcuna giunta”; il che, capirai bene, mi ha fatto rivedere volti e momenti, nomi e soprannomi, scherzacci di dozzina e trovate geniali come quella volta in cui attaccammo sulle spalle dell’ignaro E.P. il pizzino tutto oraziano con la scritta “ LONGE FUGE. HABET FAENUM IN CORNU”. Che spasso! Persino la nostra severissima Prof. ssa di Latino non riuscì a trattenersi dalle risate! Non vorrei apparirti presuntuoso ( sai che non lo sono mai stato) ma, dimmi: quanti studenti, oggi come oggi, saprebbero tradurre in gioco quanto vanno apprendendo a scuola? Noi ci riuscivamo e non eravamo certo secchioni! Ti dirò, l’abitudine di affibbiare soprannomi mi è rimasta anche da Prof. e non saprei più calcolare a quanti ho assegnato un nomignolo, magari in riferimento a certi modi di essere o di fare, come a quell’alunno che ribattezzai Nelson ( e sempre lo chiamavo “ Ammiraglio”) perché una volta lo beccai a giocare a battaglia navale. L’unico neo in questa prassi ormai consolidata è che, col passar del tempo, io finisco col ricordarmi solo le ‘ngiurie che ho assegnato e, se mi capita di imbattermi in qualche ex alunno, non so più come chiamarlo! Bene, bando alle ciance, veniamo al dunque. Ti parlavo all’inizio di lieta novella. Eccola: tra pochi giorni, a Pasqua, verrò a trovarti. Sarà la più classica delle rimpatriate. Prepara il racconto sintetico di quel che hai combinato nell’ultimo quarto di secolo, tira fuori le foto dell’epoca, scendi in cantina a selezionare i migliori vini della tua collezione, stendi il tappeto rosso e intona gli strumenti musicali. Sto arrivando e... non preoccuparti per la cassata. Quella te la porto io. A presto.

“ Sì, mi ricordo! Fu quella volta che venne a Pasqua, quando eravamo a Bolzano…Quanti anni fa è successo?”.

“E chi se lo ricorda più? Lui direbbe “circa venti milioni di capelli fa!”.

“Beh, comunque adesso si è svelato l’arcano del nomignolo! Ma anche tu gliene avevi dato uno. Perché lo chiamavi “Jolly”?

“No, non glielo avevo trovato io quel soprannome. Fu un altro vecchio amico, Pippo, che cominciò a chiamarlo così per scherzo, non so bene per quale motivo…forse perché si adattava a tutte le situazioni…come il Jolly nel mazzo di carte…”. “Comunque sia, mi pare di capire che a quella scatola ci tieni… Perché non te la porti sul treno e finisci la tua lettura durante il viaggio?”. “Oddio! Sapevo che mi leggi nei pensieri ma stavolta…. Ti sei superata! Quest’idea…è geniale e risolve un bel problema perché non sapevo proprio dove metterla! Sei straordinaria!”.

“Ti conosco troppo bene! È questa la verità… Però adesso, fammi il favore: mettila da parte e cerchiamo di completare il lavoro. Si sono fatte le otto e tra un’ora dobbiamo partire”.

“Giusto. Svegliamo i ragazzi, ci prepariamo e andiamo. Francesco ! Maria! Emanuele! Sveglia! Si parte! “.

SUL TRENO

 “Eccolo qui il nostro scompartimento. È tutto per noi. Ragazzi sceglietevi i posti che volete, possibilmente senza litigare!”.

“ Io mi metto accanto al finestrino”.

“Io pure”

“Uffa! Ogni volta la solita storia! Ma io quando mi potrò sedere dove voglio?”.

“Ragazzi, per favore, non facciamo storie! Magari tra un paio di ore vi darete il cambio”.

“Giusto. Ha ragione mamma. Un po’ per uno…. D’altra parte il viaggio è lungo e ci sarà spazio per tutti. Tu hai i tuoi fumetti, tu hai il tuo giochino spaziale…”

“E tu hai la tua scatola…”

“Embè? Che c’è di male? Sempre meglio del tuo quotidiano sportivo con gli scoop sugli acquisti “stellari” e le formazioni “ideali” di tutti i tempi!”.

“Ecco che comincia a muoversi. Speriamo che arrivi puntuale così potremo aprire la casa ed accogliere senza problemi la ditta dei traslochi con le nostre cose. Allora, buon viaggio a tutti. Anzi, buon ennesimo viaggio!

IN PARTENZA

Senti, mi fai dare un’occhiata al tuo giornale? Sono curioso di vedere la formazione dei rosanero. È una squadra incredibile: batte le grandi e poi, magari, le busca con le provinciali al punto che quella che un tempo era “l’inespugnabile Favorita” è diventata terra di conquista e per uno come me, che ha i globuli rosanero malgrado la distanza, è una sofferenza continua. Piuttosto, meno male che ormai tutte le partite vanno in diretta sul satellite e non bisogna per forza andare allo stadio o nelle vicinanze per sapere cosa è successo, anzi, come si diceva a Palermo, “cu signò?”, “comu finìu?”. Dovete sapere che un tempo…

“Quanto tempo fa, papà?”

All’incirca….45 anni fa, se non sbaglio.

“Oh! Appena ieri! Allora, dicci, che succedeva a quei tempi?”

Ecco, stavo proprio dicendo che un tempo per conoscere i risultati del Palermo, si doveva necessariamente “scendere” al Politeama e comprare il “ Lampo Sport” che era un giornale che andava in vendita appena mezz’ora dopo la conclusione degli incontri. Sapeste quante illusioni e quanti abbagli ho preso a causa di quello strillone che, per vendere qualche copia in più, puntualmente abbanniava: “ A’ grannissima vittoria r’u’ Palermo!”. Era proprio un gran lazzarone ma ci sapeva fare! Capite?Come si poteva rinunciare a sapere subito se aveva segnato Vernazza o Borjesson, Favalli o Tanino Troja?

“Chi?”

Erano i campioni di quei tempi. Dicevo che si comprava il giornale e, bene che andasse, si scopriva che era stato un pareggio se non addirittura una sconfitta, magari con l’onore delle armi, ma pur sempre una sconfitta. E ci cascavamo in tanti! Certe volte però quel fetente rinunciava all’inganno, si armava di una sorta di crudele spiritosaggine tutta sui generis e urlava: “ Come si fa battere bene u’ Palermo”. Se non era sadismo....... doveva certamente essere un parente stretto. Ah, lo stadio! Chissà com’è cambiato lo stadio! Mi risulta che hanno fatto lavori di rifacimento della facciata e lo hanno ampliato. Persino il nome è cambiato, hanno realizzato il cosiddetto ” settore ospiti”e tutti i posti ormai sono a sedere e numerati. A dire il vero lo erano anche prima ma nessuno rispettava la posizione avuta in sorte (o in omaggio) e c’erano sempre continue discussioni tra vecchi abbonati e new entry. Ora, invece, ho saputo che le cose vanno diversamente: i biglietti sono individuali e per acquistarli bisogna fornire le generalità; ci sono i tornelli e un po’ dovunque le telecamere spiano ogni mossa degli spettatori. Chissà se ci sono ancora i bagarini che, mescolati alla gente, ripetevano:” Gradinate! Popolari! Sanza fudda!” e ti evitavano, bontà loro, code estenuanti e ressa al botteghino. Oggi, probabilmente, non si potrebbe più verificare un episodio come quello che accadde in un Palermo- Juventus degli anni ’60….

“Che accadde?”

Dunque, dovete sapere che allora il centravanti rosa era un tal Fernando. Ebbene, costui, solo davanti la porta, con i Rosa in svantaggio per via di una precedente prodezza del grande Sivori, con Anzolin già fuori causa… riuscì a mangiarsi il gol! Roba da invasione di campo per fare giustizia sommaria di quel criminale! E proprio questo, in effetti, avrebbe voluto fare un tale che stava in piedi accanto a me. Questo tipo, che fino a quel momento era stato un distinto signore, non potendo scavalcare la recinzione, si tolse una scarpa e la tirò in campo urlando a squarciagola:” Fernandoooo! Curnutu tu e l’arance brasiliane!” con evidente riferimento alla provenienza di quel cosiddetto “oriundo”.

“Toti! Pure le parolacce!”

Scusate ma andò proprio così….

“Accidenti, papà! Questo sì che è tifo!”

Altri tempi, cari ragazzi, altri tempi! Sicuramente oggi non gira più in tribuna quel tale che con aria glaciale lanciava agli spettatori una sorta di ultimatum quando ripeteva: “Caffè Borghetti! Se passo non perdòno!” . Sembrava il Savonarola nell’atto di minacciare l’ormai prossima fine del mondo ai suoi piagnoni! Oggi, probabilmente, gli unici sopravvissuti a quel clima sono forse soltanto quei baldi giovani, dotati di una mira pressoché infallibile, che si aggiravano sugli spalti delle gradinate e dei popolari e in mezzo a selve di gambe abbanniavano: “ Ghiacciuoli! C’ u’ sapuri r’i gol”. Mah! Vediamo un po’ chi gioca oggi…

IN VIAGGIO

“Toti, scusa se ti distraggo….ma com’è finita l’altro giorno? Sei riuscito a rinnovare la carta d’identità?”

Certo. È stata un’avventura ma ce l’ho fatta.

“Perché? Che c’è di tanto complicato nel rinnovo di un documento?”

Eh! Sembra facile! Come diceva l’omino coi baffi. Tu sai che non mi fido delle cabine istallate per strada e allora sono andato direttamente dal fotografo dove sono stato accolto come un Re.

“Prego, s’accomodi! Là c’è il pettine, qui c’è la spazzola, lo specchio….”

Mi sono proprio sentito a mio agio. Ho aggiustato il nodo della cravatta, ho dato un veloce colpo di spazzola ai capelli….

“Capisco… D’altra parte, a cosa ti sarebbe servito infierire più a lungo sui poveri sopravvissuti?”

Spiritosa! Dunque, mi sono sistemato sullo sgabello regolabile ed ho esclamato: “ Signorina, mi faccia venire meglio che può!”.

“Ah! Ah! Ah! E la spiritosa sarei io?!”

Aspetta e ascolta. Quella, inclina leggermente la testa fino a sporgersi da dietro l’apparecchio fotografico, mi lancia un sorriso gelido e… “ Farò del mio meglio” mi ha risposto, ma si capiva che, tra sé e sé, stava pensando: ”Ma guarda questo rimbambito che vuol fare il malizioso!”.

“Già….infatti….”

Omnia munda mundis, moglie! Ti giuro che io mi riferivo alle foto- tessera! Ad ogni modo, dopo un’oretta circa ci sono ritornato per ritirarle. Ho visto la prima delle fatidiche quattro e non ho esitato a dire: “ Ma, sono tutte uguali?” e la signorina di cui sopra “Certamente!” mi ha risposto. Poi, forse perché resa guardinga dall’ episodio precedente, ha soggiunto: “Scusi, ma perché me lo chiede? . Ed io: “ Beh, sa com’è….. magari nelle altre sono venuto meglio!”.

“Sei il solito incorreggibile!”

Suvvia! Non si può più neanche scherzare! Piuttosto, dimmi: che te ne pare? Bisogna proprio stare attenti con la lingua! Quella italiana, intendo! Per carità, adesso non ti ci mettere anche tu a fraintendermi! Comunque sia, sono riuscito ad avere le foto e con quelle sono andato alla delegazione comunale per il rinnovo. Anche lì, come puoi ben capire, ne ho viste e sentite di cotte e di crude. Un tale doveva registrare la figlia alla quale la moglie (non lui che, da buon tradizionalista avrebbe voluto darle il nome della nonna) aveva preteso (ed evidentemente ottenuto) di imporre il nome di Hilary o Ilary o Illary o… Insomma, il poveretto non sapeva come scrivere quel nome ed ha iniziato, di concerto con il funzionario addetto, una sorta di mini sondaggio tra i presenti per determinare esattamente la grafia in questione. Una signora ha litigato con l’impiegato allo sportello perché quello pretendeva di scrivere sulla sua carta d’identità che il colore dei suoi capelli era castano mentre lei insisteva nel dire di essere bionda, bionda naturale! Ti lascio immaginare le motivazioni a sostegno: tecniche di tintura, di colore, differenze tra meches e colpi di sole, messa in piega e bigodini. Meno male che tra le voci della carta di identità non c’è quella che riporta le “ misure” femminili! T’immagini quante novanta-sessanta-novanta ci sarebbero sulle carte d’identità in circolazione! E che argomentazioni tirerebbero fuori certe signore per convicere gli ingenui addetti alla registrazione! Comunque, per concludere, dopo un paio d’ore ce l’ho fatta. Adesso, mia cara, ho un documento nuovo di zecca e per i prossimi cinque anni sono a posto. “Meno male! Tutto bene quel che finisce bene….” Già. Senti, ti andrebbe di leggere qualche lettera del Jolly insieme a me? Però devo avvisarti: potrebbe essere pericoloso!

“Addirittura! È così “esplosivo” il contenuto di queste lettere?”.

Beh, esplosivo non è esattamente l’aggettivo giusto….ma, sai com’è….ci potrebbero essere parole…espressioni…

“Toti! Ma falla finita! Prendi una lettera a caso e vedremo. Il buon Dio ci aiuterà! No?”.

D’accordo. Dunque….vediamo un po’….

Carissimo,

avevo intenzione di parlarti ancora di cibo, ma non ce l’ho fatta proprio ad aspettare la tua risposta alla mia precedente provocazione e mi sono deciso a riprendere in mano penna e carta senza ulteriori esitazioni. Il motivo? E’ presto detto. Hai mai sentito parlare di PERENOFOBIA? No? Nemmeno io, in verità, almeno sino a stamattina. Proprio stamattina però mi è successo quello che vado a raccontarti. Ho portato in classe i compiti di Italiano che avevo fatto svolgere in classe ai miei alunni di terza.La settimana scorsa li avevo corretti e, fra i tanti, ne avevo trovato uno in cui c’era la misteriosa parola PERENOFOBIA. Inizialmente avevo avuto l’impressione di non aver decifrato a dovere quella grafia ma, dopo diverse letture, non ho potuto fare a meno di constatare che proprio PERENOFOBIA c’ era scritto, nero su bianco, su quel foglio. A quel punto, mi sono convinto che s’era trattato di un abbaglio, piuttosto strano in verità, da parte di un alunno che, d’altra parte, non è certo un principiante nella nobile arte del tiro al bersaglio con gli occhi bendati. Dunque, ho sottolineato la parola riproponendomi di chiederne spiegazione al momento della consegna dei temi. Cosa che ho fatto appunto oggi.

“ Ma, che cos’è questa PERENOFOBIA di cui mi hai scritto? Cosa intendevi dire?”

“ Professore -mi risponde- ma come? Non lo sa? E’ quella paura che tanti hanno degli immigrati, degli stranieri, dei clandestini! L’ho trovata sul vocabolario! Esiste, può controllare!”. 

Rimango di sasso. Per un istante, anzi molto meno, mi ritorna in mente un episodio simile che risale al mio primo anno di insegnamento, qualcosa come più di 30 milioni di capelli fa quando, per eccesso di giovinezza e di inesperienza, segnai come errata la voce SCANCELLARE, convinto com’ero che si trattasse di parola dialettale, salvo poi a ricredermi dopo averne riscontrata l’esistenza sul dizionario. E’ stato un attimo, quanto basta a dubitare se tanta ostentata sicurezza potesse per caso avere fondamento. In fondo, come tu ricorderai, anche il nostro professore di filosofia ci ripeteva sempre che il dubbio è l’anticamera della verità oltre ad essere la scintilla della ricerca ed assai spesso anche delle scoperte.

“ Va bene- gli dico- controllerò”.

Già per strada, tornando a casa, mi ero messo a ragionare sulla possibile etimologia del termine, senza però riuscire a trovare alcuna risposta all’interrogativo. Non appena rientrato, vado subito a cercare sul vocabolario. Sfoglio, guardo con attenzione… niente. Cambio dizionario, cerco… niente neanche qui. Richiudo e…in un lampo mi si svela l’arcano! Rifletti con me: come si chiama la paura per gli stranieri? Xenofobia, lo sappiamo bene. E allora? Allora, caro Pappo, sai cosa ha combinato il nostro giovane eroe? Ha letto la parola xenofobia, ne ha compreso il significato e, da bravo scrittore di SMS (come sono ormai diventati tutti o quasi i nostri giovani), ha creduto che la X significasse PER. Proprio come si usa quando ci si scambia i messaggini via cellulare. Da qui a PERENOFOBIA il passo è breve, anzi inesistente. Era dunque vero che la parola esisteva ed era altrettanto vero che era facilmente reperibile sul vocabolario ma quell’ ignorante del professore non lo sapeva proprio! Hai capito, caro mio? PERENOFOBIA, si dice! Altro che! A pensarci bene, come poi ho fatto, una situazione analoga mi era pure capitato di viverla, anche questa comunque un bel po’ di tempo fa. Fu nel corso di un esame di idoneità, più precisamente durante un’interrogazione di Storia, quando un altro arciere cieco mi disse che a Gibilrossa Garibaldi, alla vigilia della sua entrata a Palermo, rivolse a “ Bi per io” la famosa frase:

“ Nino, domani a Palermo!”.

Quella volta non ci misi molto a capire che si trattava di Nino Bixio. Ma era un’interrogazione orale e non esistevano ancora i telefonini.

“Incredibile! A scuola ne succedono davvero di tutti i colori!”.

Oh, sicuro. Lì veramente ci sarebbe materia per scrivere libri di barzellette! Ne leggiamo un’altra?

“Perché no?”

Vediamo. Questa….

 

 
 
 
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