NOI EMIGRANTI IT.

Capitolo 2 bis


Così inizia la storia dell’Italia emigrante. I nostri giovani arrivarono in Belgio cantando, con gli occhi pieni di sole e la gola piena di canzoni. Sono scesi in miniera ridendo e sono saliti piangendo.Fra tutte le belle promesse fatte avevano dimenticato di dire qualcosa.Nessuna mai gli aveva detto che le miniere del Nord erano così profonde. 500,700,1000,1500 metri di profondità. Nessuno li aveva avvertiti che i martelli pneumatici erano così pesanti, che il cielo belga era grigio e la pioggia fredda, che il cielo era sempre basso e di piombo e che la sera le lenzuola erano sempre gelate.Nessuno gli aveva detto tutte queste cose, nessuno li aveva avvertiti che la casa in cui avrebbero vissuto aspettando le proprie famiglie, con lettini tutti uguali, coperte grigie dure, erano ex prigioni. Nessuno li aveva avvertiti che il mangiare in cantina era simile a quello dei prigionieri di guerra. Centinaia di uomini ammassati nella stessa camerata con gli occhi pieni di tristezza e di delusioni. Avevano l’impressione di aver fatto un passo indietro. Nessuno osava ritornare, avevano firmato un contratto di 5 anni. I più fortunati 3. Però c’era un’altra promessa in cui speravano, che la famiglia potesse raggiungerli ottenendo una vera casa.Giovanni era partito nel mese di ottobre, insieme a tanti altri. Erano delle decine provenienti tutti dallo stesso paese, tutti della stessa età, tutti con mogli e figli e con la stessa speranza.Mai inverno fu più triste. Potevano comunicare con le famiglie solo tramite posta. Una lettera rimaneva in viaggio per otto giorni. Giovanni e Pierina si scrivevano ogni giorno cosicché ogni giorno arrivava una lettera. La sera in camerata parlavano l’un l’altro, scambiavano informazioni e notizie. Avevano formato un piccolo complesso musicale. Chi cantava, chi suonava la chitarra. Giovanni cantava “o sole mio”.  E negli occhi di tutti nasceva quella grande nostalgia del caldo sole siciliano! Fu l’inverno più triste della loro vita. Dopo sei mesi di duro lavoro gli diedero il permesso far venire la sua famiglia.La casa dove Giovanni e Pierina abitavano prima della guerra era una casa bella e spaziosa. Giovanni lavorava in una miniera di zolfo ed era figlio di possidenti agricoli che li avevano aiutati all’inizio del loro matrimonio. Poi la guerra si era portata via tutto. Le campagne abbandonate. La miniera di zolfo chiusa. Motivo principale del suo espatrio. La mattina che fu chiamato in ufficio per la conferma e la consegna delle chiavi era esultante. Finalmente andava via da quel ghetto dove era vissuto per sei mesi… e con lui Luigi, amico del cuore della sua infanzia e altri connazionali che intanto erano diventati omicidi tutte e due.Era il mese d’aprile 1947, un pallido raggio di sole cercava di farsi strada in un cielo pieno di nuvole,Ma il cuore di Giovanni era pieno di sole e di speranza. Erano una diecina circa a prendere possesso dell’alloggio per le loro famiglie. Ma un’altra delusione ahimè li attendeva. Quando arrivarono all’indirizzo datole si trovarono di fronte ad una cinquantina di baracche di legno tutte in fila di dieci come gabbie di conigli! Vestigio dei rifugi di prigionieri dell’ultima guerra con dietro una montagna di detriti carbonifici e ricoperti di un sottile strato di polvere nera. La “casa” si riduceva a due vani di circa 12 metri quadri ciascuno cui si accedeva con tre scalini e con il suolo fatto di cemento sporco e nero come il carbone di cui era attorniato! In facciata una piccola finestra e la porta d’entrata al retro solo una finestra di dimensioni ridotte e rigorosamente dipinte di verde bottiglia! E il bagno? Direte voi! Il bagno…. Da non credere… Solo chi li ha visti può immaginare lo squallore e il disgusto che poterono provocare! Ogni “appartamento” aveva diritto ad un ulteriore vano in fondo al “giardino” di 1 metro quadro con la porticina d’entrata nella quale era ritagliato un cuore… si… un cuore… a significare che quello era il posto intimo di ogni abitante del…. Ghetto! Perché era proprio così…. Un altro Ghetto! All’interno del “bagno” c’era un pezzo di tavola inchiodata ad altre due tavole verticali così da farne una specie di sgabello, con un buco abbastanza grande da sedersi sopra come un water, sotto il quale si metteva un secchio per raccogliere gli escrementi.  Quando si era seduti lì dentro, l’unico raggio di luce passava attraverso il cuoricino della porta che mantenevamo chiusa con altri due chiodi e un pezzetto di corda! Non so se a questo punto viene spontaneo un sorriso o una lacrima…Quando il secchio era pieno si poteva fare una buca nel proprio appezzamento di giardino e svuotarlo! Un chiodo con dei pezzi di giornale tagliati a quadrati… indicava che potevi usare giornali vecchi per pulirti…. Più in là c’era una specie di lavandino poggiato a terra sul quale stanziava una fontana a mano. Il pozzo era nascosto e l’acqua si tirava a mano da questa vecchia fontana che ad ogni movimento cigolava e sembrava ti graffiasse l’anima! Forse i belgi pensavano a noi emigrati come a delle persone primitive gente delle caverne! Forse pensavano a noi come popolo selvaggio e incivile! Forse pensavano d’impararci la civiltà? Chi lo sa…. Quello che è certo è che avevano più cura dei propri gatti, cani e porci che non di noi….Raccontare lo sdegno la delusione e la rabbia di questi giovani siciliani non troverebbe parole adeguate!