Alessandro Fantini

Mnemogramma della sera


Passeggiare sulle spiagge deserte, prima che la sera lentamente ne confondesse l'orizzontale deliquio, ad onta del suo essere un logorato "topos" dell'immaginario pubblicitario e pseudo-romantico , nell'infanzia, mio ginnasio di acerbo visionario, corrispondeva all'avvicinare per qualche secondo quel frullo d'ali di una verità così impalpabile e inumana da lasciarmi, subito dopo, tremante della cupa felicità d'essermela fatta sfuggire. Succedeva quando mio padre mi accompagnava fino ai margini di Piazza Primo Maggio, a Pescara, lasciandomi libero di vagare, con la mente più che con il corpo, lungo la cianotica superficie della spiaggia all'imbrunire. Intirizzito dalla brezza balcanica che arrotava le sagome delle cabine vuote e i profili spettrali di lontane imbarcazioni mercantili, sentivo come la mia percezione della realtà fosse solo un atto di vigliaccheria di fronte al potente sentore di follia che montava dentro il vuoto dell'orizzonte. Ero il monaco sulla spiaggia di Friedrich. Ero il viandante sul mare di nebbia. Ero il traghettato dell'Isola dei Morti di Bocklin. Ero l'uomo uccello dell'Europa dopo il diluvio dipinta da Ernst. Ero l'uomo spettrale del'Immagine Medianico-paranoica di Dalì. Sotto i miei piedi, sul piancito della piazza, qualcuno aveva mirabilmente riprodotto con i gessetti colorati il "Corpus Hypercubicus" che la salsedine aveva già iniziato a sbiadire. Nessuno di quei quadri a quel tempo potevano essermi noti. Ed il mio pennello, ancora oggi, inutilmente sbatte contro le tele alla ricerca del suono di quel frullo d'ali, grigiastro e muschioso quanto il sapore di tremenda infinità che fino alla morte la visione di quella spiaggia di Pescara al tramonto continuerà a risospingermi nella bocca.