Epifanie

Apollo e Dafne


di Gian Lorenzo Bernini del 1622 - 1625 alla Galleria Borghese a Roma   
    Esausta e vinta dalla fatica della fuga affannosa, sbiancata in volto, la fanciulla grida: “O Terra spalancati, distruggi il mio aspetto e trasforma questa bellezza che è causa della mia rovina! E tu, padre, aiutami, (…) sfigura questo mio aspetto per cui troppo sono piaciuta!”. Ha appena finito di pronunciare queste parole che un pesante torpore le invade le membra: il morbido petto è racchiuso con una sottile corteccia; i capelli si allungano fino a divenire fronde, le braccia rami; i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici; il viso diviene la cima dell’albero. Solo il suo splendore le resta. Ma anche così Febo la ama e ponendo la mano sul tronco sente battere ancora il cuore sotto la corteccia appena spuntata; stringendo fra le sue braccia i rami come se fossero le membra dell’amata, copre di baci la pianta. Allora il dio così le parla: “Poiché non puoi essere la mia consorte, ebbene, sarai il mio albero. La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra saranno sempre inghirlandate di te, o alloro! Tu accompagnerai i duci latini quando si leverà lieto il canto del trionfo e il Campidoglio sarà teatro di lunghi cortei. Tu ti erigerai come fedelissimo custode davanti al palazzo di Augusto, ai lati della soglia, proteggendo la quercia che sta in mezzo; e come dal mio giovane capo la chioma non viene mai recisa, anche tu manterrai sempre il decoro delle tue fronde” (Ovidio, Le Metamorfosi, Libro Primo, vv. 540-565).