Epifanie

La ragazza con l'orecchino di perla


Un film di Peter Webber. Con Scarlett Johansson, Colin Firth - Titolo originale Girl with a pearl earring. Drammatico, durata 95 min. - Gran Bretagna, Lussemburgo 2003.
«È vero?», domanda Griet (Scarlett Johansson) a Johannes Vermeer (Colin Firth), dopo aver guardato nella sua camera oscura. In quel buio sorprendente, la servetta ha visto riflesso il quadro per cui sta posando. Ne è stupita, come se la “macchina’ fosse riuscita a illuminare anche ai suoi occhi la bellezza che il pittore cerca di fissare sulla tela. «E un’immagine», le risponde lui. Ma certo non intende che, solo per questo, quello che lei ha visto non possa esser vero. Di questo racconta La ragazza con l’orecchino di perla (Giri with a Pearl Earring, Gran Bretagna e Lussemburgo, 2003, 95’): della bellezza di un’opera di 44 centimetri e mezzo per 39, dipinta attorno al 1665 e riscoperta solo nel 1882. Partendo da un romanzo di Tracy Chevalier, Peter Webber e la sceneggiatrice Olivia Hetreed la immaginano nascere nella casa di Vermeer, nelle luci attenuate, nelle ombre e nei colori del suo studio, a Delft. E ne immaginano la verità: una tra le possibili.Il loro punto di vista è inusuale: non quello dell’autore del quadro, non quello della sua poetica, ma quello di una servetta analfabeta. Non è vera, Griet. E se anche lo fosse mai stata, certo oggi non ce ne resterebbe memoria. Non fu lei, dunque, a posare per il quadro. Neppure ha fondamento l’ipotesi che Vermeer abbia avuto con la sua modella, chiunque sia stata, il rapporto intenso narrato nel film. Griet esiste solo sullo schermo, come solo dentro la camera oscura esiste l’immagine che la sorprende. Ma dentro il film, appunto, è più che vera: è verosimile e dunque vive la sola vita vera, che abbia significato al cinema.Chi è la Griet di La ragazza con l’orecchino di perla? Meglio ancora, chi sarebbe potuta essere? Di lei Webber ed Ketreed raccontano una storia in negativo, e anzi proprio una storia negata. Sospesa fra due mondi, pare non aver patria. Il primo è quello misero da cui fugge, portando però con sé e conservando con amore una piastrella decorata. A essa, e all’immagine che vi ha disegnato il padre, Griet affida tutto quello che le rimane: l’idea o forse solo il rimpianto di un ‘futuro impossibile. Quanto al secondo mondo, quello in cui entra senza esserne riconosciuta, le rimarrebbe del tutto estraneo, se a quell’idea o a quel rimpianto non fosse comunque legata.C’è. nel film di Webber. uno sfondo che viene da dire opaco: quello del denaro. La sceneggiatura, e la regia lo annunciano già in una delle prime sequenze, con la descrizione dei rituali crudeli e immediati di una bancarotta. E poi, nella casa di Vermeer, ne raccontano il dominio pervasivo attraverso la rete di cinismo intessuta da Maria Thins (Judy Parfitt), la suocera. Tutto è da lei subordinato al denaro, a cominciare dal ventre della figlia Catharina (Essie Davis) e dai figli di lei, usati per tenere il pittore in quella rete. Né la donna esita di fronte alla richiesta del mecenate Van Ruijven (Tom Wilkinson): un ritratto di Griet, e alla fine la stessa Griet, con la violenza che il denaro gli consente. Non importa che tra Vermeer e la modella possa nascere un rapporto che somiglia a un adulterio. Neppure della figlia tiene conto, l’avidità della donna.Tutto questo Webber racconta in un film denso delle ombre e delle luci care a Vermeer. Ed è proprio questo il suo limite: questa mimesi cromatica insistita, che si sovrappone alla sua “verità”, quasi velandola, e che alla fine dà più d’un sospetto di banalità, anche se di alto livello.Non è banale però il rapporto fra Griet e Venneer. Per merito della brava Johansson, e dei silenzi che sa colmare d’espressività, tra i due si immagina nascere una “comunanza creativa” alla quale non servono parole. Le basta infatti la materialità della pittura: la manipolazione dei colori, la disposizione degli oggetti, la scelta delle luci e delle ombre. Cresce man mano, questa materialità, e diventa complicità erotica, per quanto solo mediata dagli oggetti e dai gesti della creazione artistica.Come al pittore, dunque, anche alla servetta capita di vedere quello che sta nella camera oscura (secondo una tecnica d’analisi e di studio delle forme e dei colori che sembra fosse proprio di Vermeer). Ci vede la verità dell’immaginazione, quella verità che, in un oggetto o in una persona, sa cogliere il senso dell’attimo, e che è capace di renderlo assoluto, sospeso nel gioco delle ombre e dei colori. D’altra parte, quella della Griet di Webber è una storia negata, perduta in un tempo che la esclude per sesso e per nascita, e che la condanna a una vita misera, senza memoria e senza bellezza. E questa la sola verità che alla fine le sia lasciata: ben più opaca di quella che, per un attimo, anche a noi è parso di vedere nel buio di una camera oscura. di Roberto Escobar - Da Il Sole-24 Ore, 29 Febbraio 2004
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