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PECCATO, PER LE TUE MANI...

Post n°11 pubblicato il 21 Novembre 2006 da EvaAmaGiocare

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(Foto di Paul Banner)

Quand’ero piccola, rimanevo ore ed ore a guardarti girare e rigirare il pennello tra le dita, mentre maneggiavi assorto e tutto compìto colori, diluenti, cavalletti, luci, sfondi e tele. Montanari, “el pintor des toros”: ti facevi chiamare così, tu, che non sapevi una sola parola di spagnolo e che della Spagna e la corrida conoscevi a malapena le immagini trasmesse in televisione col bianco e nero. O forse nemmeno quelle.

Ti scopavi mia madre, all’epoca, fingendo di volerle insegnare la manipolazione del colore, gli acrilici, gli olii ed il tromphe d’oeil, a spese di mio padre. Io restavo con voi, in laboratorio, solo all’inizio, tanto per farvi da alibi. Mio padre, cornuto e mazziato, non solo pagava il corso, ma ti comperava pure almeno un quadro al mese. E poi lo appiccicava in qualche parte della casa, dedicandoci quasi un’intera mattinata d’un sabato a turno, per prendere le misure ed attaccare i chiodi. 

Io e mia madre si arrivava da te nel primo pomeriggio. A me veniva concesso giusto il tempo di guardarti maneggiare, sapiente ed assorto, polveri colorate e diluenti. Ti sentivo per un attimo riempirti la bocca di parole francesi, biascicate di cabernet appena sboccato, mentre mia madre ti guardava già in estasi, infagottata nella sua sciarpona di lana, ad occhi spalancati, come una tinca. Poi mi cacciavate in mansarda, a colorare per conto mio i tuoi vecchi chiaroscuri a carboncino. E mentre io riempivo spazi bianchi tra segni neri, tu riempivi mia madre, cavalcandola senza tanto riguardo tra barattoli che rotolavano in giro e cavalletti che rovinavano a terra, trascinando sul pavimento tele a metà, bicchieri e bottiglie appoggiate male ed in fretta. 

Le tue dita erano corte e grosse, con le unghie sempre impiastricciate di qualche colore diverso. Avevi mani forti, un po’ callose al vertice del palmo. Ma erano mani sicure, decise, calde. Che non si fermavano mai e che dipingevano, anche quando parlavi. Erano nei tuoi gesti quotidiani, i tuoi quadri ed i tuoi tori. Erano nei tuoi saluti, i tuoi matador e le loro spade nascoste. Erano nelle tue bevute, i tuoi picadores, i loro cavalli bardati e le ferite grondanti allargate dalle picche lanciate con forza e senza pietà. Erano nelle tue mani a coprirti gli occhi, le cadute sulla sabbia e gli ultimi respiri dell’agonia del morente.

Che ridicoli, voi grandi, che credete di giocare ed invece vi ritrovate giocati! Che patetici siete, quando credete di poter ingannare una bambina ed un padre, un marito, un uomo ferito, credendo di poter farla franca sempre!

Mio padre vi beccò un martedì pomeriggio, con gli inguini nudi che vi facevate ritmare addosso con foga, senza alcuna vergogna, né remora, mentre io coloravo in soffitta. Ricordo che vi prese a calci entrambi, che ruppe un bel po’ di cose del laboratorio e poi mi riportò a casa, tenendomi per un braccio. Mamma non si rivide nei paraggi per almeno due mesi. E quando tornò, papà non le fece nemmeno varcare il portoncino d’ingresso. Io me ne dovetti andare dopo meno di un anno. Perché ero stata complice, ovviamente.

Ora ho vent’anni e tu sei un morto di fame, povero Montanari. Ti sei rimbambito del tutto a forza di bevute e sniffate di diluente. Tanto da non riconoscermi nemmeno. E vivi sempre in quel laboratorio, che ti fa da cucina, camera da letto, bagno e soggiorno. Io ho un appuntamento per un ritratto, alle quattro.

Entro. Saluto. Vado decisa verso il fondo della stanza. E mi spoglio, togliendomi tutto. Tu resti lì, impalato, a bocca aperta.
Mi stendo sul tappeto e ti chiedo di dipingermi. Tu prendi una tela. “No, che fai? Ti ho detto di dipingermi. Devi dipingere me, Prendi il rosso.”.
Ti avvicini con colore e pennello. Hai il respiro pesante, affannato, la bocca quasi spalancata. Io apro le gambe, schiudendo del tutto il mio sesso. “Bagnalo qui. E poi dipingimi.”.
Tu esegui. Ti pieghi sulle gambe e ti chini, con quell’odore di vino acetoso che dà il voltastomaco. Bagni il pennello, affondandolo tra le mie cosce, lo intingi poi nel colore ed infine segni le mie forme, con grande attenzione. E poi bagni di nuovo, intingi e dipingi. E di nuovo. E di nuovo. 

Mi metto a sedere. Apro i tuoi pantaloni, ti scosto le mutande in cotone ed affondo la bocca aperta. Ti sento gemere, mugugnare, respirare sempre più a fatica. Sento che la tua erezione è al culmine.

Mi alzo. Mi vesto. Ti guardo, col sesso eretto bagnato di saliva, le vene gonfie, il glande lucido.
“Fammi un ritratto, ora. Succhia il pennello e dipingimi il profilo sulla tela. Col tuo seme, poi, colora i miei capelli. Io vado. Fa’ un bel lavoro, mando domani mia madre, a ritirarlo. Ciao, pintor des toros.”.

Mi avvio verso la porta.
Ti
sento cadere a terra dopo pochi passi. Infarto, col cazzo duro. Che fine ingrata. Peccato per le tue mani e per mia madre. Peccato davvero...

 

 
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