FIDELIS

Post N° 26


SOGNI DI GLORIA. Nell'autunno del 1935 il dispositivo italiano conta in Eritrea 110.000 italiani e 53.000 indigeni, 35.000 quadrupedi, 4.200 mitragliatrici, 580 cannoni, 112 carri armati, 3.700 automezzi e 126 aerei; in Somalia le forze sono inferiori: 24.000 italiani e 30.000 indigeni, 8.000 quadrupedi, 1.600 mitragliatrici, 117 cannoni, 45 carri armati, 1.850 automezzi e 38 aerei. Pronti per l'ultima guerra coloniale del XX secolo. A fronteggiare l'aggressione fascista sono mobilitabili non meno di 300.000 soldati etiopici, ma non sono inquadrati in moderne unità. E' ancora un esercito di tipo feudale, praticamente lo stesso che ha sconfitto Baratieri ad Adua nel 1896. Hailé Selassié, vista l'imminenza della guerra, ha fatto ricorso al mercato internazionale degli armamenti acquistando (da ditte cecoslovacche, danesi, francesi e svizzere) 16.000 fucili, 600 mitragliatrici, alcuni pezzi d'artiglieria (soprattutto contraerea) e 10 milioni di cartucce. Una goccia rispetto agli imponenti mezzi messi in campo da Mussolini. Certo le truppe sono motivatissime e conoscono bene il terreno, possono anche disporre di micidiali pallottole esplosive dum-dum, vietate dalla convenzione di Ginevra, ma tutto questo non varrà a niente quando gli italiani ricorreranno ai non meno vietati gas asfissianti. Centinaia di combattenti abissini verranno sfigurati dall'iprite lanciata dall'aeronautica fascista. Il 2 ottobre 1935 scatta l'attacco con l'attraversamento del confine segnato dal fiume Mareb. La Società delle Nazioni, già minata nella credibilità da numerosi scacchi internazionali, non può che condannare l'aggressione e il 18 novembre vota dure sanzioni economiche.
Carbone e petrolio non figurano nella lista degli articoli embargati e l'URSS non si fa pregare nel rispettare il suo trattato economico con l'Italia fornendo spregiudicatamente le materie prime necessarie alla guerra imperialista; la marina mercantile degli Stati Uniti non è vincolata giuridicamente dalla decisione dell'organismo internazionale e la Germania ignora l'embargo. Mussolini organizza imponenti manifestazioni contro le sanzioni dipingendo ai suoi sudditi un'Italia ingiustamente strangolata dalle nazioni plutocratiche. Viene proclamata l'autarchia economica per ridurre la dipendenza dalle importazioni, con il ricorso a surrogati di ogni genere (per esempio, lana di caseina e caffè di cicoria) e al riciclaggio di tutti i rottami metallici. Il culmine dell'esaltazione di massa viene raggiunto con la pubblica raccolta delle fedi nuziali per sostenere le riserve auree della nazione. L'ondata di nazionalismo acceca anche dissidenti come Vittorio Emanuele Orlando, Arturo Labriola, Benedetto Croce e Luigi Albertini,La Chiesa cattolica, pur trattandosi di una guerra contro cristiani copti scatenata da un dittatore proclamatosi per l'occasione difensore dell'Islam, sceglie un diplomatico silenzio. In un disperato e indecente sforzo di evitare la guerra nel dicembre 1936 viene presentato il piano Hoare-Laval che consiste nel cedere all'Italia gran parte dell'Etiopia (Ogaden, Tigrai, Dancalia), conservando l'indipendenza al resto del Paese. E' nel continente nero che si svolge la prova generale del vergognoso accordo di Monaco a spese della Cecoslovacchia, ma nessuno se ne accorge. Eppure l'Italia virile vuole una gloriosa guerra contro i barbari abissini.
Hitler non partecipa alla grande finzione. Esporta merci embargate verso Roma. mostra di dimenticare le divergenze con Mussolini sull'Austria e si prepara ad incassare il suo credito. Il 7 marzo 1936 tre miseri battaglioni tedeschi rimilitarizzano la Renania senza colpo ferire. Francia e Gran Bretagna non si avvedono che è stato così scardinato l'intero equilibrio europeo. Tre corpi d'armata dall'Eritrea penetrano vigorosamente in terra abissina. Il primo ha come obiettivo Adigrat, il secondo Entisciò e il terzo puntò direttamente su Adua. Il 5 ottobre cade Adua e l'8 novembre viene presa Makallè. L'emozione in Italia è grande e per l'occasione viene lanciata la canzone "Adua è liberata". I carabinieri penetrano in queste città insieme ai reparti dell'84° e del 60° reggimento fanteria. Contemporaneamente dalla Somalia avanza su due direttrici (Dolo, Filtù, Neghelli, Madarà da un lato e Scebeli, Ogaden, Harar, Dire Daua dall'altro) il corpo d'armata misto agli ordini di Rodolfo Graziani, il pacificatore della Libia. Alla fine di novembre De Bene viene opportunamente promosso per far posto a un professionista della guerra come il generale Pietro Badoglio, I Carabinieri Reali sono coinvolti presto in aspri combattimenti. Il 15 dicembre l'armata abissina, al comando del valoroso ras Immirù, tenta una manovra per attaccare l'Eritrea guadando il fiume Tacazzè e risalendo verso la zona di Selaclacà. In zona sono state costituite da poco quattro bande di irregolari agli ordini del maggiore dei Carabinieri Giuseppe Contadini. Una di queste, la banda Cohain (denominazione ricevuta dalla zona di reclutamento) guidata dal carabiniere Domenico Palazzo e al comando del brigadiere Silvio Meloni riceve l'ordine di effettuare una ricognizione insieme al 27° battaglione eritreo nella zona di Adì Chiltè o Adì Abò. Vengono affrontati da superiori forze abissine alle quali tengono testa per otto ore, fino a quando i superstiti riescono a rompere l'accerchiamento.
Meloni e Palazzo vengono feriti e catturati, ma mantengono un comportamento dignitoso e valoroso che impone il rispetto ai vincitori, meritando la medaglia d'argento. Il brigadiere Giovanni Amorelli cade solo dopo essere stato ferito tre volte nel generoso tentativo di riannodare i contatti con il battaglione eritreo, mentre il suo collega Angelo Alaimo cade alla testa dei suoi irregolari mentre si lancia al contrattacco (due medaglie d'argento alla memoria). Anche gli indigeni si comportano con grande valore. Il bilancio delle perdite è di 28 fra morti e dispersi e 19 feriti. Non vi sono medaglie per loro in questa sfortunata azione. BATTAGLIA PER IL PASSO UARIEU. Vista stroncata l'offensiva contro l'Eritrea, gli abissini si asserragliano nell'aspra regione del Tembien agli ordini dei ras Cassa e Semin e del degiac Mulughietà. Sono in 20.000, occupano posizioni favorevoli e hanno giurato di tenere fino all'ultimo la zona, feudo personale del ras Seium. Tra di loro vi sono moltissimi combattenti scioani ed amhara, giustamente famosi per il loro valore, ritenuti invincibili dalle truppe di colore degli invasori. Poiché conoscono perfettamente la regione e godono di una buona mobilità tattica, gli abissini non hanno alcuna intenzione di resistere passivamente, ma mirano a infiltrarsi nella regione tra Makallè e Adua per colpire il fianco italiano. Badoglio previene la manovra attaccando per primo a Zaban Chercatà il 20 gennaio 1936, ma gli abissini sferrano un attacco poderoso contro il passo Uarieu, la porta del Tembien. Per quattro giorni la situazione è critica fino a quando l'aeronautica e rinforzi del 24° battaglione eritreo non spezzano l'assedio. Alla resistenza vittoriosa partecipano le sezioni 302ª, 312ª e 391ª a cavallo dei carabinieri. Dal diario del capitano Aldo Pucciani, capitano della 391ª sezione a cavallo: «Ore 9,45 ( ... ) Una frazione nemica, evitata la colonna eritrea attaccante, ci sbarra il passo. Il comando di corpo d'armata prende posizione su un'amba mentre noi carabinieri e zaptié ci schieriamo in formazione di combattimento a fondo valle, dove il terreno permette l'uso del cavallo. Si accende la battaglia. Gli abissini, oltre 2.000, asserragliati nel paese di Mekenò, aprono un fuoco micidiale con pallottole esplosive e si lanciano quindi in puntate offensive, specialmente sulla destra attraverso il letto del torrente Aini, allo scopo di effettuare l'avvolgimento delle salmerie e del comando. ( ... ) I carabinieri a cavallo, con celere manovra, si spiegano per proteggere la posizione tenendosi pronti alla carica qualora il nemico si presenti nella breve spianata, mentre una squadra, col comandante la sezione, forte di 20 cavalieri e armata di mitragliatrici, si lancia verso il burrone. Gli abissini aprono un fuoco intenso, ma i cavalieri, superato il terreno battuto dalle raffiche avversarie, raggiungono di balzo il ciglio del burrone, dove regolari in tenuta kaki e amhara in futa, armati di lunghi kuradè (scimitarre), si scagliano furibondi all'attacco. I nostri, però, li affrontano imperterriti». E una guerra che, nell'orrore, rivela aspetti fantastici e fiabeschi. Insieme al crepitio delle armi automatiche e agli scoppi delle dum-dum, i sensi sono frastornati dal balenare delle baionette e delle scimitarre. Rotolano a terra fregi tribali di piume ed elmetti coloniali color kaki. Da una parte squillano le trombe alla carica, dall'altra risponde l'acuto suono del negarit abissino. Un anonimo degiac dalla barbetta a pizzo, in sella a un muletto bianco, mentre esorta i suoi amhara all'attacco, viene disarcionato da una pallottola vagante. Il caldo è insopportabile e non tira un alito di vento, ma la spietata fatica della battaglia non arresta l'ardore degli uomini. Sono passate quasi 6 ore e i contendenti sono ancora avvinghiati in un stretta mortale intorno alle salmerie.
«Sono le 15: il capitano dell'Arma, presi gli ordini dal comandante il corpo d'armata, organizza un reparto d'assalto: carabinieri e zaptié con mitragliatrici leggere, preceduti e guidati dall'ufficiale, si lanciano in avanti, divorano il breve pianoro, si accrescono dei valorosi difensori del burrone e piombano sulla sinistra nemica. La lotta si ravviva accanitamente in un corpo a corpo furibonda ove gli abissini rivelano tutto il loro istinto sanguinario e guerriero». Il diario del capitano Pucciani, nel sobrio pudore dello stile militare, non spiega che cosa sia un corpo a corpo. Come in una rissa improvvisa i colpi grandinano da ogni parte, budella fuoriescono dalla voragine creata da una baionettata, una sciabola trancia un braccio, le ossa scricchiolano per il fendente del calcio di un fucile. Ovunque urla di terrore, ferocia e morte, che coprono il rantolo dei moribondi e l'ansimare di chi è ancora vivo. Alla fine sotto le scariche implacabili dei carabinieri, gli abissini ondeggiano e si danno alla fuga. Quattro medaglie e undici croci al valore sono la testimonianza del prezzo del valore pagato dai carabinieri e dagli zaptié in quella sanguinosa e terribile giornata. Sul campo restano i corpi di 400 etiopi. Ma la guerra non è soltanto sangue e coraggio: è anche sudore e olio di gomiti. La vastità e la natura selvaggia del teatro di guerra richiedono un'intendenza capace di mantenere le sue promesse di efficiente supporto logistico per le truppe di prima linea. I carabinieri sono lì, nelle retrovie, per proteggere il flusso vitale e vulnerabile dei rifornimenti dalle frequenti infiltrazioni nemiche, mantenere l'ordine e raccogliere informazioni, Sorge così il comando Carabinieri d'intendenza e l'ispettorato delle retrovie con undici sezioni. Dalla seconda metà del maggio 1935 l'opera infaticabile di questi organizzatori si rivela determinante. C'è tanto da fare: disciplinare le operazioni di scarico a Massaua; sorvegliare la manovalanza indigena e metropolitana; custodire magazzini e ammassi; dirigere e regolare in senso alterno le autocolonne sulla congestionatissima Massaia-Asmara; proteggere la linea ferroviaria dell'Asmara; controllare gli operai in afflusso dalla madre patria e contribuire alla formazione della rete di servizi di polizia militare nella colonia. Soprattutto la disciplina dei movimenti si rivela un compito faticoso. e ingrato non solo perché bisogna operare lontani dai propri reparti e spesso senza un adeguato cambio tra un ciclo ed un altro, ma perché bisogna mantenersi fermi e cortesi per far rispettare le regole della circolazione a tutti, anche a chi pretende un trattamento diverso, accampando urgenze particolari. Il risultato di questo lavoro oscuro, ma determinante, è rappresentato dal movimento regolare lungo le arterie logistiche, senza quegli ingorghi da incubo che costano tempo, ritardi e, in definitiva, vite umane al fronte.
A volte si verificano anche gli imprevisti come, per esempio, quando in un nucleo di carabinieri dell'intendenza viene a conoscenza di un'infiltrazione di un forte gruppo di abissini comandati da un casmagnac di ras Seium. La marcia fino alla zona di Enda Medani Alem è estremamente dura, il terreno sconosciuto ed insidioso, ma la tenacia viene ricompensata. Dopo un'ora di combattimento gli abissini sono volti in fuga ed il loro casmagnac catturato. A due prodi sottufficiali e a un milite dell'Arma viene conferita la medaglia al valore sul campo. Se sul fronte settentrionale le operazioni non sono facili, a sud (sul fronte somalo) il semplice fatto di eseguire una comune avanzata è, di per sé, un'impresa eroica. Le zone di sbarco delle truppe sono lontane dal confine somalo-etiopico e ancor più lontani sono gli obiettivi dell'avanzata. Il generale Graziani, quando si rende conto di avere a disposizione appena un centinaio di mezzi, si impegna in un serio sforzo di lobby burocratico-militare. All'apertura delle ostilità gli automezzi sono diventati 1.800, ma Graziani sa che deve battere il ferro finché è caldo e ai primi del 1936 totalizza 3.400 veicoli, che cresceranno ancora fino alla ragguardevole somma di 5.300 mezzi. Se la Fiat non riesce a fornire gli automezzi nella quantità richiesta, Graziani (dimenticando le regole dell'autarchia) ricorre ai mezzi delle americane Dodge e Ford, che costituiscono gran parte del suo autoparco. Il generale si dà anche da fare per avere unità adatte a combattere su un fronte cosi duro, sollecitando oltre alla divisione Peloritana anche l'invio della divisione coloniale Libia e di bande autocarrate di carabinieri. I suoi avversari non sono da sottovalutare. Essi dispongono nella zona di truppe relativamente ben inquadrate e ben addestrate, agli ordini di comandanti piuttosto giovani, quindi pieni di ardore e di iniziativa, e affiancati da consiglieri militari stranieri. La figura di comandante di maggior spicco è il ras Destà Damtù, che ha una quarantina d'anni, è un personaggio di primo piano nell'impero etiopico, buon conoscitore dell'Europa e delle sue complesse questioni. Anche l'Italia non gli è sconosciuta perché ha partecipato a una missione diplomatica con il ras Maconnen e ha visitato anche l'Asmara. Nella sua opera di comando è affiancato dal suo coetaneo degiac Nasibù Zamanuel, che ha ricoperto l'incarico di console all'Asmara e per qualche tempo è stato addetto alla missione etiopica a Roma. Esponente di spicco del movimento nazionalista dei Giovani Etiopi, conosce molto bene le lingue italiana e francese.
La primissima operazione effettuata dagli italiani in Somalia ha luogo ai primi di novembre e consiste in un'offensiva di rettifica del fronte nell'Ogaden per conquistare migliori posizioni d'attacco. Cadono le località strategiche di Goharrei, Gabredarre e Hamanlei, nomi che torneranno quando si svilupperà lo sforzo offensivo finale delle truppe italiane con alla testa proprio i Carabinieri. Nel gennaio 1936 si svolge la battaglia di Ganale Doria, una ben coordinata puntata offensiva nel settore ovest del fronte somalo. La colonna centrale, agli ordini del colonnello Martini, si scontra con la disperata resistenza delle truppe etiopiche lungo l'importante camionabile che congiunge Dolo a Neghelli. All'uadi Dei Dei gli etiopici riescono a tenere in scacco per due lunghi giorni la colonna Martini e solo dopo combattimenti furiosi le truppe di ras Destà vengono volte in rotta. Anche se la via per Neghelli è aperta, continuano feroci scontri sino alla fine, quando le truppe italiane sconfiggono definitivamente il nemico catturando un enorme bottino di armi, munizioni e vettovaglie. Subito dopo, il 28 gennaio, si apre la seconda fase delle operazioni che vede il generale Bergonzoli impegnato in operazioni di grande polizia, cioè di lotta antiguerriglia, lungo la direttrice di Mega. La colonna autocarrata è composta da una squadriglia di autoblindo, un gruppo squadroni a cavallo e un battaglione di ascari somali. La colonna ha già alle spalle sei combattimenti in quattro giorni su strade che le memorie ufficiali non esitano a definire di carattere biblico. L'obiettivo dei pozzi di Ueb è faticosamente raggiunto a circa sessanta chilometri da Mega e la colonna è pronta secondo gli ordini ricevuti a rientrare finalmente alle linee di partenza. Per inciso, è interessante notare che la direttrice operativa è stata coperta con una media di 10 chilometri al giorno, un segno evidente delle asperità del terreno e del peso dei combattimenti. Gli abissini hanno in serbo un colpo di coda per gli invasori. Sulla via del ritorno, in una zona particolarmente accidentata, scatta un'imboscata che falcia con il fuoco gli elementi avanzati dei plotoni dell'Aosta. Alla testa del reparto, il capitano De Rege si rende subito conto della minaccia di un'infiltrazione avvolgente dei guerriglieri etiopi e non esita a superare le posizioni avversarie per scongiurare l'accerchiamento. Il tiro preciso degli abissini e la loro velocità di movimento lo falciano alle spalle durante uno scontro selvaggio e disperato. E' un momento critico. Il brigadiere Salvatore Pietrocola capisce che deve compiere un gesto che sia d'esempio per i commilitoni. Si slancia in una corsa folle verso il nemico, supera le sue stesse pattuglie avanzate, combattendo in preda ad un furore primordiale. Una pallottola gli spezza una gamba, un'altra gli perfora il torace, eppure il brigadiere riesce ancora a lanciare le sue bombe a mano contro il nemico, per cadere poi a terra accanto al corpo del suo comandante. Il generale Bergonzoli, testimone della scena, propone la medaglia d'oro per l'eroico brigadiere. La guerra non è ancora finita e i Carabinieri scriveranno altre pagine di valore in questa guerra pur ingiusta e sciagurata. Fedeli alla consegna, non sanno che non sarà l'ultima e molti di loro faranno appena a tempo ad abbracciare i loro cari prima di partire di nuovo per le aride terre della Spagna.