Verso l'impero
Il panorama politico
europeo e mondiale si modifica profondamente nel 1933 con l'avvento
al potere del capo del Partito Nazionalsocialista, dal quale
dipenderà pochi anni dopo lo scoppio della II Guerra
Mondiale
Nella primavera dei 1936 la guerra d'Etiopia è alla sua svolta
decisiva, anche se la resistenza incontrata si rivela superiore
alle previsioni della vigilia. Nel conflitto perderanno la vita
oltre 200 carabinieri Ogaden: per molti è un nome difficile da
localizzare su una carta geografica. Chi ricorda ancora che
nell'Ogaden fu combattuta (nel 1977, non cent'anni fa) una delle
più sanguinose guerre convenzionali del Corno d'Africa, quando la
Somalia sotto il dittatore Siad Barre
tentò, con
motivazioni nazionalistiche, di strappare quell'arida regione
all'Etiopia?
Fu allora che i sovietici, ricorrendo a un imponente ponte aereo,
si precipitarono in aiuto del vacillante regime del negus rosso
Menghistu Hailé Mariam e nel giro di un anno cacciarono i somali
dalle posizioni conquistate, sconfiggendoli nella battaglia di
Diredaua e Giggiga.
Anche in quell'occasione si verificò
l'impressionante forza d'urto della moderna tecnica militare contro
eserciti piuttosto raccogliticci. Giggiga é entrata nella storia
militare come una delle più ardite operazioni aeromobili condotte
dai sovietici. Passata la breve fiammata della guerra, l'Ogaden è
precipitato di nuovo nell'oblio.
A GIGGIGA VIA GUNU GADU.
Eppure quelle assolate pietraie, seminate di arbusti induriti da
mille lotte contro la siccità, ricordavano altri eserciti ed altri
soldati, diversi dai pallidi russi e dagli agili cubani.
Avvolte le gambe nelle loro caratteristiche mollettiere, coperti
dall'inconfondibile casco coloniale, quasi sessant'anni fa
avanzavano lungo quelle strade le armate dell'Italia fascista alla
conquista di un "posto al sole" in Etiopia.
Le operazioni di guerra erano già in
corso quando a Roma si decise la costituzione di quattro bande
autocarrate di carabinieri, incaricate di puntare verso l'Ogaden.
Le bande erano formazioni di fanteria leggera a livello
battaglione/reggimento articolate su un plotone comando e due
compagnie per un totale di mille uomini ciascuna.
Vittorio Emanuele III si recò personalmente a salutare le quattro
formazioni alla scuola allievi dei Carabinieri, prima del
trasferimento a Napoli. Una foto dell'epoca mostra schierati in
bell'ondine i militi dietro i quali campeggia il motto "Nei secoli
fedele". Li attendeva una lunga navigazione sul piroscafo Sannio.
La prima tappa era prevista a Suez, nonostante il rischio di una
chiusura del canale da parte degli inglesi che lo tenevano sotto
controllo.
Il porto fissato
per lo sbarco era quello di Obbia, nella regione della
Migiurtinia. Il generale Rodolfo Graziani, responsabile di
quel settore operativo, si era incaricato di attrezzare al
meglio quello scalo perché assolvesse la funzione di base
logistica. Tuttavia uomini e materiali furono sbarcati, il 10
marzo, a un miglio dalla costa a causa del pescaggio eccessivo
della nave. Venti giorni dopo arrivarono anche gli automezzi e
le quattro bande furono a quel punto pronte ad aggregarsi alla
colonna Agostini presso la zona di concentramento di Rocca
Littorio (250 chilometri nell'entroterra migiurtino).
La cosiddetta seconda battaglia
dell'Ogaden prevedeva l'avanzata per linee parallele di tre colonne
(Nasi, Frusci, Agostini), con il compito di convergere sul nodo
strategico di Dagabur per poi avanzare sui passi di Giggiga e
sull'importante città di Harar. L'obiettivo operativo era di
frustrare un ritorno offensivo abissino guidato dal degiac Nasibù
Michael, favorito in febbraio dall'iniziativa del suo sottoposto,
il fitaurari Abatè Tafari, che era riuscito, dopo un aspro
combattimento, a eliminare il presidio di una sessantina di dubat a
Curari, permettendo la creazione di una buona base offensiva per la
riconquista dell'Ogaden.
La colonna Agostini era composta,
oltre che dalle quattro bande autocarrate, dal gruppo bande di
ausiliari coloniali dubat (agli ordini del tenente colonnello
alpino Camillo Bechis), da una coorte della milizia forestale con
annessa batteria di artiglieria campale da 65 mm e da una batteria
da 70 mm.
La marcia ebbe
inizio il 16 aprile 1936, ma il primo contatto con il nemico
non avvenne prima del giorno 23, in quanto le forze abissine
sembravano completamente sparite dalla circolazione.
Questa volta i difensori abissini avevano deciso di non rischiare
una pericolosa battaglia di movimento contro forze meglio
equipaggiate, e si erano attestate nella zona Bullaleh-Sassabaneh.
Il punto forte del loro schieramento era rappresentato dalla
località di Gunu Gadu, per l'occasione potentemente
fortificata.
Gli italiani erano perfettamente
informati sulla localizzazione del nemico e si prepararono a una
classica manovra di aggiramento in modo da procedere alla riduzione
del centro di resistenza. Il punto di riferimento scelto per la
manovra era un camioncino del raggruppamento bande dubat. Rispetto
ad esso le bande del tenente colonnello Bechis dovevano spiegarsi
sulla sinistra in modo da avvolgere un lato delle postazioni
avversarie e avvicinarsi ad esse. La seconda banda dei Carabinieri
dovevi invece raggiungere il camioncino ed allargarsi ancora più a
sinistra per proteggere i fianchi delle bande dubat ed occupare
posizioni sul torrente Giarer.
La terza banda, partendo dal famoso
camioncino, doveva costituire la branca destra della tenaglia su
Gunu Gadu, mentre la quarta banda sarebbe rimasta accanto
all'automezzo come riserva insieme alla coorte della milizia
forestale. A circa un chilometro dalla linea di attacco si
sarebbero appostati il comando della colonna Agostini e le due
batterie.
Sulla carta la
manovra era assolutamente ortodossa: anche l'esecuzione si
svolse in modo molto ordinato. Ma l'imprevisto, in ogni
operazione militare, è sempre in agguato, e in quell'occasione
assunse l'aspetto di una guida negligente o infida. La seconda
banda, guidata dal tenente colonnello Citerni, anziché
prendere contatto con il nemico in un terreno favorevole e
coperto per l'aggiramento, si trovò (alle 7 in punto) in una
piana liscia come un tavolo di biliardo e solcata dai tiri
incrociati dei difensori abissini. Il camion di testa prese
subito fuoco. Tutti i carabinieri saltarono velocemente dai
mezzi, organizzando una difesa speditiva in quel posto
pericoloso. Non potevano partire all'attacco perché il
bombardamento era in programma per un'ora e si profilava
dunque il rischio concreto di essere colpiti dai propri
commilitoni. Così, per un'ora circa, rimasero passivi, subendo
un'intensa fucileria, senza aprire il fuoco a loro volta per
conservare preziose cartucce.
Alle 8 del mattino, finalmente, il
rombo degli aeroplani in avvicinamento, seguito dagli scoppi secchi
dei cannoni campali. La boscaglia spinosa fu sconvolta dalle
granate a grande capacità e dalle bombe da 50 chili. Si levarono
colonne di terra, annunciate dal lampo rossastro dell'esplosione,
mentre gli aerei si abbassavano a volo radente per mitragliare ogni
movimento sospetto.
Terminato il bombardamento,
destinato a indebolire le postazioni nemiche, i fanti a terra si
accorsero che la situazione non era affatto mutata. Le fucilate
nemiche non si erano diradate: si erano anzi infittite. Come mai?
Ecco le spiegazioni fornite, a caldo, dagli esperti.
Generale Graziani: "Questi
sbarramenti erano a non grande raggio, la tecnica vi aveva profuso
ogni accorgimento per raggiungere lo scopo. Appostamenti in
caverna, fiancheggiamenti e camminamenti ne facevano dei capisaldi
robustissimi: prendere di viva forza quei passaggi obbligati
sarebbe stata durissima impresa e ci avrebbe attardato".
Generale Frusci: "Le caverne, le
buche, le trincee sono blindate con tronchi d'albero e terra di
riporto e occultate completamente da un mascheramento di ramaglia
che le rende invisibili all'osservazione aerea e anche a quella
terrestre se non portata nelle immediate vicinanze, anche per la
folta vegetazione".
Tenente colonnello De Vecchi
(impegnato in prima linea): "Le buche sono perfette di costruzione
(...). Ognuna di esse è difesa da almeno altre due. Dal piccolo
ingresso e dalle feritoie si osserva un ampio campo di tiro, mentre
è estremamente difficile infilare i piccoli buchi con una fucilata.
Quelle occhiaie cave con il loro sguardo di morte sembrano
irriderci".
Queste
testimonianze dimostrano come gli abissini avessero preparato
un ostacolo assai duro per gli invasori italiani, Non era
certo quello che i combattenti della prima guerra mondiale
avrebbero chiamato una linea fortificata, anche se aveva
ricevuto dai comandanti etiopici l'orgoglioso nome di linea
Hindenburg, il famoso maresciallo tedesco della Grande Guerra.
Niente filo spinato e paletti d'acciaio, niente cupole
corazzate o piazzole d'artiglieria, ma funzionò in modo
egregio. Merito di alcuni consiglieri militari belgi e
soprattutto di un turco che aveva già avuto modo di conoscere
gli italiani dall'altra parte della barricata. Consigliere
militare di ras Immirù, Wehib Pascià aveva combattuto prima
nella guerra di Libia del 1911-1912 e poi nella guerra di
rinascita nazionale turca (1920-1922). In entrambi i casi
aveva imparato la difficile arte dell'arrangiarsi con forze e
mezzi insufficienti.
Specialmente nelle complicate
operazioni sull'altopiano anatolico contro i greci, Wehib aveva
appreso l'arte militare da grandi comandanti turchi come Ismet
Pascià e dal generalissimo Mustafa Kemal. Wehib non aveva
l'autorità per far approvare piani strategici di grande portata,
specie con un esercito largamente feudale come quello abissino, ma
aveva dedicato un anno di lavori intensi a quella linea. Ne risultò
un dispositivo difensivo rustico, edificato con materiali facili da
reperire e che valorizzava al meglio le capacità difensive del
terreno e dei combattenti. Qualcosa di simile alle tanto temute
fortificazioni campali dei vietcong nel lungo conflitto del
Vietnam.
EROI ALL'ASSALTO. Come agli
americani in quel lontano fronte, ai carabinieri ed ai dubat non
restò che prendere di petto il problema.
Se si è particolarmente ben
equipaggiati si può scegliere tra diverse soluzioni. Un carro
armato può, per esempio, centrare con il tiro diretto le feritoie
nemiche; oppure
l'artiglieria
può formare una cortina fumogena per favorire l'avvicinamento
dei fanti; o, ancora, si possono formare speciali squadre
d'assalto con genieri dotati di cariche esplosive e
lanciafiamme, armi utili e tremende in queste situazioni.
Altrimenti si deve agire con il coraggio e la perizia dei
fanti, sfruttando al massimo la copertura delle
mitragliatrici, balzando da un magro riparo all'altro e
lanciando un gran numero di bombe a mano. Il momento peggiore
si presenta quando pochi metri separano l'attaccante dal
caposaldo nemico. Dietro quelle feritoie si nasconde un gruppo
di uomini decisi a vendere cara la pelle, vincendo la paura di
fare la fine del topo. Davanti alle finestrelle compaiono
soldati protetti solo dalla loro divisa. Pochi attimi dopo, o
davanti al nido di fucilieri giacciono i corpi degli
attaccanti o al chiuso si scatena l'inferno.
La prima banda di Carabinieri Reali,
appoggiata dalla seconda, riuscii a raggiungere il margine della
fitta boscaglia di Gurru Gadu. Dalle cavernette, spesso ricavate
tra le radici di alberi secolari, gli etiopici scatenarono un fuoco
micidiale; il generale Agostini lanciò la riserva con la quarta
banda dei Carabinieri.
Appena la riserva si mosse, le
pallottole abissine fecero un morto e cinque feriti. La seconda
banda si preparò alla dura opera di rastrellamento delle posizioni
avversarie lungo il greto del torrente Giarer. Ogni feritoia era
pronta a vomitare morte da tutti i lati, ogni tana venne sconvolta
dalla furia dell'irruzione.
Fu sulla destra dello schieramento
che la battaglia infuriò in misura maggiore e la quarta banda si
precipitò in soccorso su quel versante. Nonostante le perdite,
grazie all'eccellente addestramento ricevuto in precedenza, i
carabinieri manovravano senza problemi.