FIDELIS

Post N° 40


Contro la furia delle acque
Nell'inverno 1951, un lungo periodo di piogge torrenziali ingrossò pericolosamente il Po lungo tutto il suo corso. L'acqua raggiunse rapidamente gli argini, che la gente si affannò inutilmente a rinforzare con sacchetti di sabbia. Il 14 novembre il fiume straripò nei pressi di Pavia provocando la morte di quarantacinque persone. Nel corso della mattinata la piena travolse gli argini nelle province di Cremona, Mantova e Reggio Emilia, a Malcantone e ad Occhiobello. L'acqua dilagò nel Polesine costringendo ad evacuare Rovigo e Adria. I profughi ammontavano a 100mila. Il mese precedente le alluvioni avevano flagellato Sicilia, Sardegna e Calabria. Migliaia di carabinieri si prodigarono al limite delle forze nell'immane operazione di salvataggio e soccorso a popolazioni prive di tutto: per quell'impegno la bandiera dell'Arma fu decorata di medaglia d'oro al valor civile. Il Polesine non fu la prima occasione nella quale i Carabinieri si trovarono impegnati nella trincea della solidarietà. E non fu neanche l'ultima. Nel periodo compreso fra i mesi di gennaio e febbraio 1954, un'ondata di gelo sconvolse l'Abruzzo e il Molise e l'entroterra campano. Per venti giorni decine di comuni restarono isolati. Oltre agli elementi territoriali, vennero mobilitati consistenti rinforzi di Carabinieri della montagna.
Nel 1956 l'inverno fu estremamente rigido. Varie località montane settentrionali si trovarono in pesanti difficoltà, che seppero in qualche modo fronteggiare in virtù della antica consuetudine con il problema; al centro e al sud la situazione si rivelò disastrosa e richiese l'impegno di dodicimila carabinieri di cui cinquecento sciatori. Le province colpite: Agrigento, Arezzo, Campobasso, Caserta, Catanzaro, Cosenza, Luna, Foggia, Forlì, Lucca, Messina, Pescara, Reggio Calabria e Sassari. Centinaia di militari ebbero la distinzione di una ricompensa individuale, encomi, elogi ed attestati di riconoscenza, per un dovere svolto con disciplina e senso della collettività, riassunti e simboleggiati da una seconda medaglia al valor civile all'Arma. IL CUORE OLTRE LA CATASTROFE. L'inverno del 1966 rinnovò (dopo l'immane disastro del Vajont) la tragedia del Polesine, ma questa volta tra le località invase dall'acqua vi fu anche Firenze. I filmati dell'epoca mostrano l'Arno che muggiva sugli argini, aggredendo Ponte Vecchio per poi irrompere nel cuore del capoluogo toscano, provocando ferite gravissime anche al patrimonio artistico della città. Mezza Toscana, tutto il Friuli e larghe zone dei Trentino furono alluvionati. L'Esercito, per lungo tempo unica struttura di protezione civile e tutt'ora spina dorsale dei soccorsi di massa, mobilitò 50mila uomini. Molti erano militari di leva e si comportarono da valorosi. L'Arma mise a disposizione il meglio di cui disponeva: i nuclei radiomobili, subacquei e quelli elicotteri per un totale di 20 mila uomini, 2.195 veicoli e 70 veicoli speciali (50 veicoli blindati M-113, 10 elicotteri, 10 autobotti). Gli uomini stessi non si risparmiarono e 59 rimasero feriti durante le azioni di soccorso. La bandiera dell'Arma fu insignita di una seconda medaglia d'oro al valor civile. Ma la principale ricompensa fu rappresentata dal fatto di aver tratto in salvo 15mila persone, 13.500 capi di bestiame e oltre 1.000 veicoli. Due anni dopo vi fu il terremoto del Belice, una tragedia ed una vergogna che hanno lasciato tracce profonde. Il 15 gennaio 1968 sei paesi furono cancellati dalla carta geografica e altri sei furono gravemente colpiti. A Gibellina le prime scosse fecero fuggire i 6 mila abitanti che passarono la notte all'addiaccio. La fuga li salvò: poche ore dopo una scossa del settimo grado della scala Mercalli distrusse completamente il paese. Andò in modo peggiore a Montevago dove, passate le prime leggere scosse, la gente decise di rientrare nelle case a notte tarda, Quando le scosse di avvertimento risvegliarono la popolazione non ci fu più tempo per mettersi in salvo: l'onda d'urto tellurica rase al suolo la maggior parte degli edifici seppellendo donne, vecchi e bambini. Il terremoto isolò una vasta zona interrompendo strade, facendo crollare ponti, tagliando le linee ferroviarie e tranciando quelle telefoniche. I Carabinieri della legione di Palermo accorsero con grande tempestività (e con ogni mezzo a disposizione) sul luogo del disastro. Il loro fu un compito terribile e doloroso: molti di loro avevano parenti e amici sepolti sotto le macerie. Il comandante della legione di Palermo, colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, assunse personalmente il comando delle operazioni. Era un operativo: si era già distinto da capitano con un gruppo di squadriglie durante la campagna del CFRB nella rischiosa zona di Corleone, e con grande senso pratico fece allestire una sala situazione nel comando della legione per coordinare i soccorsi. Nella stessa notte fu creato un centro logistico a Gibellina e furono fatti affluire reparti dalle legioni di Messina, Bari, Napoli e dal battaglione di Firenze. I CC schierarono complessivamente: 2.500 militi, 300 automobili, 90 camion, 24 mezzi speciali, 237 motociclette e 6 elicotteri. Non mancarono gli atti di sciacallaggio e le truffe ai danni di enti assistenziali, regolarmente denunziati dai Carabinieri. Lo stesso spirito fu messo in luce dall'Arma nel terremoto di Tuscania e in quello ben più grave del Friuli. Le prime violentissime scosse furono avvertite alle 9 di sera del 6 maggio 1976: ne seguirono altre il giorno 11 e il 15, con picchi di intensità tra il decimo e l'undicesimo grado della scala Mercalli. E' il peggiore sisma italiano del secolo. Ancora una volta i Carabinieri si mossero con grande rapidità: gli ufficiali della legione di Udine erano ai loro posti nel giro di pochi minuti; i collegamenti ressero alla catastrofe; la notte stessa venne formata una compagnia d'emergenza e fu fatto affluire il personale del XIII battaglione CC di Gorizia. Facendo tesoro delle esperienze precedenti, venne costituito in meno di ventiquattr'ore un centro di coordinamento dei soccorsi, mentre convergevano le forze del VI battaglione di Mestre e del VII di Laives. Il giorno 8 le forze impegnate dall'Arma raggiunsero i 3.000 effettivi con oltre 600 mezzi a disposizione, richiamati da tutto il nord Italia. Uno dei simboli dell'immane sforzo compiuto fu la tenda del comando di stazione di Tarcento. La casermetta era crollata, ma lo stellone repubblicano era lì a segnalare che gli uomini con gli alamari stavano lavorando per la collettività. Una terza medaglia d'oro al valor civile premiò lo spirito e la disciplina con i quali il corpo aveva sfidato la calamità.