FIDELIS

Post N° 41


Il terrore in Alto Adige Non sempre la terra delle mele renette, dei picchi innevati, delle case fiorite di vivaci gerani e del turismo di montagna è stata così tranquilla, ordinata e prospera come è attualmente. L'Alto Adige, o S?dtirol secondo la denominazione tedescofona, è stata una zona di grandi inquietudini e di persistente terrorismo etnico per undici anni. La terra tirolese era stata annessa all'Italia all'indomani della vittoria nella Grande Guerra. Si era accettato un confine strategico al prezzo di includere una popolazione che era legata da molti secoli agli Asburgo e senza tener conto del diritto all'autodeterminazione proclamato solennemente dopo il crollo dell'impero austroungarico.
La relativa quiete tra le due guerre fu turbata dalla politica di italianizzazione forzata voluta dal fascismo. Proibiti lingua e nomi tedeschi, favorita l'immigrazione di funzionari di provata fede italiana. Questa politica venne rovesciata dopo l' settembre quando tutto il Trentino-Alto Adige e buona parte del Triveneto vennero inglobati nel protettorato nazista del Territorio Costiero Adriatico. L'elemento italiano pagò duramente le conseguenze della nuova situazione politica e il dopoguerra fu avvelenato dalle divisioni e dagli odi recenti. A tutela degli interessi della minoranza tedesca si costituì VSVP (Sudtiroler Volkspartei), nel cui interno quale allignavano frange estremiste che approfittavano della polarizzazione tra italiani e tedeschi e della mancata applicazione dell'accordo italo-austriaco De Casperi-Gruber (settembre 1946) sulla questione altoatesina. Posti sotto pressione, gli italiani reagirono appoggiando spesso le formazioni politiche più nazionaliste e conservatrici dell'arco parlamentare. In Austria gruppi di ultranazionalisti, tacitamente tollerati dalle autorità locali, fornirono santuari ed appoggi logistici ai movimenti terroristici altoatesini. Il primo attentato fu compiuto il 6 ottobre 1956 a Bolzano. Una carica esplosiva venne piazzata presso una porta dell'oratorio Don Bosco, un ritrovo abituale dei giovani italiani che il giorno successivo avrebbe dovuto ospitare il congresso provinciale della DC. Da allora fu uno stillicidio di bombe contro caserme (attaccate come le basi di un esercito d'occupazione), tralicci e rotaie. La regione si avvitò in una tragica spirale terroristica ed una densa cappa di paura avvolse le vallate. Il culmine della campagna terroristica si ebbe nella cosiddetta notte dei fuochi. Nella notte fra l'11 e il 12 giugno è tradizione che si svolga una processione conclusa da un falò in onore del Sacro Cuore di Gesù: nel 1961 questa festa si trasformò nella celebrazione dell'odio. La prima esplosione si ebbe al centro di Bolzano dieci minuti dopo l'una di notte, seguita da una serie ininterrotta di altre deflagrazioni in periferia e nelle vallate vicine. L'obbiettivo principale della dimostrazione di forza del movimento terrorista furono i tralicci della luce: in due ore ne vennero abbattuti a decine. Le cariche (di due chili di plastico ciascuna) danneggiarono anche ponti, binari e condotte forzate, costringendo al blocco delle attività gli stabilimenti del capoluogo e interrompendo rotabili di importanza nazionale. Nel corso della mattinata venne trovata nella zona di Merano una carica di dinamite destinata a distruggere un cavalcavia. Anche la diga di Selva dei Molini avrebbe dovuto saltare in aria con il brillamento di mezzo quintale di dinamite e di una grossa mina. I militari dell'Arma fecero a tempo a disinnescarla, mentre un loro collega con grande coraggio staccò un pacchetto di plastico da un traliccio e lo lanciò lontano prima che esplodesse. La notte dei fuochi non fu uno scoppio di violenza improvvisa: fu un'operazione scientifica che impiegò almeno 200 elementi. L'esplosivo non era normale polvere da mina. Era plastico, un mezzo impiegato da professionisti, di difficile reperibilità. La sua consistenza è quella della plastilina, può essere tagliato, pressato, manipolato senza problemi, è resistente all'acqua ed al caldo e aderisce perfettamente all'oggetto da distruggere. Solo con un detonatore il plastico diventa mortale. La reazione delle forze dell'ordine, passate le incertezze e le sottovalutazioni iniziali, fu dura. Carabinieri e Polizia furono impegnati in costanti pattugliamenti, mentre l'Esercito veniva utilizzato per tentare di sigillare i passi montani attraverso i quali si infiltravano armi e terroristi. Nel 1962-63 gli estremisti altoatesini compirono incursioni anche nel resto dell'Italia, con attentati a Corno, Domodossola, Rimini, Rovereto, Roma, Verona e altre località. Dal 1960 il governo aveva deciso di gettare nella mischia anche la sezione controspionaggio del SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) con risultati iniziali non molto incoraggianti a causa dello scarso coordinamento con gli altri organi informativi delle forze di polizia e militari. I Carabinieri distaccati presso quel servizio condivisero tutte le frustrazioni di una concorrenza inutile e dannosa. Nel frattempo la lotta si incrudeliva, provocando le prime vittime. Il 3 settembre 1964 cadde in un'imboscata a Selva dei Molini un carabiniere, Vittorio Tiralongo. Sei giorni dopo un sottufficiale e quattro militi furono feriti gravemente sulla strada Rasun-Anterselva. Solo ventiquattr'ore più tardi la stessa sorte toccò a un altro milite. Al fianco dei commilitoni in divisa operavano dietro le quinte i colleghi dei SIFAR. Silenziosamente venne istituito un centro di controspionaggio a Bolzano, guidato dal maggiore Pignatelli, dipendente dal colonnello Monico responsabile per tutto l'Alto Adige. A una guerriglia che operava con sistemi non convenzionali, si rispose con mezzi altrettanto spicciativi. Durante tutto il 1963 divamparono le polemiche, talvolta scatenate da fiancheggiatori dei terroristi, sui presunti metodi sbrigativi delle forze dell'ordine, sull'uso di agenti provocatori in Italia ed all'estero, sulla presunta responsabilità per una serie di attentati di ritorsione avvenuti in Austria. Una delle mosse vincenti compiuta in quel periodo fu rappresentata da un accordo stipulato nel 1964 con i servizi austriaci per sollevare le coperture di cui godevano i fuoriusciti tirolesi. GLI ULTIMI COLPI Di CODA. Gli estremisti (che probabilmente miravano a ripetere le gesta del patriota Andreas Hofer contro gli occupanti napoleonici) replicarono brutalmente alzando il livello dello scontro. Il 26 agosto 1965 attaccarono la caserma dei CC a Sesto Pusteria. Non si trattò di un attacco in piena regola, ma di una scorribanda rapidissima: dalla finestra della cucina arrivò una gragnola di piombo. Il carabiniere Palmicri Ariu venne fulminato sulla porta della cucina ed il carabiniere Luigi De Gennaro spirò all'ospedale di San Candido-Innichen. Due mitra avevano sparato 33 colpi a una distanza di 3 metri dalla fatale finestra. Dalle indagini condotte dalla legione di Bolzano emersero pesanti sospetti a carico di quattro fuoriusciti, già ritenuti responsabili della morte di un altro carabiniere. L'allora presidente del consiglio, Aldo Moro, rese omaggio ai due caduti. Fu probabilmente questo tragico episodio a decidere le sorti della campagna antiterroristica. Un anno dopo venne stabilito uno stretto coordinamento tra il SIFAR e gli analoghi servizi informativi e di polizia. I frutti non si fecero attendere: la rete di sorveglianza divenne sempre più stretta e le complicità intorno ai terroristi si smagliarono gradualmente. A livello politico si cominciò a mettere insieme quel pacchetto di provvedimenti a tutela della minoranza tedesca (pacchetto Moro) che avrebbe privato il movimento separatista di qualunque sostegno politico (anche da Vienna), aprendo un periodo di tranquillità e di pace nella regione sconvolta. Ma prima di arrivare a questo esito altri carabinieri caddero vittime della guerriglia. La notte del 25 giugno 1967 saltò l'ennesimo traliccio, provocando la morte dell'alpino Armando Piva. Una squadra fu chiamata sul posto per la necessaria opera di bonifica della zona circostante. La bonifica è, nel gergo degli artificieri, l'ispezione sistematica e accurata alla ricerca di un qualunque ordigno esplosivo (proietto d'artiglieria inesploso, mina, eccetera). Quando si ha a che fare con trappole esplosive le precauzioni vanno raddoppiate: sono aggeggi infernali, escogitati con tutta la raffinatezza di cui una mente umana è capace. La squadra era composta dal capitano Francesco Gentile, dal sottotenente Mario Di Lecce e dai sergenti dei paracadutisti Olivo Dordi e Marcello Fagnani. Con il passare delle ore, ogni anfratto venne setacciato, ogni pendio controllato meticolosamente dai quattro uomini che si muovevano con perfetto coordinamento. Due avanti, due dietro a spazzare il terreno con lo sguardo. Verso le due del pomeriggio l'ispezione sembrava conclusa. I quattro imboccarono la strada carrabile che conduceva al fondo. Una vampata accecante maciullò tre uomini: soltanto il sergente Dordi si salvò per miracolo. Fu una triste medaglia d'oro quella conferita il 14 agosto del 1967 alla memoria di Gentile. Per fortuna, da allora, di terrore in Alto Adige non si è più parlato.