FIDELIS

Post N° 45


La contestazione e il terrorismo
Il 1968 pone bruscamente fine al balletto di una serie di governi di centro-sinistra che, pur avendo cercato di mediare una situazione politica bloccata, non hanno sostanzialmente risposto alle esigenze di una società più avanzata. Il movimento di protesta parte dalle università californiane e si estende con grande rapidità in Europa. Il "maggio francese" è, per le università italiane, un'esperienza indimenticabile. Gli studenti esprimono tutta la loro ribellione nei confronti di un sistema scolastico ossificato e sorpassato. Sono ben decisi a non svolgere un ruolo passivo: prendono l'iniziativa per reinventare in un'onda di disordinata creatività e protesta il modo stesso di vivere e studiare. Il mondo del lavoro, cresciuto all'ombra di un boom economico che non aveva tenuto conto delle sue esigenze sociali, entra in fermento. Le rivendicazioni economiche si saldano ai dibattiti e alle lotte intorno alle condizioni in fabbrica, alla struttura dell'organizzazione del lavoro (ritmi, controlli, straordinari e impatto delle innovazioni tecnologiche nella catena produttiva), al diritto alla casa contro la speculazione del mattone ed ai trasporti di massa. Le prime lotte hanno origine in zone periferiche. L'azienda tessile Marzotto a Valdagno è testimone di manifestazioni spontanee contro i nuovi, massacranti ritmi di lavoro e contro la minaccia di 400 licenziamenti. Ad Avola e a Battipaglia i braccianti reagiscono duramente all'intervento della forza pubblica e gli scontri provocano quattro morti e alcune decine di feriti. Nel febbraio 1968 campeggiano le foto della battaglia di Valle Giulia, a Roma, un momento di svolta nel movimento studentesco ed un suo passaggio ad una fase più violenta. La polizia era riuscita a sgomberare la facoltà di Lettere occupata dagli studenti, ma questi avevano spostato il peso della loro presenza sulla facoltà di Architettura. Anche qui le forze di polizia tentano di allontanarli ma vengono impegnate in uno scontro durissimo. Macchine ed autobus sono dati alle fiamme. 46 militari finiscono in ospedale e diversi studenti si fanno curare di nascosto. à il trionfo dell'esaltazione di giovani che in scarpe di tela volteggiano nella guerriglia urbana. Pasolini innesca una rovente polemica sottolineando alcune evidenti contraddizioni del movimento. "... lo no, cari./ Avete facce di figli di papà/ ... / quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti,/ io simpatizzavo coi poliziotti./ Perché i poliziotti sono figli di poveri,/ vengono da subtopaie, contadine e urbane che siano.", recitava una sua contestatissima poesia. Da allora nella cultura giovanile la violenza, vista anche come una risposta ai duri interventi governativi, viene rapidamente accettata come inevitabile e giustificata in quanto rivoluzionaria. Si fanno strada i teorici della violenza proletaria e sono in voga slogan come "Il potere nasce dalla canna del fucile', Violenza contro violenza", "Guerra no, guerriglia sì" sullo sfondo dei miti di Mao, Che Guevara e del Vietnam. SI PASSA ALLE ARMI. Chi ha ancora visto di recente dal vivo o sui mass media i volti e gli atteggiamenti dei protagonisti della stagione del terrorismo italiano non può, specie se non partecipe diretto di quegli eventi, che essere assalito da un vago senso di smarrimento. Queste signore e signori ormai di una certa età, con l'aspetto segnato dalle loro diverse culture politiche sono proprio quelli che hanno messo le bombe o gambizzato o rapito e ammazzato? Eppure in quegli anni tremendi il senso dello scontro e dell'odio politico erano davvero palpabili e la violenza dei picchiatori era una minaccia costante e concreta nelle città grandi e piccole. La sfida di questo decennio viene raccolta dall'Arma con tre strumenti. Quello più ovvio è rappresentato dal servizio di ordine pubblico. Meno visibile, ma di maggiore importanza per l'azione preventiva, è il servizio informativo.
Altamente spettacolari sono le cosiddette operazioni Setaccio, create in risposta ad un serio aggravamento della criminalità comune. Mai dalla fine della guerra si sono visti rastrellamenti di questa ampiezza e l'operazione Setaccio più massiccia dura dal settembre al dicembre 1971. Tre divisioni (Pastrengo, Podgora e Ogaden) mettono in campo un totale di 35mila uomini, appoggiati da altre forze dell'ordine, per controllare 90 province. Gli arresti sono centinaia, le denuncie migliaia e le contravvenzioni decine di migliaia. Nel frattempo il terrorismo "rosso" e "nero" comincia a mietere le sue vittime. Tre carabinieri saltano in aria ed uno resta gravemente ferito nei pressi di Peteano. Il pomeriggio del 31 maggio 1972 una telefonata anonima informa i Carabinieri di Gorizia che c'è nei pressi del villaggio una macchina sospetta con due colpi di pistola sul parabrezza. E' un agguato: il solo esecutore materiale, il fascista Vincenzo Vinciguerra, viene condannato all'ergastolo. DUELLO CON LE BR. La formazione più agguerrita e temibile nella nebulosa del terrorismo di sinistra è indubitabilmente quella della BR (Brigate Rosse), costituitesi come partito armato nel maggio del 1972 e passate alla clandestinità.
Mentre a livello di vertici politici si perde tempo in sterili battaglie di competenze, i CC creano, per iniziativa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un primo nucleo investigativo. All'interno di questa formazione di punta spicca il vecchio maresciallo Felice Maritano. Nato nel 1919 a Giaveno (in provincia di Torino), padre di tre figli, Maritano ha partecipato alla guerra nei Balcani e dopo l'8 settembre 1943 è stato internato in Germania fino alla fine del conflitto. Nel 1941 era stato promosso appuntato per meriti di guerra, poi decorato con croce al Valor Militare nel gennaio 1941 sul teatro dei Balcani. Nel corso del suo lungo servizio di 10 anni a Rivarolo (Genova) gli erano stati concessi 10 encomi solenni. La gente lì lo conosceva con l'affettuoso (e significativo) nomignolo di "sceriffo". Una foto ce lo mostra con i suoi 35 anni di servizio: un vecchio maresciallo aitante coi baffi brizzolati, la schiena dritta, lo sguardo fermo e limpido. Le Brigate Rosse hanno rapito da poco (aprile 1974) il giudice genovese Mario Sossi, dimostrando sia la loro capacità organizzativa che la loro determinazione nel condurre la lotta. Il giudice verrà rilasciato, ma la caccia dell'Arma era appena iniziata e si stavano ancora mettendo a punto le tecniche più idonee. Maritano avrebbe potuto andarsene tranquillamente ed onoratamente in pensione, ma il 22 maggio 1974 si costituisce il nucleo e due giorni dopo Maritano chiede al suo colonnello Giuseppe Franciosa di entrarvi. Il 27 ne entra a far parte in considerazione delle sue doti e della sua collaudata esperienza. Fin dai primi giorni il suo ascendente nel reparto è altissimo. Ricostruisce la biografia di uno dei membri delle Brigate Rosse e il suo lavoro lo porta a contatto con amici, parenti e conoscenti del brigatista ricercato; alla fine la pista porta al covo di Pianello Val Tidone (Piacenza). L'operazione si risolve con l'arresto dei terroristi Carnelutti e Sabatino e la disfatta della colonna lodigiana delle Brigate Rosse. Poco dopo Maritano si offre anche volontario per l'operazione che nei pressi di Pinerolo porta all'arresto di capi storici delle Brigate Rosse come Curcio e Franceschini, bloccandoli armi in pugno insieme ad altri (8 settembre 1974). Dal paziente vaglio del materiale rinvenuto nel covo di Pianello si arriva alla base brigatista di Robbiano di Mediglia. UN APPIATTAMENTO. Al momento di far scattare l'operazione a Robbiano, il Nucleo speciale ha già al suo attivo un bilancio rispettabile per la sua breve esistenza operativa: 34 arresti; 43 denunzie; 193 perquisizioni domiciliari; 160 accertamenti bancari; 93 sopralluoghi; 456 rilievi fotografici; 1.050 informazioni richieste. Un segno del dinamismo del generale che l'ha creato e dell'impegno dei suoi componenti. Visto che il covo quando i carabinieri arrivano è vuoto, si decide di organizzare un appiattamento, ossia di nascondere alcuni militi all'interno dell'appartamento in modo da trasformare un rifugio ritenuto sicuro in una vera e propria nassa. E' un servizio sfibrante che richiede molta pazienza e sangue freddo. Sentiamo che cosa ne dice il colonnello Franciosa (oggi generale) in un'intervista radiofonica al Giornale Radio del 17 ottobre. "Il sottufficiale non faceva questione di turni: rimaneva in piedi tutta la notte. Era l'unico di tutto il nucleo che non aveva fatto alcun giorno di licenza, diceva che l'avrebbe fatta quando sarebbe finita questa storia... All'interno dell'appartamento erano al buio, ma nelle scale c'era la luce". I carabinieri pensavano che ci potesse essere un conflitto a fuoco? "Evidente che se lo aspettavano, tanto è vero che gli uomini in attesa nell'atrio della casa, si erano organizzati con una piccola stufetta elettrica che avevano trovato nella stessa casa anzi, scherzando, dicevano che la bolletta della luce l'avrebbero pagata i brigatisti. Maritano era un uomo di 56 anni in compagnia di altri sottufficiali che avevano 25/26 anni e li teneva svegli per il semplice fatto che lui era sveglio. Era un po' per tutto il reparto un simbolo, non perché aveva i capelli grigi, ma perché aveva la vivacità e l'entusiasmo spesso non riscontrabili in un giovane". Non pensa che fosse anziano per questa operazione? "Certo che era anziano, però tenga presente che era lui stesso a chiederlo. Il soggetto fisicamente era efficientissimo, tanto efficiente che nell'inseguimento ha superato gli altri due molto più giovani di lui... A parte il fatto che l'anzianità dicevo che non incideva per niente sulle sue qualità fisiche essendo un tipo asciutto, scattante, dinamico." A CAPOFITTO PER LE SCALE. L'operazione a Robbiano è stata disposta dal generale Dalla Chiesa che comandava la 1° Brigata Carabinieri di Torino. Le indagini, partite dai nuclei investigativi di Torino, Genova, Milano sono passate al nucleo speciale. I controlli a tappeto in via Amendola (il covo era al n. 10) sono avviati all'inizio di quella settimana. Dotati di foto segnaletiche i militi setacciano ogni appartamento. Venerdì pomeriggio alle 14 scatta l'operazione. La porta viene sfondata, l'appartamento è vuoto: si pensa quindi di tendere una trappola ai tre. Nell'appartamento si trova materiale investigativo di notevole interesse (tra cui mitra e pistole utili all'identificazione dei terroristi implicati nel rapimento del giudice Sossi), esplosivi e munizioni. Viene anche rinvenuta un'agenda di Sossi, un documento BR firmato da Sossi. Nel covo uno Sten, due mitra, un moschetto, un revolver, un carabina, tre bombe a mano tedesche (le temute Stielhandgranaten), molti silenziatori, decine di metri di miccia e molti documenti falsi (passaporti, carte d'identità, eccetera). I tre brigatisti arrivano uno alla volta: sembra facile, ma è un affare altamente rischioso. Alle 13 e alle 21,30 due brigatisti, armati di pistola con il colpo in canna (calibro 7,65 mm), vengono arrestati. Non avendo partecipato alla cattura di Bassi, il primo brigatista, Maritano ottiene di partecipare ai turni di piantonamento successivi ed insiste a rimanere perché non vuole lasciare soli i più giovani nei momenti più rischiosi. Vista la sua esperienza si accetta la sua richiesta in modo che serva da elemento di continuità e coesione nelle rotazioni del personale. Alle 21.30 partecipa alla cattura di Bertolazzi, che tenta di estrarre una 7,65, ma viene bloccato dai militi. Alle 3.20 dopo un breve riposo nella branda del covo, si sente uno scalpiccio sulla tromba delle scale. In servizio di appiattamento si trovano Maritano e i brigadieri Calapai e Furno. Furno sente i rumori, avvisa Maritano e si piazzano sul pianerottolo. Quello che successivamente sarà identificato come il brigatista Ognibene arriva a pochi metri e si accorge della presenza dei carabinieri. Maritano intima "Alt, Carabinieri", ma Ognibene si dà alla fuga lungo la tromba delle scale, inseguito dai tre militi. Il silenzio della notte è lacerato dai colpi della Smith & Wesson calibro 38 special del terrorista. I colpi raggiungono il maresciallo che però non molla. Maritano scosta Calapai e spara contro il brigatista, lanciandosi al suo inseguimento. Continua a sparare con la mano sporca di sangue appoggiandosi alla parete, finché quattro colpi non neutralizzano il brigatista. I due arrivano al piano terra. Ognibene stramazza al suolo e Maritano gli si accascia vicino, come se volesse controllarlo. Quasi esanime esorta i due sottufficiali a catturare il brigatista. Muore durante il trasporto all'ospedale. UN FUNERALE BLINDATO. La morte del valoroso maresciallo desta una profonda emozione anche nell'Italia indurita dall'asprezza della lotta politica. A parte tutte le manifestazioni ufficiali di cordoglio, giungono al Comando Generale numerose testimonianze di solidarietà e di fiducia. Ma il clima è davvero pesante e non risparmia nemmeno le esequie ad un morto. La notte precedente arrivano telefonate minatorie contro chi vuole partecipare al funerale. Scritte minacciose sono tracciate sui muri della chiesa e nelle vie adiacenti. In risposta a queste intimidazione all'uscita del feretro dalla chiesa tutte le sirene del porto di Genova hanno suonato. Lo Stato è presente: al funerale ci sono Sandro Pertini, presidente della Camera, Paolo Emilio Taviani, ministro degli Interni, il Comandante Generale, Enrico Mino. Maritano viveva a Rivarolo ed è stato sepolto lì. Gli abitanti si ricordano ancora la sua eccellente conoscenza della zona ed il fatto che lui cercava di aiutare la gente in difficoltà e di comporre le liti. Lui non si tirava indietro nel lavoro e non guardava di che partito si fosse: "Basta che sono persone oneste, per me sono tutte uguali", diceva. "Il carabiniere lo si conosce solamente quando muore" ? aveva detto il colonnello Franciosa. FACCIA A FACCIA CON MARA. Ognibene, che all'epoca aveva vent'anni, dichiara una falsa identità quando viene ricoverato in ospedale con una prognosi di venti giorni. La copertura dura poco e verrà processato per direttissima. Qualche mese dopo (il 19 febbraio 1975) una mesta cerimonia di solidarietà ricorda alcuni caduti sul fronte del terrorismo, compresi i tre caduti per la bomba di Peteano (il brigadiere Antonio Ferraro ed i carabinieri Franco Dongiovanni e Donato Poveromo), oltre al maresciallo maggiore Felice Maritano. Il 4 giugno 1975 viene rapito lungo la provinciale piemontese Cassinasco-Canelli l'industriale Vittorio Vallarino Gancia. I Carabinieri, ormai temprati dall'amara esperienza di quegli anni, si muovono rapidamente. Alle 15,30 viene arrestato Massimo Maraschi (22 anni) da Lodi che aveva avuto un incidente un'ora prima a circa 200 metri dal luogo del rapimento. Dopo aver tentato un accordo con l'altro conducente coinvolto nell'incidente, si era dato alla fuga. Scatta un'ampia battuta e si trova la vettura a Canelli con a bordo un individuo che tenta la fuga in un cantiere. Viene fermato e portato alla caserma. L armato con una pistola 7,65 con il colpo in canna, l'auto è rubata e i documenti sono falsi. Nella notte stessa in collaborazione con il Nucleo speciale si appura che: l'uomo è identificato come noto brigatista, già inquisito dal Nucleo; il documento d'identità falso appartiene ad un blocco di documenti trovati nel covo di Robbiano; Maraschi ha partecipato al rapimento di Gancia, bloccando la strada con la vettura. Studiata la zona si ordina un controllo a tappeto di località isolate, cascine e abitazioni sospette. Il 5 giugno 1975 il tenente Umberto Rocca, comandante della compagnia di Acqui, dopo aver celebrato la ricorrenza del 161° anniversario dell'Arma, verso le 10,30 decide di effettuare ispezioni in località e cascine già note e sorvegliate (ma ancora senza esito). Sono con lui il maresciallo maggiore Rosario Cattafi, comandante della stazione di Acqui Terme; l'appuntato Giovanni D'Alfonso, l'appuntato Pietro Barberis. I primi tre in uniforme e l'ultimo in abito civile. Arrivati nella località di Arzello del comune di Melazzo (10 km da Acqui) alle 11.30 Rocca giunge alla cascina Spiotta, da più mesi posta sotto sorveglianza perché segnalata come luogo saltuario di ritrovo di persone sospette. SENZA ESCLUSIONE Di COLPI. L'ufficiale controlla l'interno delle vetture e detta gli estremi dei libretti di circolazione quando Barberis segnala al tenente di aver sentito voci e rumori nella cascina. Rocca si avvicina alla porta, constatando la presenza di alcuni individui all'interno della cascina. Ordina che la vettura si piazzi sulla strada per bloccare il traffico, ma defilata da eventuali tiri da porte e finestre; D'Alfonso si piazzi in posizione tra i capannoni, defilato, ma pronto a intervenire; Barberis chieda subito rinforzi alla centrale operativa via radio e controlli la parte posteriore della cascina. Il tenente Rocca, con Cattafi, compie una rapida ispezione dell'immobile, per appostarsi poi allo spigolo destro con il suo mitra per controllare due lati, e ordina a Cattafi, che ha già bussato, di mettersi all'estremità di un casotto in muratura di fronte alla cascina. Al piano superiore si affaccia una donna che guarda nel cortile e rientra in silenzio. Rocca allerta a gesti i suoi dipendenti. Cattafi ad alta voce invita più volte il dottor Caruso (il nome che risulta dalla targhetta alla porta) a uscire fuori. Un uomo apre la porta e invita con fare arrogante i militi ad entrare. Cattafi ripete l'invito, ma l'uomo lancia un bomba e richiude la porta. Si scatena l'inferno. La bomba investe in pieno Rocca, gli trancia il braccio sinistro e gli ferisce l'occhio sinistro. Cattafi si prende numerose schegge sul lato destro, ma spara con la pistola contro finestre e porta. Poi si accorge delle gravi ferite dell'ufficiale Rocca. Smette di sparare e, benché ferito gravemente, lo solleva di peso e lo mette al riparo trascinandolo per 100 metri di terreno ripido e aspro fino alla provinciale. Ferma un'auto di passaggio e chiede al conducente di portare Rocca all'ospedale di Acqui. Nel frattempo sta arrivando un'altra pattuglia di cui rifiuta il soccorso, invitandola a raggiungere la cascina. Sarà caricato a bordo di un'ambulanza poco dopo. Nella cascina un uomo e una donna tirano un'altra bomba a mano (a vuoto) ed escono dalla porta per andare ai capannoni. D'Alfonso avanza per bloccarli con il fuoco della pistola, ma viene centrato da una raffica alla testa, al torace e all'addome. Nonostante i colpi ricevuti, spara a sua volta un intero caricatore, forse ferendo due volte la donna che è salita in macchina. Ormai i due sono in fuga. La strada è però sbarrata dall'auto dei carabinieri dove Barberis si era tempestivamente messo al riparo. Le due macchine dopo un tamponamento escono di strada. Barberis spara, i brigatisti rispondono e l'uomo esce fuori dalla vettura arrendendosi "Siamo feriti, ci arrendiamo". Il solito vecchio trucco. Barberis smette di sparare, li invita ad alzare la mani e ad andare verso una radura. Ma dopo pochi passi l'uomo si fa scudo della donna, estrae dal giubbetto una bomba e la lancia verso Barberis che, con grande prontezza, si slancia in avanti e riesce a sparare colpendo a morte la donna nonostante la bomba gli esploda a pochi metri di distanza. Il terrorista superstite si tuffa nella boscaglia e Barberis, preso un caricatore a D'Alfonso, lo insegue. Ne perde, però, le tracce. Torna indietro e assiste D'Alfonso ferito a terra. Dopo alcuni minuti arrivano con l'autoradio tre colleghi. Il vicebrigadiere Frati, che comandava il gruppo, prima di ispezionare la cascina, lancia un candelotto lacrimogeno. Da un piccolo vano a piano terra sentono gridare aiuto. E' Gancia, rapito il giorno prima. La donna uccisa è Margherita Cagol (conosciuta con il nome di battaglia di Mara), moglie di Renato Curcio. Lo scontro si è risolto in un'autentica carneficina. Rocca è mutilato, D'Alfonso è morto, ma i carabinieri tengono duro. Cattafi viene trovato dai giornalisti mentre sta per tornare a casa con numerose schegge in corpo. Mostra la divisa sforacchiata: "Potrei scolarci la pasta", dice, "ma comunque mi è andata bene". Approfondimento: Perchè all'esterno dell'Arma Molti si chiedono per quale motivo il Comandante Generale dei Carabinieri non possa provenire dalle file dell'Arma, ma venga nominato tra i Generali di Corpo d'Armata delle altre Armi dell'Esercito. In realtà l'Istituzione, nel corso della storia, ha avuto 13 Comandanti tratti dalle sue stesse file, l'ultimo è stato il Generale Angelo Cerica dal 23 luglio all'11 settembre 1943. Il Decreto Luogotenenziale del 26 aprile 1945 n. 230 prevede che la carica di Comandante generale debba essere affidata ad un Generale di Corpo d'Armata, grado non previsto per gli ufficiali dei Carabinieri se non all'atto del collocamento in ausiliaria. Infatti la Legge 9 maggio 1940 n. 368 sull'ordinamento del Regio Esercito, fissa il grado massimo raggiungibile in servizio attivo nella "Benemerita" in Generale di Divisione. Per la verità, il successivo Regio Decreto Legge dell' 8 febbraio 1943 n. 38, all'articolo 1 istituì anche per i Carabinieri il grado di Generale di Corpo d'Armata e infatti lo erano gli ultimi due Comandanti prima dell'armistizio: Azzolino Hazon, perito nel bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 e, il già citato Angelo Cerica. Ma il Decreto Legislativo del 20 gennaio 1948 n. 45 ha poi ripristinato la precedente normativa del 1940. Va precisato che il Vice Comandante Generale porta sulle spalline tre stellette, ma la terza, bordata di rosso, è "funzionale" in relazione all'importanza e al prestigio dell'incarico, non costituisce però un grado a tutti gli effetti.