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Post N° 40

Post n°40 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Contro la furia delle
acque



l'alluvione del Polesine fu la prima grande sciagura nazionale dopo la gerra
Nell'inverno 1951, un lungo periodo di piogge torrenziali
ingrossò pericolosamente il Po lungo tutto il suo corso.
L'acqua raggiunse rapidamente gli argini, che la gente si
affannò inutilmente a rinforzare con sacchetti di
sabbia.


Il 14 novembre il fiume straripò nei
pressi di Pavia provocando la morte di quarantacinque persone. Nel
corso della mattinata la piena travolse gli argini nelle province
di Cremona, Mantova e Reggio Emilia, a Malcantone e ad Occhiobello.
L'acqua dilagò nel Polesine costringendo ad evacuare Rovigo e
Adria. I profughi ammontavano a 100mila.


Il mese precedente le alluvioni
avevano flagellato Sicilia, Sardegna e Calabria. Migliaia di
carabinieri si prodigarono al limite delle forze nell'immane
operazione di salvataggio e soccorso a popolazioni prive di tutto:
per quell'impegno la bandiera dell'Arma fu decorata di medaglia
d'oro al valor civile.


Il Polesine non fu la prima
occasione nella quale i Carabinieri si trovarono impegnati nella
trincea della solidarietà. E non fu neanche l'ultima. Nel periodo
compreso fra i mesi di gennaio e febbraio 1954, un'ondata di gelo
sconvolse l'Abruzzo e il Molise e l'entroterra campano. Per venti
giorni decine di comuni restarono isolati. Oltre agli elementi
territoriali, vennero mobilitati consistenti rinforzi di
Carabinieri della montagna.


un'altra immagine dell'alluvione del PolesineNel 1956 l'inverno fu estremamente
rigido. Varie località montane settentrionali si trovarono in
pesanti difficoltà, che seppero in qualche modo fronteggiare in
virtù della antica consuetudine con il problema; al centro e al sud
la situazione si rivelò disastrosa e richiese l'impegno di
dodicimila carabinieri di cui cinquecento sciatori. Le province
colpite: Agrigento, Arezzo, Campobasso, Caserta, Catanzaro,
Cosenza, Luna, Foggia, Forlì, Lucca, Messina, Pescara, Reggio
Calabria e Sassari. Centinaia di militari ebbero la distinzione di
una ricompensa individuale, encomi, elogi ed attestati di
riconoscenza, per un dovere svolto con disciplina e senso della
collettività, riassunti e simboleggiati da una seconda medaglia al
valor civile all'Arma.


IL CUORE OLTRE LA CATASTROFE.
L'inverno del 1966 rinnovò (dopo l'immane disastro del Vajont) la
tragedia del Polesine, ma questa volta tra le località invase
dall'acqua vi fu anche Firenze. I filmati dell'epoca mostrano
l'Arno che muggiva sugli argini, aggredendo Ponte Vecchio per poi
irrompere nel cuore del capoluogo toscano, provocando ferite
gravissime anche al patrimonio artistico della città. Mezza
Toscana, tutto il Friuli e larghe zone dei Trentino furono
alluvionati. L'Esercito, per lungo tempo unica struttura di
protezione civile e tutt'ora spina dorsale dei soccorsi di massa,
mobilitò 50mila uomini. Molti erano militari di leva e si
comportarono da valorosi.


L'Arma mise a disposizione il meglio
di cui disponeva: i nuclei radiomobili, subacquei e quelli
elicotteri per un totale di 20 mila uomini, 2.195 veicoli e 70
veicoli speciali (50 veicoli blindati M-113, 10 elicotteri, 10
autobotti). Gli uomini stessi non si risparmiarono e 59 rimasero
feriti durante le azioni di soccorso. La bandiera dell'Arma fu
insignita di una seconda medaglia d'oro al valor civile. Ma la
principale ricompensa fu rappresentata dal fatto di aver tratto in
salvo 15mila persone, 13.500 capi di bestiame e oltre 1.000
veicoli.


Due anni dopo vi fu il terremoto del
Belice, una tragedia ed una vergogna che hanno lasciato tracce
profonde. Il 15 gennaio 1968 sei paesi furono cancellati dalla
carta geografica e altri sei furono gravemente colpiti. A Gibellina
le prime scosse fecero fuggire i 6 mila abitanti che passarono la
notte all'addiaccio. La fuga li salvò: poche ore dopo una scossa
del settimo grado della scala Mercalli distrusse completamente il
paese.


Andò in modo peggiore a Montevago
dove, passate le prime leggere scosse, la gente decise di rientrare
nelle case a notte tarda, Quando le scosse di avvertimento
risvegliarono la popolazione non ci fu più tempo per mettersi in
salvo: l'onda d'urto tellurica rase al suolo la maggior parte degli
edifici seppellendo donne, vecchi e bambini. Il terremoto isolò una
vasta zona interrompendo strade, facendo crollare ponti, tagliando
le linee ferroviarie e tranciando quelle telefoniche.


I Carabinieri della legione di
Palermo accorsero con grande tempestività (e con ogni mezzo a
disposizione) sul luogo del disastro. Il loro fu un compito
terribile e doloroso: molti di loro avevano parenti e amici sepolti
sotto le macerie.


Il comandante della legione di
Palermo, colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, assunse
personalmente il comando delle operazioni. Era un operativo: si era
già distinto da capitano con un gruppo di squadriglie durante la
campagna del CFRB nella rischiosa zona di Corleone, e con grande
senso pratico fece allestire una sala situazione nel comando della
legione per coordinare i soccorsi.


Nella stessa notte fu creato un
centro logistico a Gibellina e furono fatti affluire reparti dalle
legioni di Messina, Bari, Napoli e dal battaglione di Firenze. I CC
schierarono complessivamente: 2.500 militi, 300 automobili, 90
camion, 24 mezzi speciali, 237 motociclette e 6 elicotteri. Non
mancarono gli atti di sciacallaggio e le truffe ai danni di enti
assistenziali, regolarmente denunziati dai Carabinieri.


Lo stesso spirito fu messo in luce
dall'Arma nel terremoto di Tuscania e in quello ben più grave del
Friuli. Le prime violentissime scosse furono avvertite alle 9 di
sera del 6 maggio 1976: ne seguirono altre il giorno 11 e il 15,
con picchi di intensità tra il decimo e l'undicesimo grado della
scala Mercalli. E' il peggiore sisma italiano del secolo.


Ancora una volta i Carabinieri si
mossero con grande rapidità: gli ufficiali della legione di Udine
erano ai loro posti nel giro di pochi minuti; i collegamenti
ressero alla catastrofe; la notte stessa venne formata una
compagnia d'emergenza e fu fatto affluire il personale del XIII
battaglione CC di Gorizia.


Facendo tesoro delle esperienze
precedenti, venne costituito in meno di ventiquattr'ore un centro
di coordinamento dei soccorsi, mentre convergevano le forze del VI
battaglione di Mestre e del VII di Laives. Il giorno 8 le forze
impegnate dall'Arma raggiunsero i 3.000 effettivi con oltre 600
mezzi a disposizione, richiamati da tutto il nord Italia.


Uno dei simboli dell'immane sforzo
compiuto fu la tenda del comando di stazione di Tarcento. La
casermetta era crollata, ma lo stellone repubblicano era lì a
segnalare che gli uomini con gli alamari stavano lavorando per la
collettività. Una terza medaglia d'oro al valor civile premiò lo
spirito e la disciplina con i quali il corpo aveva sfidato la
calamità.

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