la memoria dispersa

a proposito di... maturità


Non nego che mi capita ancora di sognare l'esame di maturità e di svegliarmi terrorizzata al pensiero di non essere ammessa.Erano anni in cui la scuola era vissuta come un luogo sacro, dove si formavano curricoli e coscienze e dove il corpo insegnante aveva un ruolo e lo esercitava con la massima severità. Di quegli anni ricordo soprattutto le levatacce mattutine per ripassare o consolidare un concetto ostico o indigeribile e non c'era spazio per l'improvvisazione o l'approssimazione. Quando ti eri giocato l'esiguo numero di giustificazioni concesse erano dolori e dovevi votarti a qualche santo in paradiso per riuscire a schivare l'interrogazione suicidio. Anche "marinare" non è che fosse la soluzione perché significava avere a che fare con i compagni imbufaliti dalla fregatura di rischiare di essere interrogati al tuo posto e attendere poi le forche caudine dei professori che ti aspettavano al varco con sadica soddisfazione dipinta sul viso.Non era mia abitudine presentarmi impreparata ma succedeva di essere interrogata a tradimento e di rimediare qualche brutta figuraccia. Io poi ero negata per la matematica e meno riuscivo più la odiavo ma ero negata anche a copiare e una volta su due i miei compiti erano negativi. Eccellevo però in Italiano e le mie soddisfazioni le ritagliavo passeggiando tra poeti e correnti letterarie tanto che l'interrogazione mi sembrava sempre troppo breve per le infinite cose che avrei voluto dire. Ricordo la solarità dell'insegnante di Lettere che ascoltavo incantata. Riusciva a rendere leggera la lezione più noiosa perché aveva il dono di trasmettere. Ad ogni intervento gettava semi che noi dovevamo saper raccogliere. Le sue lezioni non finivano mai allo squillo del campanello. Aveva mille cose da dire, da chiedere, d'aggiungere e il suo viso tradiva la passione che metteva. Ricordo anche il niente che mi ha lasciato la professoressa di Diritto , viso affilato e occhi liquidi. Ci dava del lei per stabilire la giusta distanza, e la cattedra dove si ergeva come un'arpia rappresentava il mezzo dal quale orchestrava la sua indiscussa superiorità. Faceva scivolare il dito in su e in giù lungo l'elenco dei nostri nomi con studiata cattiveria, in un silenzio innaturale godendo dei nostri trasalimenti e vampate di rossore nel sentire pronunciare il nostro nome. Nessuno era mai tanto preparato da soddisfare i suoi parametri valutativi e durante l'interrogazione bastava un impappinamento, una pausa eccessiva o un riordino delle idee per essere spediti al posto con un quattro quando andava bene. Non nego che quella  sia stata anche una scuola di vita. Mi ha insegnato a scoprire la vocazione per l'insegnamento, a farmi le ossa nella vita e a capire soprattutto non quello che sarei stata ma quello che non sarei mai stata.