Pittura Spiritualità

L'Amore puro in Meister Eckhart


'L'Amore puro in Meister Eckhart' di Gianfranco Bertagni (dal sito 'in quiete' di Gianfranco Bertagni, che ringrazio) -Meister Eckhart, che opera tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300, è considerato il più grande tra i mistici speculativi della tradizione cattolica. Come è indicato dal nome stesso di ‘mistica speculativa’ (che è una mistica dell’intelletto), abbiamo in questo caso un predominio dell’intelletto rispetto invece al sentimento, che è alla base di quella corrente mistica che si contrappone – in un certo senso – alla mistica speculativa, cioè la cosiddetta ‘mistica del sentimento’. Già questo ci fa capire che parlare di amor puro in Eckhart non è proprio parlare di ciò che nella mistica speculativa si ritiene essere l’elemento centrale, il più nobile all’interno della vita spirituale del cristiano. Per quanto paradossale possa sembrare a qualcuno di noi, l’amore è qui visto non come l’apice di uno spirito mistico, essendovi qualcosa che lo supera in dignità. Però, allo stesso tempo, bisogna stare bene attenti – credo – nell’evitare di ritenere il tema dell’amore come non avente una sua importanza, una sua funzione all’interno della mistica speculativa, di cui Eckhart è il massimo maestro. Vedremo, spero, come non basti dire che l’amore in Eckhart non è la cosa più importante, che non basti ridurre la questione dell’amore in questo mistico a questa breve affermazione liquidatoria. Vedremo invece che l’amore ha una sua precisa funzione, una sua dignità, una sua importanza nell’itinerario mistico, senza il quale amore questo itinerario risulterebbe privo di una sua parte necessaria. Iniziamo subito con una citazione nella quale è presente il verbo amare: “Se amaste Dio, niente potrebbe essere per voi più delizioso di ciò che a lui più piace” . Questo cosa vuole dire? Che non ci deve essere il minimo moto di ribellione davanti a qualsiasi evento della vita. Tutto ciò che accade è prodotto dalla sua volontà: amare Dio significa amare la sua volontà. Può esserci dolore, dispiacere, ma deve permanere – parallelamente – la gioia di essere nella sua volontà. Per chi ama la volontà di Dio, “tutto quel che Dio gli manda, sia esso povertà, malattia o che altro, lo preferisce rispetto a tutto il resto. [...] Se ti piace la volontà di Dio, tu sei proprio come in paradiso, qualsiasi cosa ti avvenga o non ti avvenga. Invece a quelli che desiderano altro dalla volontà di Dio, capita giustamente che siano sempre nel dolore e nell’infelicità” . Ovviamente volere la volontà di Dio è automaticamente il tacere della propria volontà, di qualsiasi elemento che si ponga in uno stato di contrapposizione con la volontà di Dio. Questo mi sembra molto importante, perché se c’è ancora volontà personale, allora permane una dualità, un contrasto potenziale tra la mia volontà e quella di Dio. In questo caso, dunque, l’accettare la volontà di Dio significherebbe un sforzo, un atto compiuto a denti stretti. E questa situazione sarebbe del tutto naturale, perché permarrebbe appunto il mio io, con le sue richieste, le sue aspettative, la sua volontà appunto, le sue preferenze, ecc. E infatti Eckhart dice: “Devi abbandonare invece te stesso, completamente, e allora hai davvero lasciato tutto” . Abbandonare tutti i propri beni, se non hai abbandonato te stesso, non serve a nulla: è un semplice nascondersi dietro un dito, un atto devozionale puramente formale scambiato per atto spirituale. L’abbandono di se stessi e l’accettazione di tutto ciò che è sono un’unica operazione. Se abbandono me stesso, crolla tutta quella serie di aspettative, di richieste, di desideri, di antipatie, di avversioni, di insofferenze che mi negano la possibilità di accettare la realtà, di accettare la volontà di Dio. Naturalmente in questo contesto – è superfluo dirlo – realtà e volontà di Dio coincidono: tutto ciò che è, è perché Dio lo vuole. Il legame stretto tra accettazione e abbandono è evidenziato in questo testo: “Accettate quello che Dio vuole darvi in quel momento, permanete sempre in un umile annientamento e abbassamento di voi stessi [...]. Così si trova spiegato il testo di San Giovanni: ecco come l’amore di Dio per noi si è manifestato. Se fossimo così, questo bene sarebbe in noi manifesto. Se ci è nascosto, noi soli ne siamo la causa. Noi siamo la causa di tutti i nostri ostacoli” . Quindi il bene che Dio ci offre, il suo amore, la sua manifestazione, è sempre presente, fluisce senza interruzione. Siamo solo noi l’ostacolo ad esso: è solo la nostra non accettazione, il nostro mancato abbandono dell’ego, che ci priva del suo amore, che ci rende sordi al suo amore. L’amore di Dio non è qualcosa che arriva a un certo punto, che se ne va: l’amore di Dio è, si tratta di aprirsi ad esso. Dunque la vera operazione che l’uomo deve compiere interiormente è quella del distacco. Il distacco è quel rivolgersi totalmente all’Assoluto, quella metanoia che costituisce il nocciolo della mistica. Nel distacco si pone termine alla finitezza propria della volontà personale, che è sempre di parte, parziale, limitata, sempre fondata sull’ego, quindi sempre legata. Un distacco che sarà realizzato in pieno nell’atto stesso dell’umiltà. Dice Eckhart: “Se l’uomo si umilia, Dio, nella sua bontà, non può fare a meno di abbassarsi e di effondersi nell’uomo [...] Quel che Dio dona è il suo essere, e il suo essere è la sua bontà, e la sua bontà è il suo amore” . L’umiltà è il tacere di ogni nostra autoaffermazione, di ogni nostro egoismo, di ogni nostro egocentrismo. L’ego esiste nel momento nel quale si vuole imporre, si realizza nell’atto stesso di appropriarsi di ciò che desidera come suo: vuole essere, cerca potere, vuole affermarsi, e quindi instaura un meccanismo di orgoglio, di superbia, di invidia. L’umiltà agisce in senso opposto. L’umiltà è perfetto distacco, quindi abbandono totale dell’ego: l’umiltà annulla ogni affermatività dell’ego, realizza un’apertura all’Assoluto, è essa stessa questa apertura. Un Assoluto che già opera, agisce in noi, ma che è ostruito dal nostro io psicologico, dalle sue bassezze, dalle sue chiusure, dal suo essere centrato in se stesso. Un Assoluto che emerge nel momento nel quale viene meno la volontà personale. In questo distacco che è abbandono dei legami, è comprensibile l’amore come amore di tutto e in tutto, un amore che è essenzialmente e fondamentalmente equanimità e non atto egocentrico di preferenza, di scelta, di piacevolezza, di desiderio. Amare tutti come noi stessi significa concludere la preferenza per noi rispetto agli altri. L’umiltà ci abbassa: siamo tra i tanti fratelli e se io preferissi qualcosa in più per me rispetto a quello che volessi per gli altri, darei dimostrazione ancora dell’esistenza di un ego, da contrapporre, da misurare con gli altri. Amare il prossimo come se stessi è una naturale conseguenza dell’amore per Dio, che tutto appiana e tutto equipara: “Bisogna amare gli altri cristiani come noi stessi. [...] Chi ama Dio come deve e come bisogna amarlo [...] deve amare il prossimo come se stesso, rallegrarsi delle sue gioie come delle proprie, desiderare il suo onore come il proprio, lo straniero come il suo vicino. [...] Se il tuo proprio onore ti rende più felice di quello di un altro, ciò non è bene” . Preferire una persona ad un’altra significa semplicemente trovarvi diletto, cioè si tratta di un amore egocentrico, nel quale cerco un tornaconto personale; amare il prossimo in Dio significa invece abbandonare un amore di appropriazione, un amore come gesto violento verso il prossimo, per abbracciare un amore disinteressato e puro: “Se ami una persona più di un’altra, a meno che non ami in essa le sue virtù, in essa trovi te stesso e Dio non è il tuo Dio” . Bisogna cioè amare senza un motivo riconducibile alle caratteristiche proprie della persona cui è indirizzato il nostro amore (che nostro non è) o a ciò che di piacevole troviamo nell’amare o nell’essere amati. Il vero e puro amore è sempre senza perché, senza intenzione, senza alcuna finalità che non se stesso: “L’amore non ha alcun perché. Se avessi un amico e lo amassi per ottenere qualcosa di buono da lui secondo il mio volere, allora non amerei l’amico, bensì me stesso. [...] Proprio così stanno le cose per l’uomo che permane nell’amore di Dio, senza cercare niente di proprio né in Dio, né in stesso, né in cosa alcuna, e ama soltanto Dio, [...] per amore di tutto quel che Dio è in se stesso” . L’amore è cioè distacco, senza perché. Amare tutti in modo eguale è soprattutto imitare l’amore di Dio, che tutti abbraccia nella stessa misura. Imitare Gesù è imitare anche il suo amore distaccato da preferenze e antipatie di ogni sorta: “Tra le creature, egli [Dio] non ne ama una più di un’altra [...]. [...] Dobbiamo amare ugualmente tutte le creature” . Amare tutte le creature nella stessa misura significa accoglierle tutte allo stesso modo, senza alcuna classifica, senza graduatorie, evitando che l’atto d’amore verso il prossimo sia prodotto da un giudizio nei suoi confronti. L’amore deve accogliere tutto indistintamente: “Il cielo contiene tutte le cose e le mantiene in sé. Lo stesso può fare l’uomo con l’amore: contenere in sé tutte le cose, amici e nemici” ; significa essere vicino allo stesso modo a chiunque, “senza essere più vicino a te stesso che a un altro” , come dice Eckhart stesso. E per accogliere tutto indistintamente, l’amore deve necessariamente essere un flusso che parta dall’amore di Dio, dall’amore per Dio, per poi giungere all’amore per le creature, perché solo un amore in Dio può essere realmente equanime, solo un amore attraverso Dio può essere spoglio del benché minimo atto egoistico, di appropriazione e prodotto dalla volontà personale: “L’amore deve cominciare da Dio ed essere lo stesso per il prossimo. Se dunque mi spoglio completamente di quel che è mio, ho un solo e medesimo amore perfettamente uguale per tutti” . Nell’amore mi spoglio di me stesso e quindi mi divinizzo, perché ho annullato il mio io, per far sussistere solo Dio: “Nell’amore che si dà, non vi sono più due, ma uno solo e unità, e nell’amore sono più Dio di quanto sono in me stesso” . L’amore stesso unifica nel suo agire, conduce dalla molteplicità all’unità. Finché c’è separazione, c’è mancanza, c’è sofferenza; l’unificazione cui porta l’amore è invece pacificazione: “Il tuo amore deve essere Uno, giacché l’amore non vuole essere altro che dove è uguaglianza e unità. [...] Dove sono due, là c’è difetto. Perché? Perché l’uno non è l’altro, e questo ‘non’, che crea la differenza, non è altro che amarezza, perché lì non c’è pace. [...] Amatevi l’un l’altro! E ciò significa: l’uno nell’altro. [...] San Giovanni dice: Dio è amore, e chi sta nell’amore sta in Dio, e Dio in lui” . Il potere unificatore dell’amore è dato soprattutto dal fatto che l’amore stesso con il quale amiamo non è distinto dall’amore di Dio. L’amore con il quale amiamo è lo stesso amore con il quale Dio ci ama: non sono due amori che si incontrano, ma è un unico flusso d’amore nel quale entriamo, o meglio nel quale diventiamo consapevoli di essere. È lo stesso amore trinitario nel quale viviamo, ci muoviamo e agiamo: “Chi togliesse a Dio l’amore per noi, lo priverebbe del suo essere e della sua divinità [...]. [...] Dio ha soltanto un amore: egli mi ama proprio con quello stesso amore con cui il Padre ama il Figlio suo unigenito” . E ha un nome ben preciso quell’amore con il quale il Padre ama il Figlio: è lo Spirito Santo. Qui Meister Eckhart è debitore riguardo ad Agostino e ad alcune pagine del suo De Trinitate: “Quello stesso amore con cui Dio ama l’anima è la sua vita, [...] lo Spirito santo, [...] è questo medesimo amore” . Non può che essere così: Dio ama se stesso, solo Dio è degno del suo amore ed è proprio in questo amore circolare che l’anima ha la possibilità di fare esperienza dell’incontro con l’amore di Dio e di amare lei stessa in modo nobile: “Dio mi ama nello stesso amore in cui ama se stesso, e l’anima ama Dio in questo stesso amore in cui egli ama se stesso” . E poi ancora: “Cosa ama Dio? Dio non ama niente al di fuori di se stesso, e di ciò che gli è simile [...] Dio non ama niente in noi, se non in quanto ci trova in se stesso. C’è una grande differenza tra l’amore di Dio e il nostro. Noi amiamo solo in quanto troviamo Dio in ciò che amiamo. [...] Invece Dio ama in quanto è buono, e non può trovare nulla che sia degno di amore nell’uomo, se non la sua stessa bontà, e ci ama in quanto siamo in lui e nel suo amore” . Come già detto, l’uomo si trova già all’interno di questa dinamica amorosa. Ne deve divenire però consapevole. Il non esserlo è quindi solo causato da lui stesso: è una sua colpa. Abbiamo già visto che Eckhart vede nella non accettazione dell’abbandono di se stesso da parte dell’uomo l’unica causa della mancata consapevolezza dell’amore di Dio che in lui opera. Qui si insiste sullo stesso punto: l’opera di Dio in me è continua, senza interruzione: “Dio genera in te il Figlio suo unigenito, ti piaccia o no, che tu dorma o vegli, egli compie l’opera sua. Ho spiegato di recente di cosa è la colpa se l’uomo non se ne accorge, e ho detto che la colpa è nel fatto che alla sua lingua è attaccato dello sporco, ovvero delle creature. [...] Se avessimo l’amore divino, troveremmo gioia in Dio e in tutte le opere da lui compiute” . Quindi l’essere attaccati alle creature, quell’attaccamento prodotto – come si diceva – da un amore basso, fatto di egocentrismo, di desideri, di brama, il dirigere la nostra attenzione sulle creature intese come fini a se stesse e come nostra possibilità di fortificazione dell’ego, ovviamente allontana da Dio. L’amore inteso come legame a qualcosa, come passione, deve avere termine, per potersi estendere ugualmente su tutto, per essere equanime, uno e identico, per essere puro, nudo, distaccato; non deve avere altro fine che se stesso. Le cose di questo mondo quindi – in questo senso – devono essere abbandonate, e lo sono nella misura nella quale io abbandono me stesso. L’abbandono di me stesso equivale all’abbandono di quel tipico atteggiamento umano che è contrario all’amore divino, secondo il quale amo nella misura nella quale ho un tornaconto per il mio ego: “Tutto l’amore verso le cose del mondo è fondato sull’amore di sé. Se tu avessi abbandonato questo, avresti abbandonato l’intero mondo” . L’amore puro è abbandono di quell’atteggiamento verso le cose fondato sulla loro materialità, sulla loro apparenza, è un rivolgersi verso se stessi, è un trovarvi la fonte e le operazioni dell’amore puro già agente in noi. Cioè l’amore puro è raccoglimento e non separazione; è, ripetiamolo, unità e non dispersione nella molteplicità: “Purezza del cuore è essere separato e diviso da tutte le cose materiali, raccolto e racchiuso in se stesso” . Questo raccoglimento conduce a un piano completamente nuovo, nel quale il meccanismo stesso dei sentimenti usuali viene trasceso, nel quale vi è quiete perfetta, assenza completa di qualsiasi stato emotivo dualistico e per sua essenza passeggero – cioè non stabile e fermo: “Quando l’anima non si disperde nelle cose esteriori, giunge a se stessa e risiede nella sua luce semplice e pura. Là non ama, e neppure ha angoscia o paura [cfr. Commento al vangelo di Giovanni 390, 453]” . Si arriva quindi a un trascendimento dell’amore stesso. Ma su questo poi torneremo. In ogni caso, in questo processo di trascendimento di un amore troppo umano per le creature, le creature stesse e questo tipo di amore ‘inferiore’ ricoprono comunque una loro funzione. Questa è un’idea tipicamente platonica, che ritroviamo nel Simposio: l’amore per le cose di questo mondo va compreso come amore per una bellezza che è annunciata nelle cose stesse, ma che le trascende. L’errore – naturalmente – è quello di fermarsi alle cose, intendendole come belle in sé, e non come scala al divino, e quindi da amare in modo altrettanto divino. La natura dell’anima è quella di amare il bene: “Se ogni uomo penetrasse consapevolmente nel proprio cuore, troverebbe che non ama altro che il perfetto bene” . L’amore unisce a ciò che viene amato, quindi Dio non permette che questo bene perfetto che l’amore cerca possa essere trovato in una creatura qualsiasi, perché altrimenti l’amore porrebbe l’uomo fuori di sé. E quindi: “Soddisfazione e perfezione non stanno in creatura alcuna e ciascuna rimanda a un’altra: la soddisfazione del vestire non è quella del mangiare e neppure del bere” . Cioè: la soddisfazione prodotta dalle creature, che si cerca attraverso l’amore per esse, è una sorta di palla che salta da una parte all’altra, che conduce l’anima fuori di sé, alla spasmodica ricerca di ciò che appunto la soddisfi, non trovando mai l’esito e l’appagamento definitivo della sua ricerca. È – diciamo così – un tranello architettato da Dio stesso perché l’uomo si risvegli a se stesso e diriga correttamente il suo amore: “L’anima non può trovare soddisfazione che nell’amore, e l’amore è Dio” . L’uomo si pone nella prospettiva sbagliata: vede le creature come desiderabili e allora cade nella dispersione, nella separazione, nella molteplicità, cercando di rintracciare ciò che ama nelle caratteristiche proprie di questa o quest’altra creatura. Ma è invece attraverso il processo opposto che è avvicinabile Dio in quanto Bene proprio delle cose. Amare le cose in quanto cose, amare le cose in Dio sono due amori diversi, opposti: uno è falso, l’altro perfetto; l’uno si ferma alle creature, l’altro le trascende, superando le loro caratteristiche determinate, le loro proprietà, cioè il loro essere limitate, per approdare a quella purezza priva di qualsiasi determinatezza: “Dato che in ogni creatura appare qualcosa di desiderabile, gli uomini amano ora questo ora quello. Ma se togli il ‘questo’ e il ‘quello’, rimane solo Dio nella sua purezza [riprende il De trinitate (8, 3, 4) di Agostino]. [...] Dato che non conosciamo Dio, amiamo nelle creature ciò che è buono, ma si commette il peccato perché insieme al bene si amano le cose” . Come è indicato da questo brano, si deve superare il ‘questo’ e il ‘quello’. Questo aspetto è strettamente legato al tema dell’amore senza perché. Bisogna spogliarsi di qualsiasi aspettativa, perché l’amore sia veramente puro. Così come devo amare le creature senza che il mio amore sia motivato da alcuna caratteristica propria presente nella tal o talaltra creatura (perché il mio amore non scada in amore di appropriazione, di ricerca dei miei fini e preferenze personali), così anche deve essere il mio amore per Dio. Non deve essere un amore ‘mentale’, cioè motivato da certe idee piuttosto che altre, non deve essere un amore con secondi fini: perché reputo Dio buono, bello, giusto, vero, ecc. Amare Dio per un motivo, per quanto nobile sia questo motivo, mi allontana da Lui, pone una separazione da Dio nella sua purezza. Amare Dio attraverso le idee, anche se elevatissime, pone una serie di filtri tra l’anima e l’Uno. Devo invece amare in semplicità, in estremo abbandono di me, delle mie idee, delle mie valutazioni, del concetto stesso che ho di Dio. Amare è amare con semplicità: “Devi amarlo [Dio] in modo non intellettuale, ovvero l’anima tua deve esser priva di ogni intellettualità, giacché, fin tanto che opera intellettualmente, ha delle immagini; finché ha immagini ha mediazione; finché ha mediazione non ha né unità né semplicità. Ma finché non ha semplicità, non ha mai rettamente amato Dio, perché il vero amore risiede nella semplicità. [...] Devi amarlo [...] in quanto è un puro, limpido, chiaro Uno, separato da ogni dualità. E in questo Uno dobbiamo eternamente sprofondare dal qualcosa al nulla” . Dal qualcosa al nulla: cioè dalle idee, dalle teorie, dalle definizioni di Dio, al loro abbandono. Si deve amare Dio in quanto Dio, senza motivo, senza pretendere alcunché d’altro rispetto all’amare stesso. L’amore di Dio trova in sé il suo fine, è un niente volere e un niente cercare: “L’uomo giusto non ama in Dio il questo o il quello, [...] egli non vuole niente e non cerca niente” . Dunque bisogna eliminare dalla nostra anima qualsiasi determinazione che rinchiude Dio in definizioni, concetti, categorie. Anche ciò che ci appare come il più nobile degli attributi – il Bene, il Vero, il Bello, il Buono, il Giusto, ecc. – è sempre una delimitazione di Dio, il quale nella sua infinità, nella sua eternità, supera qualsiasi nostro concetto di dio stesso, qualsiasi nostro tentativo di comprenderlo, di definirlo, di avvicinarlo attraverso l’intelligenza. L’anima si deve purificare, deve fare proprio un non-sapere riguardo a Dio, per potersi abbandonare a Lui: “Dio [...] come una luce o come un essere o come una bontà, [...] bisogna togliere tutti gli attributi e conoscere Dio come Uno. [...] Dio è senza nome”. Se gli dessi un nome, lo dovrei “pensare come un qualcosa. [...] Quando l’anima innamorata si effonde completamente in Dio, non sa niente altro che l’amore” . L’anima per accogliere la pura e nuda Divinità, deve abbandonare tutto ciò che si è aggiunto a essa: si deve spogliare di se stessa, abbandonandosi, abbassandosi, annichilendosi e deve spogliare Dio di tutto ciò che lei gli attribuisce e che quindi gli vieta di ‘vederlo’ nella sua purezza. Tutto ciò che pensa di Dio, deve essere abbandonato, perché “quando qualcosa viene pensato, si aggiunge”: l’Uno è invece negazione di ogni determinazione, “l’Uno significa ciò cui niente è aggiunto” e che quindi tutto contiene . Allora cominciamo a capire per quale motivo l’amore secondo Meister Eckhart ha una sua funzione che deve adempiere, ma ha anche un suo limite. In che senso? Nel senso che l’amore non spoglia completamente Dio di ogni determinazione: “L’amore coglie Dio in quanto buono [...] coglie Dio sotto un mantello, sotto una veste” . Ma anche la Bontà, come abbiamo già detto, è un’aggiunta rispetto all’insondabile unità e purezza di Dio: “Ciò oscura l’essere e gli pone sopra un mantello, perché è un’aggiunta”. All’Uno deve essere tolta ogni altra cosa: bontà, essere, verità, ecc. Cosa rimane? “Il nulla, né questo né quello. Se tu pensi ancora qualcosa che egli è, non lo è affatto” . Intendiamoci: il nulla ovviamente inteso come nulla rispetto a qualsiasi nostro tentativo di indagine della sua essenza, rispetto al nostro pensare, alle nostre categorie, anche al nostro fare teologia. Ogni definizione e concetto di Dio è un filtro che si interpone tra me e Dio stesso: “Finché sopra di me sta qualcosa di diverso da Dio [...] mi opprime; anche se fossero la ragione o l’amore stessi [...] mi opprimono” . Bisogna allora superare l’ambito della conoscenza e perfino l’amore stesso, per raggiungere quel principio dal quale la conoscenza e l’amore hanno la loro origine, dalla quale scaturiscono. Il puro intelletto “penetra nel fondo, da dove erompono la bontà [che è oggetto d’amore] e la verità [che è oggetto della conoscenza], e coglie l’essere divino in principio, al principio, dove la bontà e la verità sono uscite” . È qui che risiede la vera beatitudine, l’esito ultimo del percorso mistico. Alcuni maestri di teologia la facevano risiedere nella conoscenza, altri nell’amore. Eckhart risponde che sta in qualcos’altro, in qualcosa che supera la conoscenza e l’amore, qualcosa da cui scaturiscono la conoscenza e l’amore:nel punto dell’anima più interno, nel fondo dell’anima, quel fondo che supera ogni amore e ogni conoscenza, che è puro in se stesso in quanto in piena comunione con il divino, un fondo nel quale ogni ricerca è terminata, nessuna cosa viene aggiunta, in cui non c’è più guadagno o perdita, un luogo che “gode in se stesso, al modo divino. Perciò diciamo che l’uomo deve stare vuoto e libero, [...] e così può possedere la povertà [in spirito]” . Nel fondo dell’anima si passa dal Dio – inteso come qualcosa di determinato - alla Dinivintà - pura, nuda, vuota di qualsiasi qualità e determinazione -, così come si passa dalla Trinità all’Uno. Si giunge dall’amore al suo termine.