Bushi ni nigon nashi

IntrospettivaMente. Le mie sillabe notturne.


Starsene una notte intera a scrivere. Bere caffè freddo da una tazza verde menta di ikea e spegnere ogni luce possibile, i rumori della strada, ogni pensiero che ti colleghi alla vita di ogni giorno. Quella fatta di metro e passi veloci, gente incontrata per le scale e dentro ascensori, camici bianchi e brandine d’ospedale. E sì che poi si tratta di un lavoro di comunicazione, perlopiù. Ma arriva il giorno che qualcuno sbaglia numero e se ne sta lì a raccontarti la sua storia, ogni lacrima di dolore e ogni minimo progresso. Parla come se non parlasse da settimane e tu non te la senti di dire ehy, non sono la persona per lei. Non oggi. Oggi non c’è nessuno qui. E certo, lo so che è un ospedale. Ma oggi sono tutti via. La gente ha una vita. Mica solo un lavoro, mica solo questa specie di missione da portare avanti, mica solo questo stupido telefono a cui rispondere. Avanti, continui per favore. Ci sono io per lei oggi, non ho altro da fare e fare questo mi fa sentire meglio, a dirla tutta. Un po’ più parte di questo tutto, un po’ meno sola, nel mio incedere. Bere caffè freddo, ad un certo punto della notte non basta più. Ci vuole altro per continuare a scrivere in questa specie di solitudine surrogata. Raccogliere i pensieri e sparpagliarli sul tavolo. E lo senti? Il ruvido della seta indiana? Raccontalo. E così che inizia quel libro, con una sensazione. E non si tratta di seta, ma di amore. E non era la pace di un tessuto, ma la febbre di una trama… troppo fitta, forse, per poter essere sbrogliata. E’ una cosa da giornate memorabili. Il giorno della decisione, quello dell’occasione e il giorno dell’arrivo. Il primo, nel ricevitore di un telefono, non ho sentito quello che mi aspettavo. E ho pianto. Il secondo, seduta nello studio di un avvocato, non ho sentito quello che mi aspettavo. E ho pianto. Ma anche detto la verità. Mi ricordo il momento esatto, nell’apice del risentimento e della delusione. L’ho guardata senza occhi e avrei voluto avere un laser per passarle allo scanner le reazioni fisiche, dimostrare le sue menzogne e inchiodarla alle sue responsabilità. Ho detto: sei una grandissima bugiarda. E, sì, poi ho pianto. Il terzo giorno, il giorno dell’arrivo, ho varcato il portone con un asse da stiro sottobraccio e non ho sentito quello che mi aspettavo. Ho pianto solo perché mi mancavano le mie montagne, come Heidi a Francoforte. Ed è ovvio, non basterà questo quadrato di seta indiana a ricordarmi l’atmosfera di “casa”, quando scrivere era semplice e non era necessario ritagliarsi pezzi di isolamento acustico e visivo per riuscirci. Da quando ho conosciuto P.P. il bisogno di mettere nero su bianco la mia storia mi bussa alle tempie in continuazione. Il fatto che lui sia uno scrittore affermato ed io una novizia affamata di storie, rende il mio apprendere una dipendenza e lo scrivere un esercizio costante. Dice “scegli le parole”. Che sono importanti. Non c’è niente di più importante, per uno scrittore, della parola giusta. Quella con il suono migliore, il perfetto corredo di sensazioni visive e connessioni mentali. L’unica possibile. “Non spaventarti, se la parola è una brutta parola. Se è quella la riconoscerai”. Così mi vengono in mente astuzia, improbo e ginnasta. Allunaggio, gambizzato e vimini. Che sono brutte parole. Sono sicura intendesse “parolaccia” con “brutta parola”, inquadrando la mia sensibilità artistica in una luce patinata e senza striature. Ma io sono una che gioca a fare la maledetta, una centometrista dei sentimenti, una mantide crocerossina. E non ho paura di dire cazzo, al momento giusto. Fino a qualche tempo fa per addolcirne i tratti scrivevo caxxo. Saab mi ha fatto notare che è da bimbeminkia ritardate. Ora, io so cosa significa ritardata, ma non bimbaminkia. Però anche questa mi pare una cosa brutta da dire.