Bushi ni nigon nashi

La sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso, il destino, quando, d'un tratto, esplode.


Scelgo il silenzio perché mi sembra che tutto sia già stato detto. Me ne sto rinchiusa in un mutismo vecchio ormai di mesi, fatto di brutte emozioni e spicciole deduzioni, roba intrisa di inchiostro simpatico e rumori molesti. Trascorro il mio tempo immersa nel liquido vischioso che mi esce dall’anima quando le ferite bruciano e il dolore si fa insostenibile. Ho iniziato il lento percorso dell’elaborazione. Finalmente. Ricostruisco momenti perlopiù. Metto in fila ogni azione, iniziativa sbagliata. Trascrivo un elenco di bugie, le sottolineo con un pennarello che stinge e mi macchio le dita indelebilmente. Tracce ovunque. Alla fine ti rendi conto che non è più neanche una questione di colpe. Ma di responsabilità. Capisci che non è la rabbia che ti divora. E’ la delusione. E’ il fallimento. E’ il disgusto. Per non impazzire, davvero, le sto tentando tutte. E tutte quelle che sto tentando hanno dentro un alone indefinito eppure oscenamente concreto. E’ come se la vita mi avesse preso a pugni all’improvviso con un guantone borchiato. Come se avesse deciso che è arrivato il mio turno per pagare. Perché dovevo immaginarlo, il conto, alla fine, arriva sempre. Paghi ogni attimo di felicità avuto in regalo e quell’unica lacrima versata in tuo nome. E’ la dura legge del karma. Giro intorno alle verità che ho paura di sapere, le brutte visioni delle notti trascorse da sola, in un letto troppo grande per un esserino come me, raggomitolata intorno al cuscino come un gatto infreddolito, piena di ombre. Io non volevo far finta di nulla. Io volevo salvarci. Noi due. Volevo credere. Farcela. Ecco, farcela. Oggi ho parlato con Ale. Ale che ha sempre brutte parole nelle tasche. Me ne ha regalate un pugno da scagliare contro le persone sbagliate, incidendomele sui polsi e all’altezza delle caviglie con un bisturi d’argento così che io non le dimentichi. Ancora sanguino. Mi domando se le ferite guariranno mai. Se i tagli che mi porto dentro cicatrizzeranno in qualche modo e le assurde pretese che mi si annidano nei polmoni troveranno la loro dimensione. Questi ultimi due anni sono stati come un tuffo di pancia nell’acqua ghiacciata del mare della Groenlandia. Sentivo solo un tremore cieco. Poi sono arrivate le sferzate, lancinanti, a flagellarmi. Io non so se sia vero. Magari l’ho letto da qualche parte che il gelo uccide con lucida ferocia. Il dolore ti lacera i nervi. Come centinaia di aghi che ti trafiggono, infilandosi tra le scapole, nella carne tenera dell’inguine, dentro agli occhi spalancati. Poi il silenzio. Che è il rumore dell’anima.