Bushi ni nigon nashi

E poi ci sono quelle cose che non si possono scrivere. Assenze.


 
E no, lo so che non dovevo scrivere stanotte, che domani ho una giornata difficile e mi sveglierò presto e bla bla bla, chissenefrega dico io, questa roba qui di vomitare su un foglio bianco quello che la testa rifiuta e il cuore suggerisce e le dita trasudano è più un’urgenza che una banale necessità, è quel genere di cosa che ti fa dimenticare le scadenze, che ti fa saltare la fermata, ti ruba ore di sonno e ti spezza a metà la vita. Lo sanno bene quelli che. Quelli che vivono di sillabe. Di suoni nascosti sotto la lingua. Quelli che scrivono, lasciano riposare, rileggono e cestinano. E’ che le parole vanno a male. Ti svegli una mattina e te le trovi tutte lì, molli e verdognole come zucchine imputridite sul fondo di un frigorifero.Qualcuno dice che non devo farlo. Che bisogna andare avanti a scrivere senza guardarsi indietro, che la storia che ho in testa… sarà lei a scrivere me. Altri suggeriscono di prendere spunto dalla mia realtà, che un punto di vista personale sulle cose è quanto di più onesto io possa fare nei confronti di un ipotetico lettore. E allora eccolo il resoconto breve dell’1.24 di notte.L’altra sera ero ad una festa, una di quelle in cui arrivi tutta figa e vai via a pezzi, con i vestiti bagnati, i capelli crespi, il trucco sciolto e le scarpe in mano, una roba così. Alla fine, c’è stato un momento in cui mi sono guardata intorno e ho pensato: nessuno se ne accorge che io ormai non ci sono più. Ascolto, parlo, sorrido, mi butto in piscina, ma non ci sono più. Emme deve avermi adocchiato da lontano che sembravo sul punto di lasciarmi cadere perché mi ha invitato al suo tavolo, ma io non sono andata. Mi sono rinchiusa nello spogliatoio cercando di asciugarmi i vestiti con un phon da viaggio, ricacciare indietro l’angoscia, smettere di pensare alle aspettative, lasciarmi andare, lasciarlo andare, lasciarsi tornare. Cose così insomma. Ci ho provato. E forse per un po’ è stato come avrebbe dovuto essere sempre. La cosa più strana di tutte è che sono stata presente a me stessa per tutto il tempo, come se non volessi perdermi un solo secondo di vita. Nessuna sensazione sprecata, nessuna nebbia emozionale. Io c’ero. E ho continuato ad esserci fino ad oggi, quando alle 17.17 qualcosa di strano, come un lembo di realtà che si sovrappone ad un’altra, è accaduta. Io c’ero. Ed era nulla di più che un’emozione in transito, una cosa da poco a pensarci bene, o da tanto, per una come me, colma di mancanze come sono. Sono gli addirittura che mi stendono, i gran bel quello, gran bel quell’altro, sono quelle cose tipo ritrovarsi dopo settimane di assenze, sono come quella cosa lì che diceva Charles, quella che succede con le persone un po’ distratte, che appena le abbracci sembrano ricomporsi, mentre prima cadevano in mille pezzi. Sembrano tornare a se stesse, finalmente presenti a se stesse. Per questo le senti sospirare. All’improvviso, mentre parlano di altro. Le abbracci e loro sospirano. E basta quello. Basta quello.“Forse semplicemente continuerei a non sapere niente dell’amore. E invece, qualcosa lo so. So che passa. So che finisce. Che si delude. Illude. Corrode. Che evapora. Che è una pozzanghera d’acqua limpida, e poi sporca. Che è un liquido fatto di umore corporei. Che è cattiveria. Dolcezza. Che credi sia finito e poi torna. Che è indistruttibile. Anche se si sfibra ogni secondo che passa. So che è imprendibile. E che non si può dire.” [Simona Vinci]