Bushi ni nigon nashi

Adesso che sei forte... che se piangi ti si arrugginiscono le guance...


Fino a che non sei con il culo piantato su una sedia di metallo di una stanza d’ospedale di notte, con la mano sinistra poggiata sul cuore di qualcuno che ami e che potrebbe andarsene da un momento all’altro, non puoi capire che cosa si prova ad avere paura. Uno crede che la paura sia un’emozione comune agli uomini, come la gioia e la gelosia. In realtà la paura differisce dal terrore, che è più primitivo, perché ti inietta gli occhi di sangue e ti avvicina a Dio, chiunque egli sia. In questa notte di bollicine di ossigeno, tubi verdi e aghi nel braccio, quello che sento è un misto di dolore e preoccupazione, ansia cieca, cupa rassegnazione, sentimenti esasperati e mani giunte. Tiziana dice che la preghiera salva l’anima delle persone dall’inutilità. Io combatto a mani tese contro l’istinto primordiale di staccarla dai suoi fili di plastica, caricarmela in spalla e portarmela via. Tutto questo mi riporta a quella volta, quando vennero a dirci che non ce l’aveva fatta e, mentre la mia guancia scivolava verso il fondo di un muro di piastrelle, la mia testa farneticava che se fossi riuscita a riportarla a casa e metterla nel suo letto avrei potuto salvarla.La notte, nelle corsie d’ospedale, i ricordi si annidano nelle crepe dei muri, sotto gli zoccoli dei medici di guardia, nei neon gialli, nelle flebo lente, goccia a goccia, così ci andiamo avanti tutta la notte. E almeno abbiamo un obiettivo, superiamo questa. Una notte alla volta.Rubo minuti alla luna, guardo oltre e attraverso un corridoio di vetri e specchi, mi sembra di vedere me tra un milione di anni, o un milione di anni fa, ma non adesso.Il respiro si fa regolare e finalmente riposa, chiudo la flebo, mi implora con gli occhi sgranati, puoi riposare ora, dormi amore mio, dormi.Nella vita di ognuno la paura è una condizione che si raggiunge con l’esperienza. Prima è altro.Ma quando sei passata per l’assenza, quella vera, quella che prima c’era e di colpo non più, quella che ti sveglia di notte e ti fa chiedere “dove sei?”, quella che non sai come, ma devi trovare il coraggio per andare avanti, allora eccola la paura: ti ferma il sangue nelle vene, ti assolve da ogni colpa, e ti apre in due, tagliata a metà. Di fronte all’altare del suo busto che si solleva nel respiro.Continua a respirare ed io continuerò la mia preghiera.Dammi la ragione, lasciami il tempo di fare le mie scelte con la certezza che ci sarai. Quando arriverà il momento di benedirle.Hai fatto bene, hai fatto male. Poi, in fondo, cosa conta? Contano le nottate così, ad assumerci responsabilità, a giocare col destino e a domandarsi “fino a quando”?Io non so se ho visto giusto, ma la sensazione è quella li.Quella di quando sono venuti a dirci che Stefania aveva avuto un incidente e la mia testa già sapeva che non era un tamponamento, che non si era rotta una gamba e che me l’avrebbero portata via.Lo sapeva che non c’era scampo e che mi sarebbe mancata ogni giorno della mia vita.La sensazione è quella. E forse è solo perché sono seduta di notte su una sedia di ferro di una stanza d’ospedale, con una nebbia fredda dentro che mi gela il respiro, ma da qui tutto sembra più grande. E il mondo lì fuori immenso, e le emergenze ingestibili, e le difficoltà insormontabili e le crisi insuperabili. E i senzatetto, i gatti randagi, i cani abbandonati e la guerra, mio dio la guerra, e i bambini sfruttati e le donne ferite e gli uomini stanchi e la gente che non ce la fa più. Ti fa partire la testa, roba che ti manderebbe all’ospedale, se non ci fossi già.Così cominci a riempirti il tempo con facebook, twitter e whatsapp, rainews24, meteo.it, l’oroscopo di Paolo Fox e le foto delle tue vacanze. Ripensi al tempo speso bene dietro alle cose sbagliate e viceversa, e ti chiedi come potrebbe essere il tempo speso male dietro alle cose giuste.Che poi, in qualche misura, stando a quello che dite tutti, se è la cosa giusta, ma giusta davvero, troverà il modo di restare.E allora, forse, di cose giuste non devo averne incontrate molte nella mia vita, giacché le cose, ecco, continuano a finire. E non c’è ancora nulla che abbia scelto di rimanere. Perché forse la parola chiave è per sempre e il per sempre non esiste.Tutto quello che so di questa notte qui è che fa a pugni con il buio delle mie notti precedenti.Tutto quello che non so se ne sta accucciato sotto strati di lenzuola bianche di cotone, respira in silenzio, coi tubi nel naso, e non si lamenta mai.Dicono che abbia una soglia del dolore molto alta. Ma io la chiamo dignità.Coraggio. Disciplina.Eugenio dice che il dolore può essere controllato, che la testa è uno strumento potentissimo e che usandola bene puoi cambiarti anche il destino, se ci credi davvero.Io mi addomestico alla speranza allora e stringo più forte la mano su questo cuore che batte lento, ma che non si arrende. E allora, se non lo fa lui, perché dovrei farlo io? Sono qui con le dita rattrappite dalle emozioni e l’anima in subbuglio e le guance bagnate e, davvero, quello di cui ho bisogno è che qualcuno mi sollevi. E non è una cosa tanto per. Non è figurativo.Ho bisogno di avere una certezza, un’opportunità, la tranquillità di poter chiamare la persona che amo e dire “ho bisogno di te” e vederlo entrare da quella maledetta porta. Prendermi in braccio.Solo lui che mi prenda in braccio. Che mi sollevi da tutto, da questa sedia e da questa angoscia, dalla paura, dalla gravità, dal mondo.Ci vorrebbe anche il coraggio di partire e di non guardare più indietro.Ma non è semplice da spiegare. Così rimango... e aspetto.