GIORNI STRANI

Madre Adelina Oderisi D'Arnia - parte 2


  >>>> Chi si sentisse colpito nella propria sensibilità, è pregato di non continuare a leggere. Con licenza.---------------------------------------------------------------------------------------------------------          Adesso eravamo in una scarna stanza da letto, un armadio a tre ante e un letto di ferro battuto, adornata solo da un crocifisso, alcune pergamene, una bambola in biscuit e un paio di candelabri. Ero stordito, privo del minimo senso di orientamento, e pensavo di essere in un film del grottesco, e che prima o poi mi sarei svegliato di soprassalto, trovandomi sudato nel letto.         Non poteva, una natura così austera, devota e impenetrabile nonché orgogliosa e sull’orlo dell’astio verso il genere maschile, essere risucchiata nel vortice della carne; perlomeno sarebbe stato più comprensibile in un’età acerba.      Forse mi ero sbagliato, e cercai un appiglio, convincendomi che da un momento all’altro avrebbe tirato fuori qualcosa dallo scrigno dei ricordi, o magari mi avrebbe chiesto un aiuto di qualsiasi natura per il Convento.     Una colonna ordinata di nanetti impazienti e laboriosi e ipertecnologici facevano su è giù per i piani della mente e mi irridevano. Mi ero rivolto verso la porta per uscire, quand’ecco la sua voce rassicurante, acuta, ora insolitamente alterata per emettere un comando: <<Spegni la luce>>.      Così feci. Provai un piacevole senso di spossatezza frammisto a spaesamento. Mi conveniva giocarci come un bimbo capriccioso, attorno questo nodo improbabile?     <<Sopra di me.>> Non mi era concessa parola.     Adesso ero sopra di lei, nella posizione più classica. Le mie gambe erano sopra le sue, assai robuste e bitorzolute; l’attrito non faceva altro che aumentare la mia inadeguatezza.     Accennai un suono vocale, ma subito mi bacchettò: <<Shhh>>.      In men che non si dica, mi affacciai su quella maestosa intimità, rigogliosamente folta, canne di giunco, ispida e secca.      Contro ogni senso logico, lo strumento s’inorgoglì, e tentai di far leva sulle mie braccia per non farle del male.      Sulle prime, dovetti spingere con decisione, per vincere una resistenza scoraggiante, sinora a me sconosciuta. Come un beduino che attraversa il Sahara e viene ostacolato dai venti di sabbia.     Ecco finalmente l’affondo, un bruciore immenso, un profondo gemito di Ade. Aveva gli occhi chiusi, ma era tutta nervi tirati e ramificazioni di sangue denso. Talvolta ci toccavamo con sobrietà le labbra socchiuse che vibrava a guisa impercettibile come se recitasse un rosario.      Non mi era concessa parola.     Ora ne ero completamente all’interno. Non voleva che cambiassi posizione né osassi profanare le adagiate sfere marmoree. Gradiva i lenti affondi, cadenzati e prolungati, a cui reagiva con scosse e contrazioni ben governate dalle briglie: la sobrietà, seppure al servizio del piacere, doveva aver la meglio sull’abbandono scostumato…       Affondo e controreazione.      Affondo e controreazione.      Sarà stato per la conformazione a collo di bottiglia della tana, che aveva inghiottito  l’estremità e al contempo mi strozzava senza pietà sulla soglia di marmo bianco; sarà stato per quell’assieme emanante un acre odore di incenso e minestrone e limoni, e che mi aveva ospitato con la santità che si offre a un ramingo, nulla a che vedere con la casa di un’amante tutta massaggi e fitness; sarà stato perché era la roccaforte inespugnabile della Fede, tant’è che eravamo ormai in una discesa: una discesa a velocità folle, ci saremmo frantumati contro un muro o una parete qualunque…      La discesa in un canale, ove Lei, l’intransingente, era la mia imbarcazione, io e lei un tutt’uno, ci si può fare del male così.     Un grosso tonfo e toccammo l’auge per un tempo che si ostinò a perdurare chissà per quanto, da lassù qualcuno l’aveva dilatato. Una commistione di liquidi e pensieri e contropensieri, fors’anche sangue; il suo collo smisuratamente gonfiato.     Esausto ma in pace col mondo, mi sollevai dalla nave madre, dando un poco di sollievo alla schiena demolita. L’intransigente era immobile. E adesso, dopo averla amata, avevo la percezione che occupasse uno spazio molto più ampio.     Feci un lungo sospiro, riverente, che Lei parve gradire non poco.     <<Una cortesia.>> Una pausa interminabile, con Lei sempre immobile e supina; i tratti del volto più distesi. <<Non dovrai farne parola. Non me ne far pentire>>, mi sussurrò, stringendomi le mani fra le sue. Alfine aggiunse col fiatone: <<Fa' che la tua parola sia sempre creatrice.>>     <<Con permesso, Madre.>> Un inchino.     Era Madre Adelina Oderisi D’Arnia. L'aspra Carismatica.    Non sapevo di cosa si trattava; sapevo però che smaniavo dal rivederla quanto prima.  >>> Tratto dai Racconti dell’Improbabile