Per aspera ad astra

L'anfiteatro più bello delle "Giulie"


L’anfiteatro più bello delle “giulie”. Negli anni ’30 del mitico ‘900, fu deciso di abbattere il rione “Rena” (= arena) a Trieste: un labirinto di case e palazzotti  grinzosi e rovinati, costruiti, uno sull’altro nei secoli,  sulle mura e sfruttando  il tracciato dell’antico teatro romano,  edificato ai tempi dell’imperatore Traiano, che così ritornò di nuovo alla luce del sole .  Ho la sensazione di essere un po’ fuori dal tempo quando cammino in silenzio tra le rovine del passato e, i gatti, che scivolano via,  come fantasmi enigmatici custodi del passato. Il traffico sembra lontano e ronza più in basso come uno stormo di api.   Mi muovo con voluta lentezza vicino al ciglio del muro di sostegno dell’antica arena e socchiudo mentalmente la porta del tempo ( non lo si può fare in fretta ). Mi calo così,  piano piano, in anni ormai incommensurabilmente lontani tra il luccicchio dei marmi  e lo splendore di colonne ed arazzi in un teatro che offriva ai “tergestini” momenti di svago, impreziosito dalla  stupenda cornice naturale dei calcari bianchi del Carso che si immergevano nel blu dell’Adriatico. Se tutti i triestini conoscono questo monumento, non tutti i fan della montagna sanno dell’esistenza di un’altra  “opera” eccezionale: l’Amfiteater che si alza nelle Alpi Giulie Slovene non lontano da Tarvisio. Io l’ho scoperto leggendo la guida “Escursionismo in Slovenia “ di Tine Mihelic, dove a metà libro c’è una  foto eccezionale che riesce a catturare la sua selvaggia bellezza  con un’immagine su  due pagine: “è stato amore a prima vista”. Parcheggio l’auto in una Val Vrata ancora sonnacchiosa nella penombra di un  mattino dei primi di settembre, proprio allo sbocco dell’impervio  canalone franoso chiamato Crlovec. Vago un  po’ a vuoto, scrutando le differenti tracce tra massi di pietra e arbusti, prima di individuare il sentiero che, dopo aver risalito per un breve tratto il ghiaione, rimonta alla  destra nella fitta boscaglia. Non ci sono bolli né segni particolari ( e non pensate di trovarli lungo tutto il percorso ) ma, dopo l’inizio, non ce n’è praticamente bisogno: una lunga traccia taglia con decisi zig zag le pendenze sempre più accentuate del monte all’ombra della foresta silenziosa. La ripida salita nel bosco termina all’incrocio con un lungo  sentiero trasversale detto  “dei cacciatori” che corre nascosto in quella parte della valle e che imbocco all’altezza di un albero su cui è incisa una freccia sulla corteccia. Ci metto poco poi, per uscire dalla confortevole semioscurità della fitta vegetazione. Mi ritrovo improvvisamente in piena luce. Resto accecato, per un istante,  dai violenti riflessi del sole che si specchiano nel caotico letto, bianco di massi e ghiaie, del Crlovec alto: pare un’impressionante ferita aperta che si dischiude nel fianco della montagna quasi per riversare il suo umore pietrificato giù nella valle. Ora lo sguardo spazia sul verde smeraldo delle foreste che ricoprono la Val Vrata e sulle ultime sentinelle delle “Giulie”: muri di roccia imponenti e massicci, custodi del nostro mondo verticale dal caos e dal rumore delle pianure che si distendono sconfinate verso est. Proseguo in orizzontale e recupero un po’ il fiato, anche se  non per molto. Dopo un po’ un altro ghiaione sale sulla destra in mezzo alle gigantesche sagome della Ticarica e della Kukova Spica. Porca miseria, come è faticoso inerpicarsi su quei scivoli di pietrisco a tratti duri e scivolosi , ma comunque sempre instabili e ripidi, dove i passi sono corti e difficoltosi come sui pendii di neve! Mi sento rosso in viso come il classico peperone, ho la bocca impastata di grumi di saliva, gocce di sudore scivolano dalla fronte e mi fanno bruciare gli occhi,  e sbuffo come una di quelle vecchie vaporiere che si vedono nei film, ma  guadagno costantemente quota. Soffro ancora in silenzio ( … anche per il fiatone ) quando, individuo, aggancio e supero degli sloveni, macchie colorate che procedono lentamente in quel grande catino bianco. Poi ecco finalmente i contorni arrotondati della sella Gulce stampati contro l’azzurro del cielo.  Alla mia sinistra si alza la struttura goffa e pesante della Skrnatarica e la stretta gola nera che la divide dalla Ticarica, a cui portano delle tracce - come delle delle ditate lasciate sui castelli di sabbia dai bambini - su un altro lungo e ripido ghiaione: ultimo sforzo prima dell’inizio della mia avventura.  La penombra delle pareti distanti pochi metri offre finalmente  sollievo all’arsura dell’estate. Sono forse entrato in una grande  “zona frutta” da frigo?  Sensazioni e fantasie… Dopo aver superato con semplice arrampicata un modesto scivolo di pietra lisciata da acqua e neve,  scopro – accidenti – che bisogna andare avanti a “quattro zampe” tra massi, ghiaia e terra su un fondo ripido e franoso. In certi momenti mi sento molto “gatto Silvestro” mentre muovo braccia e gambe freneticamente  solo per restare in equilibrio, facendo cadere inevitabilmente sassi di varie dimensioni che rimbalzano scatenando cupi rimobombi  come un temporale in avvicinamento!  Finalmente sono a tu per tu con il cielo. Alla mia destra si prospetta una grossa testa di animale calcificato: è la cima della Skrnatarica, raggiungibile in 5 metri di arrampicata.  Lo spettacolo, però, è un altro: sono finalmente sul bordo dell’ Anfiteatro. Il panorama è semplicemente grandioso: con lo sfondo della catena delle Caravanche, che sorveglia distante la tranquilla valle della Sava, si alza a ferro di cavallo un muraglione di pietra alto fino a mille metri che, con  centinaia di torri e pinnacoli. Potrebbe essere un castello incantato di in un film sui romanzi di Tolkin. Il silenzio è assoluto. Davanti a me ci sono il blu del cielo e il grigio- sabbia della gigantesca arena. Di spalle ,sull’altro versante , vigila maestoso  il “padrone di casa”, il Tricorno, mentre sotto scendono i prati ripidi della Ticarica, quasi appoggiati a foderare di verde i suoi gradoni fino a perdersi nel bosco che s’interrompe lontano, 1600 metri giù, nel nastro bianco della strada in fondovalle. L’itinerario è adesso tutto da inventare. Ci sono due possibilità. La più alpinistica ti fa cavalcare il filo di cresta per circa un chilometro, quella “turistica” segue una traccia di sentiero che disegna, anche in modo un po’ confuso, un percorso sul lato orientale del versante sulla Val Vrata. L’una e l’altra ti portano al capolinea previsto: il  Dovski Kriz. Opto per la soluzione più “divertente”. Incomincio ad arrampicare  su e giù per i denti di roccia, a volte in totale esposizione verso Nord. Una brezza fredda e tagliente che sale dall’anfiteatro si fa sentire nel momento in cui ti sposti  in bilico ( o… a cavalcioni) sull’orlo di quel davanzale di mille metri. Specialmente in momenti come questo, in cui “tocchi con mano” il contrasto delle proporzioni, ti rendi conto di essere piccolo piccolo. Confesso che mi “viene spontaneo” superare la soglia dell’immaginazione, anche solo per un istante. Succede così che il mio sguardo concentrato e un po’ teso si apra ad un sorriso quando inconsciamente mi domando:” Ehi  e se il drago si risveglia e scuote un po’ questa lunga cresta pietrificata ? “ Vado avanti aggrappandomi agli incavi della roccia di una fila senza fine di piccole torri, con  di sotto il color sabbia dei ghiaioni dell’enorme bacino, interrotto dal bianco di chiazze di neve:  ranuncoli dei ghiacci che fioriscono qua e la. La roccia, è quella delle “Giulie”: … inaffidabile:  si alternano tratti dove gli appigli si muovono come denti da latte  ad altri, più rari,  dove invece il calcare è così compatto da non far entrare un chiodo . Se la qualità della roccia è mediamente mediocre, anche le difficoltà non sono sempre costanti. La maggior parte del percorso, se proprio si vuole stare ostinatamente sul filo di cresta, è di 2^, con qualche tratto di 3^ e di 4^ . Dopo un po’ mi rendo conto che quel modo di andare avanti è troppo lento  e quindi mi sposto più in basso sulla via “turistica”. Il sentiero non è, però,  da snobbare perché viaggia su pietrisco e sassi instabili e si snoda su un percorso spesso a precipizio sulla valle. Una scossa gelida mi attraversa la schiena  quando  distratto dall’ambiente scivolo con un piede fino a sfiorare il bordo  di un impressionante salto di roccia che si perde  giù nei ghiaioni duecento metri sotto. Il sole aveva incominciato la sua parabola discendente già da un po’, nell’attimo in cui entro  nel cono d’ombra che si allunga dalla cima e mi inerpico su verso la cima massiccia e sassosa del Dovski Kriz ( m 2542 ). Da lì  lo sguardo spazia a 360^ e si confonde, sempre stupito e affascinato, tra le diverse tonalità della luce del tramonto che avvolgono le “Giulie”  e questa silenziosa e imponente meraviglia della natura. Le altre volte che ero salito qui, poi, al ritorno correvo giù a perdifiato, divertendomi come un bambino lontano dalla vista dei genitori, tra ruzzoloni con il fondoschiena e attimi di sosta per recuperare il fiato e l’incendio sui muscoli delle gambe,  per i circa  500 metri di dislivello su quello che è considerato il ghiaione più lungo delle “Giulie”. Ora, per cambiare, decido di scendere alla sinistra dello  spartiacque, la tozza Spletva,  lungo i ghiaioni più brevi della val Brinje, che di solito , invece, risalgo all’andata. Mi lancio giù velocemente per sentierini di pietrisco, finchè in una confusione di tracce, sbaglio via.  Continuo lo stesso perché finisco  sopra ad un boschetto di mughi che crescono fitti fitti. Vado avanti molleggiando sulle cime degli alberi che però si vendicano diventando sempre più alti e meno compatti fino ad aprirsi, facendomi sprofondare ululando nella trappola del sottobosco. Proseguo con difficoltà richiuso e maltrattato da un groviglio di rami, schegge di legno e resina, che mi  frustano, graffiano e stropicciano quanto basta … ne esco come dopo una lotta con il gatto. In breve però, ritrovo il sentiero tra gli abeti e poi ancora giù di corsa fino ad incontrare , ormai nella penombra della prima sera, dopo undici ore di galoppata solitaria, il rassicurante e – devo dire - desiderato, nastro stradale della Val Vrata che seguo in dolce discesa per un chilometro fino al parcheggio del Crlovec. Da lì un ultimo sguardo a quelle montagne che adesso sembrano lontane, come le emozioni intense provate oggi , ormai entrate nel grande magazzino della memoria.