Per aspera ad astra

Impressioni di Val Rosandra


La Val Rosandra è stata amata come lo è, tuttora, da molti. C’è chi l’ha “cantata” in modo appassionato, chi l’ha frequentata in modo silenzioso, chi vi è stato portato da neonato – quasi per consacrare di generazione in generazione un rapporto di amore -, chi, poi, ha voluto chiudere tragicamente la propria esistenza nel freddo abbraccio delle sue rocce.Anch’io ho un rapporto “intenso” con la Valle.L’ho conosciuta da bambino, da boy scout a metà anni sessanta, sotto il peso dello zaino verde stinto ex militare, mentre arrancavo su per il monte Carso, o zampettavo come un lupacchiotto da una parte all’altra del torrente.Poi, la mia prima passione, la speleologia. Con gli amici bardati con caschetti da cantiere edile, stivali e lampadine elettriche – Piero aveva addirittura un elmetto cimelio della “Grande Guerra”, con un portacandela saldato, ereditato dal padre – ci siamo addentrati in molte delle sue cavità   spulciate dal “2000 Grotte” o individuate in pomeriggi spesi al Catasto dell’Alpina : da quella dalle “Gallerie” alla “Grotta degli altari”... Poi la domenica, spinti da un entusiasmo e una passione per l’avventura incontenibili, ci dedicavamo alla loro caccia, utilizzando, per “l’esplorazione” tutto quello che le nostre modeste finanze potevano permetterci, e  anche di più : corde lunghe alla bisogna, grazie alla giunzione di più cordini , materiale imprestato e raccogliticcio costituivano il nostro “parco attrezzi”.Così, con Guido, in una giornata ormai “non più in memoria” d’inverno degli anni 70, parcheggiata la “Primavera” vicino al casello, siamo entrati nella bellissima “Fessura del Vento” con l’ambizione di “esplorare” il “ramo dei laghi”. Calati giù per lo stretto cunicolo, oltre al solito materiale, ci trascinavamo un grosso pacco: il canottino “Explorer”(che Piero utilizzava per giochi acquatici nelle crociere in Dalmazia con i genitori ). Gli angusti ambienti coperti ovunque da uno strato di fanghiglia e l’alta umidità ci erano già  familiari perché nel tempo avevamo  visitato altri rami. Con sicurezza, quindi, avanzavamo nella direzione voluta nel dedalo di gallerie.Fatto il “passaggio a pressione”, superato il pozzo “elicoidale”, con gioia siamo arrivati sulla sponda del primo laghetto e in breve, sotto gli energici colpi di “gonfietto”, il mezzo nautico ha preso forma.  Poi, non senza emozione, ci siamo “imbarcati”. Scivolare nella scura liquidità, nel silenzio più assoluto, rotto solo dallo sciacquio, provocato dal lento avanzare dell’”Explorer”, che rimbombava nelle strette caverne, manteneva alta la sensazioni di avventura mista  a timore, ma… c’era, infatti, un grosso “ma”. Il canotto era per un solo passeggero, e, pertanto, il tragitto massimo poteva essere lungo solo quanto l’estensione delle corde che avevamo attaccato alle estremità per il suo recupero. Inoltre, i tratti da percorrere erano tortuosi e causavano frequenti incastri del “natante” specialmente quando a turno lo tiravamo a noi. Ad un certo punto, così, accadde quello che non avevamo assolutamente previsto: l’ “Explorer”, imprigionato tra le concrezioni affioranti decise di non muoversi più , a dispetto di ogni robusto e…disperato tentativo. Eravamo bloccati! Avendo percorso già un tratto allagato, ci trovavamo separati non solo dall’acqua ma anche da un angolo secco della parete che non consentiva né di vederci né di individuare la “maledetta barca”.Che fare? Dopo esserci urlati a distanza idee ed imprecazioni che riecheggiavano nell’oscurità, abbiamo deciso di tentare  l’impossibile: arrampicare  in traversata sopra i laghetti! Mi sentivo tanto Gatto Silvestro, quando ho piantato, con scarsissima convinzione, le unghie e le punte degli stivali sulle micro protuberanze di quelle super lisce e viscidissime pareti sotterranee. E, infatti, in un batter d’occhio, proprio come nel cartone animato, due sordi tonfi in rapida successione, hanno salutato letteralmente il “naufragio” sul nascere dell’impresa: in un istante ci siamo trovati entrambi prima sott’acqua e poi a nuotare! Ripensando a quei momenti, sarebbe stato atto di dovuta riconoscenza, poi, far immortalare la scena in un quadretto naif, da aggiungere come offerta ai tanti ex voto di un qualche santuario perchè nessuna delle due torce elettriche, sistemate “artigianalmente”con una striscia elastica sul casco, si spense né in quel momento né poi! Così guadagnata “la riva” ci siamo spogliati, e ,dopo aver strizzato alla bell’e meglio maglioni e calzettoni di lana, una volta rivestiti, totalmente coperti dentro e fuori di quello strato di limo appiccicoso ben noto agli speleologi , abbiamo incominciato la risalita. Come se non bastasse, la tragicomicità della scena aveva raggiunto il suo apice: nella semi oscurità si vedeva l’ombra di Guido proiettata e ingigantita sulle pareti delle caverne, che avanzava lentamente …zoppicando su di un calzettone !Il mio amico, infatti, aveva perso uno stivale nuotando, preso dalla foga di raggiungere rapidamente la sponda. E’facile immaginare quanto sofferta sia stata la via del ritorno, illuminata ormai solo dagli incerti riverberi diffusi alle sempre più agonizzanti lampade “wonder” e dalla determinazione di essere fuori il prima possibile.Ad un tratto, però, infilati uno dietro l’altro nel faticoso cunicolo d’uscita, siamo stati colpiti in viso dal soffio gelido dell’inverno, e istintivamente abbiamo alzato la testa, e con profondo sollievo ci si è stagliato nel buio della notte il tremulo luccichio delle stelle che brillavano lontane .Dalle “stalle”, per così dire, alle “stelle”. Successivamente sono passato a dedicarmi all’arrampicata, e, frequentato nel ‘77  il corso “dell’Apina”, ho incominciato ad impegnarmi in modo sistematico su vie di crescente difficoltà, prima, in “Valle” poi sulle Dolomiti. Confesso che ho provato e provo tuttora una certa emozione nell’affrontare gli itinerari belli e, non trascurabili, dei nostri rocciatori classici: Comici, Cozzolino, Pacifico, Spiro …, e, poi, una volta “in cima”, spaziare con lo sguardo sulla città e sul suo mare.Mare e montagna… rocce ed acqua, binomio vivo nello spirito di Trieste e nel “DNA” della sua gente. E così anche la rocciosa Valle, scavata dal Rosandra, che, dopo un breve percorso si congiunge al mare, ti dona un qualcosa di più, di diverso, di speciale.In un pomeriggio degli anni ‘80, dopo delle piogge insistenti, tali da portare il torrente ad un livello di” piena “, dei possibili escursionisti avrebbero assistito ad uno spettacolo assolutamente insolito: alcuni individui vestiti con mute e caschi variopinti stavano procedendo lentamente giù per il sentiero inciso nel  ghiaione che porta al bacino della cascata. La discesa, sdrucciolevole di per sé, era complicata dal fatto che, con una mano trattenevano per la maniglia una canoa, tanto sgargiante e bella quanto – in quei momenti – pesante e d’intralcio, mentre con l’altra impugnavano la pagaia.Percorrere in kajak il Rosandra era un evento straordinario e con Stefano. Ermanno, Franco e “los Gordos” (i migliori canoisti del mitico “Gruppo Kayak xxx Ottobre), eravamo tra i primi a farlo. Eccezionale non per le difficoltà in assoluto, ma, soprattutto, per l’ambiente e la rara opportunità di aver trovato il livello di percorribilità “giusto”.L’acqua era del tipico color cioccolata, proprio delle piene.Imbarcati sotto la cascata, uno alla volta, siamo entrati nel “gioco”. Molti ricordano i massicci e rumorosi flipper (ora “pensionati” per i più moderni videogiochi) che attiravano nei bar molti ragazzi, impegnati tra scossoni, trilli e imprecazioni, a far rimbalzare, tenendo in campo il più possibile, una guizzante sfera metallica, prima che cadesse inesorabilmente in uno spazio tra due porte. Tutt’uno con le nostre canoe, compressi nello scafo, concentrati sul percorso ed emozionati, abbiamo così provato la sensazione che fosse scattata la molla di un gigantesco flipper, dove noi eravamo le palline  sparate in una velocissima discesa.La corrente che spingeva senza tregua ci faceva sbattere e rimbalzare, saltare, sprofondare ed emergere dalla schiuma, continuamente, di pozza in pozza. L’avventura non era particolarmente pericolosa perché la forza dell’acqua andava commisurata alle (modeste) dimensioni del torrente. Inutile ricordare, però, che il divertimento poteva essere apprezzato dai soli esperti: oltretutto era indispensabile sapersi fermare per tempo prima delle strozzature impraticabili, dove l’incastrarsi in quelle condizioni ti avrebbe fatto sembrare un putto sprizzante acqua in una scrosciante fontana di roccia…Purtroppo, però, il rodeo non è durato molto ed in breve  ci siamo trovati allo sbarco, poco prima dell’inizio del sentiero all’altezza dello sbarramento di cemento  vicino al “Premuda”.Bello è anche il giro ad anello della Valle in mountain bike che offre un’interessante alternativa alle solite passeggiate. Partendo dalla Ferrovia e proseguendo in Slovenia per Occisla, il tratto del “Sentiero dell’amicizia” vero e proprio è molto sconnesso e in certi tratti veramente ripido. La zona è decisamente più selvaggia rispetto a quella italiana. Particolare è il tratto delle rovine dei mulini prima di giungere alla ex garitta dei graniciari. Da Botazzo, per riguadagnare il percorso della strada ferrata, ci vogliono gambe e polmoni e, probabilmente gli escursionisti che vedono i ciclisti arrancare faticosamente su quei brevi ma impegnativi tornanti penseranno che i modi per cercare la sofferenza sono infiniti…Oscar Wilde diceva che “ la felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha”.Come non riferirlo alla nostra Valle?Sotto- nelle sue grotte-, sopra - sui suoi magnifici roccioni bianchi -, dentro- il suo torrente che l’ha creata- o intorno -con la bici o a piedi- ti offre delle sensazioni e ti regala delle immagini che generano emozioni e passioni intense. Come si può definire una relazione del genere ? A ognuno la propria risposta.