Per aspera ad astra

Durance Durance ( appunti di una vacanza transalpina)


 Premessa. Tempo fa ho ritrovato questi fogli di appunti (…sì sempre nel famoso comodino…) che avevo buttato giù, posso ipotizzare, nel 1986, periodo in cui ero contagiato da una passione sfrenata per le “acque selvagge” che scorrono furiose nelle gole dei monti. “Acqua selvaggia” è il termine tecnico, tradotto dall’inglese “wild water”, con cui si definiscono sia le rapide dei torrenti, sia la misura di difficoltà con cui si valutano (dal I al VI grado). Era il periodo in cui alla TV c’era la trasmissione “Johnatan”, programma di avventura e di avventure intorno al mondo, condotto da Ambrogio Fogar. La sigla musicale (che mi ero fatto registrare dalla mia amica Laura, su di una cassetta - immediatamente diventata il tormentone per tutti quelli che si azzardavano a chiedermi un passaggio in macchina -) veniva accompagnata da immagini di persone  in situazioni “estreme”, tra le quali scorreva anche qualche fotogramma di uno in kayak che si lanciava da un roccione nel torrente sottostante… Insomma ero così “contagiato” da non perdermi un inizio trasmissione…Una fase della mia vita, quindi, piena di emozioni forti e di spensieratezza, da cane randagio, tutta tesa a bere “della sete di avventura”, della gioia profonda della scoperta di nuove sfide e di un mondo naturale grandioso e selvaggio… e le emozioni e l’avventura erano il torrente, le sue rapide, il superare difficoltà sempre più alte.Erano anche gli anni in cui imperversava la musica del gruppo pop rock britannico dei Duran Duran - da cui il titolo di queste pagine - ma soprattutto era il momento “epico” del Gruppo Kayak xxx ottobre. Il “Gruppo” non aveva quasi nulla di formale, o di “standardizzato” era, in realtà un insieme di”umanità varia”, che si incontrava il giovedì sera presso la “xxx”, per realizzare sogni o semplici escursioni, tutti però rigorosamente in “acqua selvaggia”. E le avventure, sempre a lieto fine, sono state tante, tantissime… di tutti i tipi…  Testo. “La cinghia del casco è ben stretta sotto il mento, il paraspruzzi è teso e ben aderente ai bordi del pozzetto, faccio leva con la pagaia e mi spingo in acqua. La tensione è alta. Assesto in veloce sequenza pochi colpi di pagaia contro la corrente. La prua del kayak viene immediatamente catturata dal filone principale , mentre la “barca” si inclina, ruota di 180 gradi, e,  con l’appoggio della faccia della pagaia, si inserisce nel centro del fiume. Le onde mi accolgono con abbondanti spruzzi mentre la canoa inizia a beccheggiare vistosamente, sprofondando, per riaffiorare subito, dopo dall’acqua. Ora sono solo, la riva sembra lontana, so che tutto dipenderà dalle mie capacità. Guardo in avanti, il più lontano possibile, per mettermi nella direzione giusta evitando le pietre e tronchi affioranti. Ma non è facile. Sembra un mare in tempesta: il rumore della rapida è assordante. Di fronte a me solo il bianco della schiuma. Urto con violenza contro un masso radente, non visto. La barca rimbalza e in un attimo mi scaraventa in giù.  Per un istante lo scafo si inclina di 90-100 gradi. Scatto. Di riflesso mi allungo buttando il busto sulla pagaia, sulla superficie dell’acqua a tentare un appoggio estremo per evitare il completo ribaltamento. L’adrenalina è al massimo. Ce la faccio. Come una molla mi ritiro su. L’acqua mi è entrata nel naso e…nella giacca della muta, ma vado avanti, soddisfatto di non esser finito a”bagno”… “. Sensazioni forti, dal gusto “selvaggio”, sono la quotidianità alla Scuola Canoa della Val Sesia, frequentata per sviluppare la tecnica e fare un’esperienza “qualificata”da noi, i “meio” del Gruppo Kayak xxx Ottobre di Trieste (Stefano, Caio, Erik e il sottoscritto). Così, poi, “inevitabilmente”, non abbiamo potuto che metterci alla prova e verificare i progressi fatti, trasferendoci oltre il confine transalpino, a Briancon, zona particolarmente interessante per gli appassionati di questo sport.Durante il viaggio in macchina, sepolto in una montagna di pacchi, attrezzature da campeggio e da kayak, mezzo appisolato, con il sottofondo di “America” e altre cassette di Simon e Garfunkel, mi scorrono nella memoria le immagini di un’ avventura fresca fresca, che per poco, non aveva compromesso la mia partecipazione a questo viaggio.“Il fiume spinge violentemente giù per dei gradini di roccia, in una rapida lunga, continua e stretta. Con le gambe incastrate spasmodicamente nello scafo, tento di mantenere la direzione, mentre vado a zig zag velocemente tra i massi, in uno slalom ai limiti delle mie possibilità. O, meglio, oltre.Ho, per dirla tutta, paura di fermarmi, perché temo di non riuscire a tenere, poi, più la canoa, venendo così, risucchiato dalla forza dell’acqua  per la coda del kayak, con il rischio “thriller” di fare la rapida di schiena, e di sperimentare un “bagno” micidiale. Ma sono stanco e provato.Col senno di poi, probabilmente, non posso fare uno sbaglio più grosso… Errori di inesperienza. Affronto, così, la parte più difficile della rapida con il fiato corto e senza gestire la forza della corrente, ma, al contrario, subendola. Ricordo bene che agli inizi mi era stato detto: “andare in kayak è come sciare. Non ti puoi dire un buon sciatore fino a quando sono gli sci a portarti”.Ed ora eccomi, a fare i conti con “i muscoli”del fiume. Sbatacchiato tra grossi sassi, bagnato da onde e schizzi, mi  ritrovo in una pozza di pochi metri prima che il torrente si restringa ancora. L’acqua imprigionata dalle sponde scatena tutta la propria violenza contro una roccia, sulla quale forma un gigantesco fungo bianco, per poi precipitare ringhiando in un imbuto ribollente di schiuma. Che visione orrenda! Gli occhi cercano disperatamente una via d’uscita. Nulla. Tento, allora, il tutto per tutto, affrontando il salto. Affondo con la forza della disperazione la pagaia nell’acqua. La corrente, però, mi afferra e butta contro il fungo mettendo di traverso la canoa. Sbilanciato, finisco sott’acqua in un attimo, per sgusciare immediatamente fuori dal kayak. Con sgomento percepisco di essere sul punto di venire inghiottito dal “mostro”, vivendo degli angosciosi fotogrammi di vita al rallentatore, mentre sparisco nella colonna d’acqua e, subito dopo,  nella schiuma di fondo della breve cascata. Fortunosamente riemergo più avanti, dopo aver viaggiato per un po’ su e giù come una bottiglia vuota nella corrente. Trovo il mio amato “Taifun”dopo qualche centinaio di metri, tratto a riva da qualche mano pietosa. Sembra un insolito animale marino spiaggiato e inerte. La violenta esperienza lo ha segnato: la plastica è vistosamente incisa e piegata sul lato sinistro del pozzetto, non c’è più il sacco da lancio e l’assetto è sconquassato... Da parte mia, non berrò  più acqua per alcuni giorni… non solo di fiume…” Giungiamo a destinazione in un’ampia e soleggiata vallata: l’ottimismo e l’entusiasmo sono alle stelle! Nei giorni successivi, ci tuffiamo, così, felici nelle acque selvagge della Onde, Gyronde, Guisane, e Durance. Proprio quest’ultimo fiume ci piace di più, tant’è che ne percorriamo tre tratti diversi, da sopra Briancon ad Embrun. Per evitare brutte sorprese, Caio ed Erik, si offrono di esplorare a piedi, palmo a palmo gli otto chilometri di gole tra Prelles e Argentiere. La loro “gita” si rivela molto utile: individuano, infatti, un “trappolone impraticabile”, che, per essere evitato, costringe ad un micidiale trasbordo lungo una traccia di sentiero che taglia per più di 500 metri un franosissimo ghiaione. E l’indomani, puntualmente, ci troviamo tutti e quattro lì (i “Durance – Durance – così ormai ci siamo soprannominati ), in fila indiana, con 4 metri di canoa e i suoi buoni 20 chili in spalla, rossi in viso e sbuffanti per lo sforzo, come vecchie vaporiere,  intenti a procedere lentamente, tra maledizioni e imprecazioni, con un equilibrio precario  per i cedimenti del terreno e i ciottoli che si staccano e finiscono giù, nel rombo del fiume che  precipita di sotto.La discesa è coinvolgente. La cornice naturale, maestosa, tra torri di roccia e anse strette, illumina un quadro suggestivo dove l’acqua scorre veloce in rapide divertenti . Le pareti del canon si alzano, a tratti, così verticali da perdersi nel cielo azzurro zaffiro, mentre il torrente, a volte in penombra, spinge deciso in tortuosi labirinti di massi.Le difficoltà, sono comunque accessibili alle nostre capacità.Poi, fatta una brusca curva, dove la gola si stringe quasi in una morsa, e il sole sparisce oscurato da un ponte (che purtroppo si rivela essere un orrendo e gigantesco condotto), il fiume si distende , addolcendosi in una vallata sempre più ampia. Ciò, ci fa intuire che siamo ormai alla fine: un chilometro dopo, infatti, alla confluenza con la Gyronde, spunta la sagoma amica della Simca “Horizon” di Caio. E’la fine della nostra ennesima avventura, ma siamo già pronti per una successiva.L’alpinista friulano Giusto Gervasutti diceva :”osa, osa sempre e sarai simile ad un dio”. Noi l’abbiamo fatto, con gioia.