Per aspera ad astra

Monte Porezen: Prova di sforzo


Monte Porezen – Prova “di sforzo” Antefatto. 24 Marzo 1945. Trentotto giorni alla fine della guerra. Cima del monte Porezen. E’ sera. Vapori acri e densi gravano, pesanti, mentre l’aria è satura dell’odore pungente rilasciato dalle esplosioni. Sul ripido pendio erboso ancora coperto da un leggero strato di neve, si distinguono le fortificazioni italiane, costruite nel progetto del Vallo Alpino del Littorio. Si tratta di una casermetta e qualche bunker. Intorno tante ombre indistinte. Sono i corpi di un centinaio di partigiani. Giacciono irrigiditi nelle posizioni crudeli della morte violenta. Alcuni sono ammassati l’uno sopra l’altro.Hanno combattuto, poi si sono arresi. Le Waffen SS non hanno fatto prigionieri. Se ne sono andate, poi, con i loro feriti . Ora dopo tanto fragore, urla e crepitio di mitraglie, c’è il silenzio. L’esercito tedesco si sta ritirando ovunque. Nell’attuale Slovenia i partigiani titini del IX Corpus hanno da tempo intensificato la propria attività di guerriglia, con attentati, sabotaggi, agguati…Vi sono uccisioni continue e rappresaglie altrettanto cruente. Il valore della vita è nullo. Si viene ammazzati anche per un vago sospetto. Inquadrate nelle truppe del Terzo Reich, e in particolare nelle Waffen SS, combattono una moltitudine di uomini di etnie diverse: ungheresi, russi, ucraini, italiani, spagnoli, sloveni, croati… chi per ideale, chi per paura, chi per opportunismo… come da sempre, il tutto si mescola nel gran calderone della vita, delle scelte, del destino.Simile ad un toro alla fine della corrida, solo, al centro dell’arena, accecato dal sangue che gli gronda sulla fronte fino ad oscurargli la vista, e stordito dal dolore delle banderillas conficcate “ad arte” dai picadores nei fianchi, il soldato in divisa germanica è rabbioso, angosciato, ma, comunque, ancora combattivo.Ha, inoltre, un motivo, psicologicamente molto forte per lottare: vuole ritornare a casa, vivo, entro i confini del Reich. Ma, per poterlo fare, le strade, le direttive principali devono essere libere.Le zone ad oriente del corso dell’alto  Isonzo, prima che questo sbocchi nella piana di Gorizia, sono una roccaforte partigiana “naturale” perché coperte da fittissime foreste su un terreno frastagliato e accidentato interrotto da valli scoscese . Nonostante ciò, in quel triste mese di Marzo 1945, il Comando Tedesco lancia le operazioni “Fine Inverno” e “ Risveglio di Primavera” in due aree contigue, con lo scopo di “mettere in sicurezza” le adiacenti vie nord orientali. I combattimenti sono durissimi. Sotto una pressione imprevista, il IX Corpus dell’Esercito di Liberazione Yugoslavo si ritira in modo scomposto, suddividendosi in piccoli gruppi.Un centinaio di partigiani in fuga decide, allora, di rintanarsi sul monte Porezen …Agli uccisi, i vincitori della guerra, innalzano un monumento a forma di stele a due passi dalla vetta. Ogni anno, alla data di ricorrenza, un corteo sale al monte per ricordare il triste fatto e commemorare i caduti. Descrizione. Novaki mi accoglie intorno alle 9.30. Il paesetto è aggrappato al fianco meridionale del Crni Vrh. Non è stato facilissimo arrivarci. Prima di Crkno non c’erano indicazioni e, in precedenza, la strada da Adiussina in avanti è stata un unico, quasi ininterrotto slalom di curve e tornanti. Con andatura “allegra” ho impiegato quasi due ore da Trieste.Parcheggio in un tratto di strada striminzito, all’altezza del tetto della chiesa, costruita su un pastino più in basso.Mentre sollevo la mia “Rocky Mountain”dal portabici arriva, sudato, un biker sloveno. Scambiamo quattro chiacchere un po’in italiano, un po’ aiutati dai gesti. Mi chiede dove vado e, nel breve dialogo, racconta che dalla cima del monte, verso sera nelle giornate limpide, si vede il golfo di Trieste. La salita, però… e, verticalizza il braccio, “è così”… Ci salutiamo con simpatia.Non vedo indicazioni per il Porezen, ma al secondo tentativo, dopo essere piombato davanti a una signora nel proprio cortile di casa cinquanta metri sotto, ci azzecco.E’ il primo maggio, la temperatura sembra ideale: splende il sole, ma fa abbastanza fresco.La strada sale subito impegnativa sul versante meridionale e luminoso che chiude la conca di Crkno, puntellato da belle casette. La grip dell’asfalto aiuta a fare meno fatica, mentre la serpentina si allunga incidendo il fianco del bosco. Dopo circa tre chilometri, all’altezza di una curva dove la carreggiata s’impenna ulteriormente, inizia lo sterrato, bianco e polveroso. Il fondo è compatto e abbastanza regolare ed è in pieno sole. Superato uno strappo più duro, asfaltato di recente, raggiungo un ampio costone che fa da spartiacque. Ho percorso circa 6 km, e so che sono ad un terzo del mio itinerario. Il panorama, aereo, di ampio respiro, spazia sui rigogliosi versanti di Crkno e della val Baccia. Mi lascio alle spalle delle graziose casette che, come funghi, spuntano, raccolte, ai limiti di radure verde pallido.Un rustico cartello di legno lucido mostra la direzione del Porezen. Un’indicazione. Era ora ! fino a questo momento mi mancava quella presenza rassicurante. Il tempo sta cambiando: frotte di nubi si inseguono creando un gioco continuo di luce ed ombra. La strada svolta decisamente a sinistra e s’inerpica di nuovo, faticosa, in un fitto bosco. Vado avanti a lungo, così, tra gli abeti, avvolto dall’intimità della foresta, raggiungendo un’altra sella. Si alternano, ora, tratti di pendenza ripida ad altri più pianeggianti o in moderata discesa dove posso recuperare il fiato. Raggiungo, in salita, una terza sella, da cui lo sguardo corre sulle distese color smeraldo delle vallate a sud, mentre poi gli le ruote della mia “Rocky Mountain Element 70” incominciano a mordere l’argilla di un’ennesima rampa, veramente impegnativa. Curvo in avanti, spasmodicamente aggrappato ai “corni” del manubrio, innestato il rapporto più “corto”, spingo sui pedali, con fatica e tenacia, patendo per la mancanza di fiato. Il cuore rulla nel petto, come un tamburo che ritma il passo dell’attacco… Mi fermo un attimo per riposare e respirare con calma. S’insinua, perfida, nella mente l’idea di mollare, di scendere e spingere. Rispondo ruggendo un’ imprecazione ad alta voce e vado avanti con determinazione .Il fondo non molla la sua pendenza. Raggiungo, soffrendo - rosso e sbuffante come una vecchia vaporiera – la fine della salita, accolto da una folata di aria gelata. La vista, finora coperta da una lunga progressione di gradoni, si apre, e, finalmente, mi si spalanca davanti, grande, in tutta la sua dimensione possente, la piramide erbosa del Porezen. Proprio perché spoglio, spicca, nello sfondo grigio piombo del cielo, la sagoma nera e storta del monumento. Sembra un totem piegato dal tempo.Accidenti, la cima sembra ancora molto distante! Troppo. So bene che dalla base ci sono ancora 300 metri di dislivello da superare…Fisicamente sento che “ho già dato”. La salita mi ha bruciato le energie. Un vento freddo, inoltre, non promette nulla di buono.  Indosso la maglia di pile, anche così“surriscaldato”…Penso - per un istante - di tornare indietro, perché ora non solo mi attende il tratto più duro del percorso ma, visto il tempo, ho la possibilità di beccarmi un gelido acquazzone. Sul Paularo, anni fa, mi sono bagnato e ghiacciato fin nelle budella…Decido di rischiare… un’accidentata discesa fa perdere nuovamente dislivello. Arrivo all’ennesima spalla. L’indicazione traditrice “Rifugio Partigiano” ad un bivio , in prossimità di una casetta dai tetti spioventi, mi spinge a destra, verso il bosco, dove mi impesto su un sentiero impossibile. Ritorno sui miei passi e riguadagno quota. Nonostante gli integratori, sono ormai come una vecchia macchina “nel rosso della riserva”. Mi arrampico ancora . Vedo, così, ciò che ciclisticamente non avrei mai voluto vedere: la carraia si alza con una rampa “impossibile”.Mi arrendo. A malincuore scendo dalla bici e incomincio a spingere. Valuto, però, che è veramente bravo chi ce la fa a pedalare su un terreno sconnesso e così pendente!La strada ex militare disegna un nastro bianco che risalta nello sfondo ocra scuro del versante settentrionale del monte. Ora l’inclinazione diminuisce, anche se è difficile stare in sella a causa del fondo rovinato. Dopo un po’, però, riprendo a pedalare, grazie al vento freddo che ha un effetto benefico e tonificante su un “uomo del Nord” come me. Incontro una giovane famiglia. Sono in tre, fermi. La mamma affettuosamente sistema il cappuccio di un bel giaccone “tecnico”al suo bambino, che mi indica  offrendomi un luminoso sorriso. Il paesaggio è quasi invernale. Ad una curva un grosso banco di neve, mi costringe a scendere. Sono ormai vicinissimo al rifugio (una delle ex fortificazioni italiane), semi nascosto da un gigantesco cumulo di coltre bianca.Il freddo è sempre “intenso”. Lascio la bici e in pochi minuti raggiungo la vetta a 1630 metri. Sono le 13.30. Da lì lo sguardo corre libero nell’infinito, fino a confondersi con la cappa grigia del maltempo che si avvicina minaccioso. La stele, scura e spoglia, si alza, non distante da un bunker, proprio là sotto. Mi raccolgo in meditazione. Penso alla guerra: tanti sono morti, tutti erano convinti di essere nel giusto. Solo alcuni però sono ricordati. Il bene o il vero hanno un colore? Dico un “eterno riposo” per tutti.Poi giù a rifarmi milleduecento metri di dislivello.