Per aspera ad astra

alpinismo , mountain bike e avventura

Creato da fritzwitt il 09/04/2009

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L'anfiteatro più bello delle "Giulie"

Post n°19 pubblicato il 06 Ottobre 2016 da fritzwitt

L’anfiteatro più bello delle “giulie”.

Negli anni ’30 del mitico ‘900, fu deciso di abbattere il rione “Rena” (= arena) a Trieste: un labirinto di case e palazzotti  grinzosi e rovinati, costruiti, uno sull’altro nei secoli,  sulle mura e sfruttando  il tracciato dell’antico teatro romano,  edificato ai tempi dell’imperatore Traiano, che così ritornò di nuovo alla luce del sole .

 Ho la sensazione di essere un po’ fuori dal tempo quando cammino in silenzio tra le rovine del passato e, i gatti, che scivolano via,  come fantasmi enigmatici custodi del passato. Il traffico sembra lontano e ronza più in basso come uno stormo di api.

  Mi muovo con voluta lentezza vicino al ciglio del muro di sostegno dell’antica arena e socchiudo mentalmente la porta del tempo ( non lo si può fare in fretta ). Mi calo così,  piano piano, in anni ormai incommensurabilmente lontani tra il luccicchio dei marmi  e lo splendore di colonne ed arazzi in un teatro che offriva ai “tergestini” momenti di svago, impreziosito dalla  stupenda cornice naturale dei calcari bianchi del Carso che si immergevano nel blu dell’Adriatico.

Se tutti i triestini conoscono questo monumento, non tutti i fan della montagna sanno dell’esistenza di un’altra  “opera” eccezionale: l’Amfiteater che si alza nelle Alpi Giulie Slovene non lontano da Tarvisio.

Io l’ho scoperto leggendo la guida “Escursionismo in Slovenia “ di Tine Mihelic, dove a metà libro c’è una  foto eccezionale che riesce a catturare la sua selvaggia bellezza  con un’immagine su  due pagine: “è stato amore a prima vista”.

Parcheggio l’auto in una Val Vrata ancora sonnacchiosa nella penombra di un  mattino dei primi di settembre, proprio allo sbocco dell’impervio  canalone franoso chiamato Crlovec. Vago un  po’ a vuoto, scrutando le differenti tracce tra massi di pietra e arbusti, prima di individuare il sentiero che, dopo aver risalito per un breve tratto il ghiaione, rimonta alla  destra nella fitta boscaglia.

Non ci sono bolli né segni particolari ( e non pensate di trovarli lungo tutto il percorso ) ma, dopo l’inizio, non ce n’è praticamente bisogno: una lunga traccia taglia con decisi zig zag le pendenze sempre più accentuate del monte all’ombra della foresta silenziosa.

La ripida salita nel bosco termina all’incrocio con un lungo  sentiero trasversale detto  “dei cacciatori” che corre nascosto in quella parte della valle e che imbocco all’altezza di un albero su cui è incisa una freccia sulla corteccia.

Ci metto poco poi, per uscire dalla confortevole semioscurità della fitta vegetazione. Mi ritrovo improvvisamente in piena luce. Resto accecato, per un istante,  dai violenti riflessi del sole che si specchiano nel caotico letto, bianco di massi e ghiaie, del Crlovec alto: pare un’impressionante ferita aperta che si dischiude nel fianco della montagna quasi per riversare il suo umore pietrificato giù nella valle.

Ora lo sguardo spazia sul verde smeraldo delle foreste che ricoprono la Val Vrata e sulle ultime sentinelle delle “Giulie”: muri di roccia imponenti e massicci, custodi del nostro mondo verticale dal caos e dal rumore delle pianure che si distendono sconfinate verso est.

Proseguo in orizzontale e recupero un po’ il fiato, anche se  non per molto. Dopo un po’ un altro ghiaione sale sulla destra in mezzo alle gigantesche sagome della Ticarica e della Kukova Spica.

Porca miseria, come è faticoso inerpicarsi su quei scivoli di pietrisco a tratti duri e scivolosi , ma comunque sempre instabili e ripidi, dove i passi sono corti e difficoltosi come sui pendii di neve! Mi sento rosso in viso come il classico peperone, ho la bocca impastata di grumi di saliva, gocce di sudore scivolano dalla fronte e mi fanno bruciare gli occhi,  e sbuffo come una di quelle vecchie vaporiere che si vedono nei film, ma  guadagno costantemente quota. Soffro ancora in silenzio ( … anche per il fiatone ) quando, individuo, aggancio e supero degli sloveni, macchie colorate che procedono lentamente in quel grande catino bianco. Poi ecco finalmente i contorni arrotondati della sella Gulce stampati contro l’azzurro del cielo.

 Alla mia sinistra si alza la struttura goffa e pesante della Skrnatarica e la stretta gola nera che la divide dalla Ticarica, a cui portano delle tracce - come delle delle ditate lasciate sui castelli di sabbia dai bambini - su un altro lungo e ripido ghiaione: ultimo sforzo prima dell’inizio della mia avventura.

 La penombra delle pareti distanti pochi metri offre finalmente  sollievo all’arsura dell’estate. Sono forse entrato in una grande  “zona frutta” da frigo?  Sensazioni e fantasie… Dopo aver superato con semplice arrampicata un modesto scivolo di pietra lisciata da acqua e neve,  scopro – accidenti – che bisogna andare avanti a “quattro zampe” tra massi, ghiaia e terra su un fondo ripido e franoso. In certi momenti mi sento molto “gatto Silvestro” mentre muovo braccia e gambe freneticamente  solo per restare in equilibrio, facendo cadere inevitabilmente sassi di varie dimensioni che rimbalzano scatenando cupi rimobombi  come un temporale in avvicinamento!

 Finalmente sono a tu per tu con il cielo. Alla mia destra si prospetta una grossa testa di animale calcificato: è la cima della Skrnatarica, raggiungibile in 5 metri di arrampicata.

 Lo spettacolo, però, è un altro: sono finalmente sul bordo dell’ Anfiteatro.

Il panorama è semplicemente grandioso: con lo sfondo della catena delle Caravanche, che sorveglia distante la tranquilla valle della Sava, si alza a ferro di cavallo un muraglione di pietra alto fino a mille metri che, con  centinaia di torri e pinnacoli. Potrebbe essere un castello incantato di in un film sui romanzi di Tolkin.

Il silenzio è assoluto. Davanti a me ci sono il blu del cielo e il grigio- sabbia della gigantesca arena.

Di spalle ,sull’altro versante , vigila maestoso  il “padrone di casa”, il Tricorno, mentre sotto scendono i prati ripidi della Ticarica, quasi appoggiati a foderare di verde i suoi gradoni fino a perdersi nel bosco che s’interrompe lontano, 1600 metri giù, nel nastro bianco della strada in fondovalle.

L’itinerario è adesso tutto da inventare. Ci sono due possibilità. La più alpinistica ti fa cavalcare il filo di cresta per circa un chilometro, quella “turistica” segue una traccia di sentiero che disegna, anche in modo un po’ confuso, un percorso sul lato orientale del versante sulla Val Vrata. L’una e l’altra ti portano al capolinea previsto: il  Dovski Kriz.

Opto per la soluzione più “divertente”. Incomincio ad arrampicare  su e giù per i denti di roccia, a volte in totale esposizione verso Nord. Una brezza fredda e tagliente che sale dall’anfiteatro si fa sentire nel momento in cui ti sposti  in bilico ( o… a cavalcioni) sull’orlo di quel davanzale di mille metri. Specialmente in momenti come questo, in cui “tocchi con mano” il contrasto delle proporzioni, ti rendi conto di essere piccolo piccolo. Confesso che mi “viene spontaneo” superare la soglia dell’immaginazione, anche solo per un istante. Succede così che il mio sguardo concentrato e un po’ teso si apra ad un sorriso quando inconsciamente mi domando:” Ehi  e se il drago si risveglia e scuote un po’ questa lunga cresta pietrificata ? “

Vado avanti aggrappandomi agli incavi della roccia di una fila senza fine di piccole torri, con  di sotto il color sabbia dei ghiaioni dell’enorme bacino, interrotto dal bianco di chiazze di neve:  ranuncoli dei ghiacci che fioriscono qua e la.

La roccia, è quella delle “Giulie”: … inaffidabile:  si alternano tratti dove gli appigli si muovono come denti da latte  ad altri, più rari,  dove invece il calcare è così compatto da non far entrare un chiodo .

Se la qualità della roccia è mediamente mediocre, anche le difficoltà non sono sempre costanti. La maggior parte del percorso, se proprio si vuole stare ostinatamente sul filo di cresta, è di 2^, con qualche tratto di 3^ e di 4^ .

Dopo un po’ mi rendo conto che quel modo di andare avanti è troppo lento  e quindi mi sposto più in basso sulla via “turistica”. Il sentiero non è, però,  da snobbare perché viaggia su pietrisco e sassi instabili e si snoda su un percorso spesso a precipizio sulla valle. Una scossa gelida mi attraversa la schiena  quando  distratto dall’ambiente scivolo con un piede fino a sfiorare il bordo  di un impressionante salto di roccia che si perde  giù nei ghiaioni duecento metri sotto.

Il sole aveva incominciato la sua parabola discendente già da un po’, nell’attimo in cui entro  nel cono d’ombra che si allunga dalla cima e mi inerpico su verso la cima massiccia e sassosa del Dovski Kriz ( m 2542 ).

Da lì  lo sguardo spazia a 360^ e si confonde, sempre stupito e affascinato, tra le diverse tonalità della luce del tramonto che avvolgono le “Giulie”  e questa silenziosa e imponente meraviglia della natura.

Le altre volte che ero salito qui, poi, al ritorno correvo giù a perdifiato, divertendomi come un bambino lontano dalla vista dei genitori, tra ruzzoloni con il fondoschiena e attimi di sosta per recuperare il fiato e l’incendio sui muscoli delle gambe,  per i circa  500 metri di dislivello su quello che è considerato il ghiaione più lungo delle “Giulie”.

Ora, per cambiare, decido di scendere alla sinistra dello  spartiacque, la tozza Spletva,  lungo i ghiaioni più brevi della val Brinje, che di solito , invece, risalgo all’andata.

Mi lancio giù velocemente per sentierini di pietrisco, finchè in una confusione di tracce, sbaglio via.  Continuo lo stesso perché finisco  sopra ad un boschetto di mughi che crescono fitti fitti. Vado avanti molleggiando sulle cime degli alberi che però si vendicano diventando sempre più alti e meno compatti fino ad aprirsi, facendomi sprofondare ululando nella trappola del sottobosco. Proseguo con difficoltà richiuso e maltrattato da un groviglio di rami, schegge di legno e resina, che mi  frustano, graffiano e stropicciano quanto basta … ne esco come dopo una lotta con il gatto.

In breve però, ritrovo il sentiero tra gli abeti e poi ancora giù di corsa fino ad incontrare , ormai nella penombra della prima sera, dopo undici ore di galoppata solitaria, il rassicurante e – devo dire - desiderato, nastro stradale della Val Vrata che seguo in dolce discesa per un chilometro fino al parcheggio del Crlovec. Da lì un ultimo sguardo a quelle montagne che adesso sembrano lontane, come le emozioni intense provate oggi , ormai entrate nel grande magazzino della memoria.

 
 
 

Un'avventura "speciale"

Post n°18 pubblicato il 02 Settembre 2016 da fritzwitt

Un’avventura … speciale

Tutto era incominciato in modo anonimo, direi banalmente normale.

 Da alcuni anni le analisi del sangue presentavano degli “asterischi”, che, poi, in quelle successive sparivano. Il medico di base diceva che non c’era alcun motivo da preoccupazione, ed io andavo avanti sereno nella mia vita anche perché non sentivo nessun disturbo.

In realtà gli unici valori che restavano ( un po’) fuori norma erano quelli del PSA. E’ stato così che il medico di fabbrica l’altr’anno mi ha detto: “Francesco, non sarà nulla, ma perché non ti fai vedere da uno specialista?”

L’urologo – ero alla mia prima esperienza -, mi ha fatto distendere supino su di un lettino e, indossato un guanto ( colore di quelli che usa mia moglie per lavare i piatti ) ha eseguito (ahimè) l’esplorazione rettale. Vedendolo prepararsi all’”azione”, mi è balenato in mante un flash sui racconti di naja negli “Alpini” di Stefano. Parlava del veterinario che, chiamato per rimettere a posto un mulo, si infilava un guanto lungo quanto il braccio, che poi cacciava nel posteriore dell’animale per ravanargli nell’intestino … La bestia immediatamente si rialzava risanata!

 La diagnosi è stata rassicurante. “Non sento niente”- mi ha detto – “fatti un mese di antibiotici e poi ci rivediamo con delle nuove analisi”.

Al successivo rendez vous, il risultato non era cambiato. Il medico si è nuovamente mostrato tranquillo: “ritorna tra qualche mese e, se i valori restano sempre gli stessi, vuol dire che  – come tanti- hai semplicemente la prostata ingrossata”.

Nel terzo appuntamento i risultati delle analisi del sangue erano pressoché immutati. Ho risubito l’esperienza del “mulo”( con i medesimi commenti: “non sento nulla”), ma, questa volta lo specialista mi ha sorpreso mormorando: “stavolta facciamo così : ti prenoto una biopsia e, ti do anche una dieta”, e mi ha consegnato un foglietto con un elenco di cibi ammessi e vietati.

La dieta sembrava uscita da una bottega di macrobiotica, formata com’era da alimenti integrali e pesce “pescato”con eliminazione totale della carne, del latte e derivati e  dei prodotti con farina “bianca”.

Sono rimasto perplesso: uno i conti non mi tornavano:” perché – mi domandavo – mi hai sempre rassicurato che tutto era normale e ora mi sottintendi la possibilità di un tumore?” Due ‘sta dieta “delle balle” era assolutamente impossibile da seguire e mi sembrava qualcosa di “talebano” : ogni giorno tè verde e tre cucchiaini di salsa di pomodoro “obbligatori”. Mancava solo la salsapariglia dei puffi!

Quando ho scoperto poi che la biopsia mi era stata prenotata all’ospedale di Monselice, in cui un mio conoscente ci aveva quasi rimesso le penne per “mala sanità”, ho deciso di prendere in mano la situazione.

Sentiti vari pareri, su indicazione del nuovo medico di fabbrica mi sono rivolto a Padova, alla dottoressa Fracalanza, che , nonostante la iniziali difficoltà di contatto, mi ha procurato l’appuntamento per la biopsia.

Il giorno fatidico mi son trovato così su di una “cavalchina” a gambe divaricate, con Lei, “mia” la medichessa ( ci eravamo appena presentati elargendoci un sorriso di circostanza ) seduta di fronte in piena zona “panoramica”, che mi puntava una siringa di anestetico  proprio sotto i testicoli, trattenuti in modo spasmodico dalla mia mano destra igienicamente guantata. “ Non si preoccupi- mi ha detto in modo gentile e professionale  – sentirà un po’ di dolore , l’unico dell’intera “operazione”. E’ un po’ come quando va dal dentista”. Attimo di terrore. Poi la fitta ( veramente erano due ) acuta - che è durata qualche interminabile istante – in realtà sopportabile, anche se “ … il dentista non mi ha mai punto sotto le palle!” ho sussurrato in una smorfia contraendo le labbra.

Dopo un mese di attesa, ho ritirato gli esiti allo sportello del CUP dell’ospedale S. Antonio: carcinoma su alcuni frustoli di prostata.

 A cinque ore dall’apertura della busta con il verdetto fatidico, “il mio angelo custode” mi ha “piamente” accolto nel suo studio. Con la solita professionalità, ma con negli occhi un’espressione del tipo “come glielo dico”, mi ha confermato che ( ahimè ) il “male” c’era. Bisognava operare.

E’ come se fossi stato spinto improvvisamente giù nel blu scuro del mare profondo dell’emozione.

“E’ più facile che lei muoia travolto da una macchina, piuttosto che di questo”, ha voluto rassicurare Simonetta, tentando di farmi riemergere alla realtà schiaffeggiandomi con una frase ad effetto. Ma la mia attenzione era ormai lontana, catturata dalle parole di quella sentenza, che naturalmente avevo considerato e temevo ma da cui, in fondo,  speravo di essere risparmiato. Era proprio vero: una cosa è pensare, un’altra sentire.

I giorni successivi sono stati di assoluto impegno per i miei due emisferi del cervello, in cui a momenti di riflessione sui “rischi, benefici e conseguenze dell’operazione” ( come in un piano aziendale ) e sulla relativa strategia da adottare, si alternavano - come nuvole che si rincorrono veloci nel cielo, rubando e restituendo la luce del sole - spazi in cui scorazzavano folate di morte e di vita.

Così un venerdì qualunque per molti – ma non per me – a meno di due mesi dalla biopsia sono entrato in ospedale per l’intervento che si sarebbe svolto “intra moenia” il giorno dopo.

Con due borsoni, come se fossi stato in uno dei cento hotel dei miei viaggi per lavoro, ho premuto il tasto del terzo piano, con destinazione , però,“Urologia”.

La vita intorno a me scorreva normale, banalmente placida. Nel gran calderone del mondo ogni giorno nascono, muoiono, si amano e si uccidono uno sterminato numero di persone. Quello stesso giorno verrà ricordato da qualcuno come il più bello, per altri sarà il peggiore, per la maggior parte semplicemente uno come un altro … Fin quando non tocca a te … considerarlo speciale.

La stanza di due letti era ampia e luminosa con una TV  a schermo piatto su di un angolo in alto. Dopo aver fatto analisi del sangue, ecografia ed elettrocardiogramma ho sistemato le mie cose in un paio di stipetti.

Avevo terminato da poco i controlli quando è entrato un medico dall’accento meridionale che, con toni asciutti, mi ha descritto l’operazione, tracciando anche un disegnetto per mostrarmi dove, come e cosa mi avrebbero asportato.

Ho anche conosciuto il chirurgo, il primario, dott. Dal Bianco, che – come nei film di Sordi – ha fatto il suo ingresso in scena seguito da un corteo di medici e infermieri. Il tipo che avevo incontrato la mattina gli ha brevemente descritto la mia situazione alla luce delle ( buone ) analisi appena fatte. Il “capo” con un laconico “bene” ha assentito rivolgendomi un sorriso rassicurante prima di continuare presso un’altra stazione di questa “via Crucis” sui generis.

Nel pomeriggio mi ha raggiunto anche mio fratello dalla Spagna, proprio quando un cortesissimo infermiere con un rasoio elettrico in mano si è diretto verso di lui per invitarlo a incominciare a radersi dall’ombelico in giù … mentre io ero in bagno J!

La mattina dopo poco prima delle otto è arrivata Marina accompagnata da Piero.

Qualche istante più tardi sono entrati due paramedici per trasportarmi in sala operatoria. Le lenzuola del letto erano la testimonianza più evidente di una notte “sofferta”, tanto apparivano strapazzate e intorcolate! Avevo già addosso la camicia da operazione, puntellata da dei disegnetti colorati – motivetti azzeccati per sdrammatizzare l’evento.

Nell’uscire dalla stanza, disteso sul letto, l’emozione ha preso il sopravvento. Per qualche istante, dopo aver fatto e ricevuto un gesto di saluto, come prima di salire sul treno per un lungo viaggio, mi è venuto un groppo in gola e un paio di lucciconi hanno velato per un momento i miei occhi.

Nell’ascensore gli infermieri parlavano del più e del meno, in quella loro  normalissima giornata di lavoro, aiutandomi inconsapevolmente a stemperare la tensione.

Sono rimasto per un po’parcheggiato in un freddo corridoio. Poi, delle giovani, carine e cortesi infermiere, con i capelli raccolti in fazzoletti con dei motivi simili a quelli del camiciotto che indossavo, mi hanno aiutato al trasbordo sul tavolo/carrello operatorio.

Vivevo con intensità quei momenti per me del tutto nuovi.

Ora tenevo le braccia incrociate sull’inguine, avvolto com’ero nelle lenzuola e coperte, perché sul piano non ci stavano.  Una volta sotto le lampade, ancora spente, si è presentato, con un sorriso gentile, un occhialuto anestesista munito anche di … carta e penna, per propormi di firmare la liberatoria … “Quando andrò nell’aldilà San Pietro mi farà sottoscrivere qualcosa ?”- mi son chiesto. Prima di invitarmi a ruotare appoggiato sul lato sinistro per la “spinale”, lo stesso medico mi ha anche offerto l’opportunità di un’iniezione che mi avrebbe permesso di “essere profondamente rilassato”. Ho accettato con gratitudine.

Il ricordo successivo è stato al momento della cucitura. Ho riaperto gli occhi: di fronte a me un telo bianco: provavo la  strana sensazione di come se qualcuno  mi stesse rammendando i calzoni addosso.

Poi sono stato movimentato fuori. C’erano Piero e Marina. Negli occhi mi è venuta la nuvoletta del fumetto con scritto “grazie”! Non ho memoria di dolore .

In stanza mi sono trovato “pieno” di tubi … sembravo Robocop. Il catetere pendeva alla mia sinistra. Sul braccio dello stesso lato una soluzione nutritiva mi entrava direttamente in vena da un tubo di plastica trasparente, su cui c’era un raccordo ( tipo il trivio per computer, telefono e stampante ), poi usato per iniettarmi l’antibiotico e un altro antidolorifico. Sempre alla mia sinistra si appoggiava, a lato della pancia, un sacchetto con del sangue scuro proveniente dal drenaggio mentre sulla schiena … finalmente a destra … un tubicino mi iniettava dell’antidolorifico.

Nel pomeriggio è apparsa la sagoma “familiare” del chirurgo (che può ricordare vagamente un Casini, ma più basso ): “ è andato tutto bene, ci vediamo lunedì” – mi ha comunicato con un sorriso – sparendo subito dopo.

E’ così incominciata una settimana “diversa”, che mi ha visto protagonista di un ruolo ed un’esperienza nuovi.

I ritmi degli ospedali, forse, si assomiglino un po’ tutti: sveglia prestissimo, poco dopo le 6.00 per misurazione della febbre e pressione; a seguire colazione, primo giro di medicine intorno alle 9.00 ( antibiotico e svuotamento catetere e sacchetto del drenaggio),  visita brevissima di un medico per controllo cartella e … anche per essere preparato ad eventuali domande del primario che lui precederà – come l’araldo fa strada al re - guidando, dopo un po’, il corteo.

Nel frattempo riassetto letti e pulizia stanza prima del pranzo servito, verso le 12.30 da una cameriera in completo “aziendale” de “La Serenissima”.

Nel pomeriggio rifà capolino un medico, puliscono nuovamente la stanza. E’ la volta quindi degli infermieri che ti vengono a trovare prima dei riti della sera: cena alle 18.30, poi antibiotico e punturina di anticoagulante, antidolorifico e 20 gocce di “invito al sonno”…

In realtà la giornata non si esauriva in un’asettica tabella di marcia, in un banale gioco di ruoli, in cui c’era qualcuno che stava da un lato per lavoro e un altro che si trovava dall’altro per necessità.

Shakespeare diceva che la vita è una commedia, dove recitiamo diverse parti a seconda dei momenti della nostra esistenza. Anche se il copione è piuttosto arido, come in ogni piece che si rispetti, la differenza la fa, quindi, la qualità degli attori.

 Io sono stato colpito dalla gentilezza delle persone che mi sono state vicine, la cui cortesia, il più delle volte non era solo “buona educazione”, ma spontanea sensibilità.

Penso che ricorderò per sempre quella giovane infermiera con i capelli lunghi, un po’mossi che le scendevano sulle spalle. Non so il suo nome, né l’ho più rivista. Si è occupata di me nel tempo dell’intervento e nella giornata successiva. Di notte veniva a vedere come stavo. Entrava in stanza con delicatezza, senza far rumore. Con la pila mi si avvicinava e, messami una mano sulla spalla – per evitare un eventuale risveglio brusco – scostava le lenzuola per controllare il drenaggio, e, poi uscendo mi rivolgeva un sorriso accarezzandomi con le dita della mano lungo la gamba. Quei momenti di così profonda dolcezza mi hanno risucchiato nel vortice del tempo, immergendomi nelle sensazioni e percezioni – mai più provate – di quando da bambino la mamma mi stava vicino, da malato, e avvolgendomi con un rassicurante velo di affetto, mi trasmetteva sicurezza e serenità.

Ma anche tante, direi, veramente tutte le altre infermiere, mi hanno curato con professionalità e delicatezza. Mi ricordo pochissimi  nomi:  Valentina, Silvia, la camerunense Flores che, un po’ impacciata nei movimenti, ce la metteva tutta per svolgere il suo compito nel migliore dei modi sotto lo sguardo attento della sua tutor. Non mi dimenticherò certamente dell’”amico” Paolo (?) –  ho impressi visi e sguardi, piuttosto che nomi di cui  neanche mi interessava leggerli sulla targhetta di stoffa – con cui ho condiviso riflessioni sulla “specialità” del ruolo del paramedico che è – e deve essere – innanzitutto orientato alla persona, prima che all’oggetto della sua azione professionale.

In un momento particolare essere trattato in un modo umanamente adeguato è molto importante, lo stavo sperimentando, e quegli “attori” – riprendendo a prestito il teatro - lo avevano capito bene quando, aperta la porta ti rivolgevano un bel sorriso condito dal “buongiorno”, chiedendoti come stavi.

E i medici ? … A parte il “mio angelo custode”, la dottoressa Simonetta Fracalanza, che sapevo che “vegliava su di me”, ne sono stato a contatto molto poco, specialmente perché – grazie a Dio- mi sono sempre “sentito bene” e, quindi non avevo bisogno del loro intervento specialistico. Nelle loro fugaci apparizioni, comunque, si sono sempre rivolti in modo cortese e rassicurante.

In guerra i più decorati sono sempre i generali, per le loro strategie vincenti. Seguendo questa logica la “croce di cavaliere” la devo  assegnare senz’altro al dott. Dal Bianco perché ha saputo organizzare e condurre un team così efficiente, capace e sensibile alle necessità delle persone sofferenti ( cd pazienti ).

Così è finita la “commedia”. Sintesi: standing ovation per tutti.

Ritornando a me, e per finalmente (… era ora!) concludere queste considerazioni, dal giorno dopo l’operazione, da quando ho rimesso i piedi per terra, mi si è aperto un altro capitolo: obiettivo “ ritornare normale”attraverso la riabilitazione. E’ un capitolo nuovo dove i piccoli successi quotidiani hanno il sapore delle grandi conquiste.

Ora, a due settimane dall’intervento, sono riuscito immediatamente a camminare, mi hanno tolto il catetere, il drenaggio e perfino i punti … Sto migliorando anche dal punto di vista dell’”idraulica”! Cosa posso pretendere di più?

Che avventura misteriosa e affascinante è la vita e … anche piena di ironia.

 Io la penso come il” vecchio grande” Shakespeare.

 

 

 
 
 

il mio comandante

Post n°17 pubblicato il 02 Settembre 2016 da fritzwitt

Il mio Comandante

Sedici settembre 2014. Cimitero monumentale “la Certosa” di Parma. Fa caldo e … non piove. “ E’ già qualcosa”- penso – “in una stagione matta come questa”.

Il verde smeraldo del grande prato dietro al cancello in ferro battuto nero, da un senso di serenità, come la grande chiesa romanica costruita dai Certosini, che sorge al suo bordo. Le   linee pulite ed essenziali e la forma imponente del tempio ispirano pace e ti parlano di un Dio Padre che ti difende e rassicura.

Isola di Sant’Elena settembre 1973. Ho sedici anni sono elettrizzato e teso perché sto concorrendo per raggiungere la mia aspirazione: entrare nel mitico Collegio Navale Morosini.

Dopo essermi fuso il cervello con le prove psico - attitudinali, per ammazzare il tempo, faccio un giro intorno al Collegio. Percorro i lunghi viali alberati che lo circondano immersi in quei silenzi irreali che si provano  solo Venezia, rotti solo dall’eco dei tuoi passi sul selciato e dall’eco di qualche vaporetto. 

Ad un tratto mi trovo di fronte ad una chiesa romanica, vecchia di quasi mille anni, dedicata alla madre dell’imperatore Costantino, Sant’Elena : i suoi mattoni rossi, consumati dall’accavallarsi dei secoli e dalla salsedine,  guardano al tempo con lontano distacco, indifferenti alle gioie e sofferenze di generazioni di uomini presi dalla ruota perenne della vita e della morte.  

Due chiese romaniche, due fotogrammi di vita.

Un piccolo gruppo di persone attende all’ingresso, all’ombra di una costruzione grigia ed anonima adibita ad uffici. Mi metto anch’io vicino a loro, anche se a qualche passo di distanza.

Noto un uomo calvo sulla quarantina: non ci sono dubbi, dev’essere il figlio del Comandante.

Fine di settembre 1973, primo giorno di collegio. Sala studio. Tutti noi pivoli sediamo con le nostre goffe uniformi nuove di pacca, ai  “banchini” assegnatici ,disposti per file ordinate. Su ognuno di essi è avvitata una targhetta con il nome dell’inquilino.

Il Comandante è seduto in cattedra con la sua divisa blu. Ha una testa che ricorda quella di Charle Brown , capelli radi biondi e due  profondi occhi azzurri.

Ci chiama uno ad uno per cognome, guardandoci in faccia.

Ci alziamo e ci presentiamo. Evidentemente ha “studiato” le nostre pratiche.

Siamo intimoriti e imbarazzati mentre rispondiamo sull’attenti. La sua voce è seria, senza inflessioni.

Ci guardiamo tra di noi, scrutiamo chi è fuori davanti a lui. E’ anche quello un modo per annusare un mondo così nuovo e strano.

La sera prima, in dormitorio, avevamo dovuto infilare tutta i nostri indumenti “civili” in un grosso sacco di iuta da spedire a casa. Roba da monaciJ

Ogni avventura ha un inizio: il nostro è partito così.

Dopo un po’il gruppo si muove in modo lento, senza fretta, sfilacciandosi lungo il viale coperto di ghiaia bianca che ti abbaglia per la luce intensa del sole.

All’altezza della chiesa appare il cimitero vero e proprio, popolato principalmente da cappellette o da lastre tombali su cui sono adagiate una folla di immagini sorridenti, incorniciate.   Vedo le espressioni spensierate di un popolo che non esiste più, se non nel ricordo: fotogrammi colti in momenti di relax e di serenità, messi lì per aiutarti a trasformare il dolore in una soffusa malinconia.

Sono in Collegio da una settimana. Stiamo imparando a marciare, a fare reciproca conoscenza innanzitutto con i compagni di classe, i professori e a tentare di sfuggire alle “feroci” caccie degli anziani.

E’ sera, prima di cena. Sono a studio. L’ufficiale di ordinanza mi chiama e mi dice che sono voluto dal Comandante.

Commino pensieroso lungo il corridoio semibuio con  il rumore dei tacchi che rimbomba sul pavimento di marmo. Mi fermo davanti alla porta di legno chiaro laccato, con due oblò che occhieggiano sui battenti, dove campeggia la targhetta “ Comandante primo corso “. Busso. “Entri”. Fatti pochi passi mi metto in piedi davanti a lui, ritto sull’attenti con la “pizza” stretta nella mano sinistra. La stanza buia è illuminata da una lampada a tavolo. Il Comandante è intento a leggere.

Non distoglie lo sguardo. Il silenzio è assoluto.

Il tempo passa interminabile. Ancora con la testa da ragazzo “borghese”, faccio per prendere una sedia messa davanti al tavolo. Il Comandante senza alzare lo sguardo mi dice con tono incolore: “ stia pure comodo sull’attenti”.

Senza fiatare mi riposiziono come prima. Dopo un po’ incomincia a parlare : “Blasi l’ho chiamata perché è morta una sua parente, sua nonna se ricordo bene. Domani mattina parta perché c’è il funerale. Ha un giorno di licenza”. Fine della comunicazione.

Non riesco a trattenere le lacrime. Tre anni prima era mancata mia mamma e la nonna, che mi coccolava da sempre, era diventata il mio punto di riferimento affettivo. In un attimo il mondo mi è precipitato addosso.

Con il senno di poi, mi sono convinto che lui non abbia, almeno in un primo tempo, creduto alla notizia:  avrà supposto ad una furbata combinata per sgamare un giorno di collegio, magari per nostalgia… Va a saperlo…

Il vialetto non è lungo. Le scarpe sfrigolano sulla ghiaia.

In lontananza mi accorgo della presenza di un piccolo gruppo di persone con una bandiera. Sono tre ex marinai dell’ANMI, anziani e macilenti, schierati con dignitoso piglio marziale davanti ad una cappella bianca simile a tante altre. Ci siamo.

Nel frattempo arrivano altre persone un po’ alla spicciolata. Il “capo” dei marinai chiede al prete di avvisarlo prima della recita della preghiera dei defunti perché devono alzare la bandiera.

Il gruppetto – saranno in una ventina – si raccoglie a semicerchio.

Tra di loro si staccano il figlio con una sportina blu in mano e la vedova.

Farneti junior appoggia l’involucro su un ripiano della cappelletta ed estrae un’urna di legno.

Fa un cenno al prete che dice qualche frase di circostanza.

Prima di iniziare la preghiera questi si volta verso gli ex marinai, il cui alfiere immediatamente solleva il vessillo.

Finito il momento religioso, è la volta di un amico del Comandante, anche lui in avanti con gli anni. Si muove pesantemente e con passo lento si pone davanti all’urna. Fa un breve discorso di commiato, ricordandolo nelle figure di padre, marito e servitore dello Stato. Ha la voce potente anche se il tono è incrinato dalla commozione. Conclude dicendo: “ a presto Giuseppe, a molto presto”.

Avanza poi davanti all’urna un altro amico, forse coetaneo, che recita la “Preghiera del Marinaio”. Nel silenzio  scandisce le parole con lentezza, soppesandole una ad una, come se volesse farla sentire al Comandante per l’ultima volta.

La ascolto con attenzione: è la sintesi di un credo, di una fede in una Nazione che ci appare ora tanto lontana, tanto diversa. E’ un momento toccante.

Nessuno di noi l’ha mai imparata in tre anni di Collegio, a parte Ramezzana, forse.

Tra i presenti c’è una ragazza vicino a me con gli occhi lucidi.

Io continuo a starmene in disparte. Sono dietro ad una signora che si è piazzata proprio davanti a me. Ha dei pantaloni bianchi aderenti, ma si sa … la vita continua… Vedendo quel posteriore, penso che il Comandante, che aveva un acuto senso dell’humor, in quel momento starà sorridendo.

Non abbiamo mai avuto un grande rapporto con il Comandante. Era una persona riservata con un carattere piuttosto chiuso. Certamente non aveva un compito facile, perché gestire un gruppo di adolescenti non lo è mai, e forse giustamente, ha sempre voluto lasciare un cospicuo margine di distacco tra noi e lui fino alla fine del triennio.

 Mi avvicino al figlio e mi presento: ”sono Blasi un ex allievo di suo padre al Morosini”. Mi da la mano: “ Ah il corso Polaris! Ricordo benissimo! Ero molto piccolo.”

Successivamente circola tra le persone un quadernone per le dediche. Ne scrivo una a nome del Corso.

Un manovale del cimitero sistema l’urna in un loculo e la chiude con dei mattoni. In quel mentre gli suona il cellulare: ”sono impegnato: sto facendo una tumulazione. Ti richiamo dopo”. Chiaro scuri. La banalità della vita e della morte…

La cerimonia è finita. Saluto anch’io il Comandante.

Il gruppo lentamente sciama via. Il sole è già nella parabola discendente.

Un altro giorno sta per finire. Resto solo con i miei pensieri sfuocati dal tempo a rivedere un film ripreso tanti anni fa, con i fotogrammi ora ingialliti, ma che mi provoca tuttora delle emozioni che mi accompagneranno per sempre.

 

 

 

 
 
 

in macchina guido veloce

Post n°16 pubblicato il 02 Settembre 2016 da fritzwitt

In macchina guido veloce. Fondamentalmente sono uno rispettoso del Codice della Strada, ma la velocità è una tentazione o meglio un impulso veramente difficile da dominare.

Arrivo a Forni Avoltri alle 9.30. Parcheggio vicino al fiume . Di fronte c'è un bel bar in stile chalet. La signora un po' grassoccia, quando mi serve il "macchiato" mi fa : "andiamo a farci una biciclettata?"  " veramente voglio farmi il giro delle "Dolomiti Friulane sky race" - rispondo.

 So che su quel prato, proprio dove c'è il bar,  viene organizzato proprio il punto di partenza/arrivo della gara. "Sa se c'è neve , specialmente in val d'Inferno?"  Non lo sa. " Va da solo?" "Si, ci vediamo dopo".

Poco dopo incomincio a trotterellare sul nastro nero d'asfalto che taglia il verde smeraldo dei prati circostanti. In cielo grossi nuvoloni neri si alternano a sprazzi di azzurro.

Ansimo un po'ma la salita è leggera. Raggiungo l'inizio del sentiero. "Lascia passare il signore che corre" dice la mamma al bambino di 6 /7 anni che sale controvoglia , mentre il padre si fa da parte. Ringrazio , ma ... non corro più, vado ora a passo veloce. Le racchette ticchettano ritmicamente sulle ghiaie. Voglio trovare il ritmo giusto: la strada è ancora lunga.

In cielo le nubi continuano a nascondersi con il sole. La temperatura è veramente "giusta": lievemente fresca. Spingo ancora un po' .Prima di arrivare al rifugio il sentiero sparisce sotto una bancata di neve... Acci. Questa neve così a bassa quota mi preoccupa un po'.

Mi prendo un integratore , non mi sento particolarmente competitivo.

Al Pacherini mi si schiude la vista sulla val d'Inferno ....praticamente tutta ricoperta di bianco. Porca miseria! Chissà se ce la farò a salire i 600 e rotti metri di dislivello in scarpe da corsa?  Mi lancio nell'avventura. Il ghiaione che di solito fa sudare tremendamente tutti in estate ( per questo penso che la associno all'inferno :-) è sparito sotto il mantello nevoso. Solo qua e là emerge qualche chiazza verde di mughi. L'andamento teorico del sentiero è tutto da inventare.

In braghette corte e t shirt , aggrappato ai bastoncini salgo puntando i piedi come se avessi gli sci ai piedi. Sprofondo un po', ma neanche troppo. Mi aspettavo di peggio. Faccio fatica. Ogni tanto mi giro e vedo la costruzione a forma di scatola del Pacherini sempre più lontana.

Raggiungo la forcella su di un tratto di sentiero sgombro di neve. Lassù a 2175 metri c'è un bellissimo panorama ...invernale: cime innevate dappertutto. Non so dove andare: una brezza fredda mi congela il sudore sulla pelle : dovunque vedo cenge cariche di neve.  Consulto la cartina: ma non trovo risposte.

Ad un tratto , come per magia, si materializza il rosa shocking di una giacca a vento a 50 metri da me. E' una ragazza. "E' la prima persona che incontro oggi" mi dice sorridente." Decisamente una gita sbagliata. C'è solo che neve!" Anch'io sono molto felice di vederla...perchè così riesco finalmente ad agguantare il sentiero. Ci abbracciamo un secondo e dopo esserci scambiati qualche informazione ognuno sparisce per la sua strada.

Continuo per la conca della val Brica navigando a mezza costa. Ogni tanto incrocio le impronte della mia amica: abbiamo avuto spesso lo stesso intuito. Solo l'abbigliamento era decisamente diverso: lei in scarponcini e indumenti da trekking ... io da "atleta"...

Ogni tanto attraverso  slavine con la neve mista a terra e  scheletri di alberi trascinati lontano.

 Sono solo in spazi immensi: non sento  altro che l' alito del vento che gioca a spingere treni di nuvoloni . La luce è a tratti intensa e accecante, mentre, più spesso è lieve e soffusa , come quella di un abat jour , filtrata com'è dalle masse di nembi.

Sono sereno e mi diverto a scivolare per i pendii . Mi faccio in verità anche un paio di ruzzoloni : ho il fondoschiena gelato. Rido e commento ad alta voce le mie performances.

Quando sono nella zona di casera Menon il paesaggio cambia. Mi sembra di essere entrato nel cartone animato di Heidi: il bosco di abeti e larici è colorato da un misto di pennellate di tutti i verdi della tavolozza , mentre su una radura fanno capolino due baite di legno. I posti da sogno esistono.

Il sentiero ora si arrampica su forcella Urtisel. Tra i mughi, un'altra slavina, come la gomma sul disegno, ha totalmente cancellato il percorso. Passare tra radici spezzate, rami divelti e zolle rivoltate da una sensazione di disagio: panta rei.

 In cima si spalanca la vallata di Forni: dalla forcella ci si tuffa nuovamente nel mondo: lontano si scorge il paese, una linea continua incide il fianco della montagna vicina ( dev'essere il sentiero che porta al passo del Mauria), mentre giù lontano, quasi a piombo, appare presto, la miniatura bianca del rifugio Giaff.

Siamo alla fine. Il ghiaione è però difficile: è molto pendente ed un gigantesco ammasso di pietre grosse e instabili. Scendo correndo con attenzione. Ma non troppa: ad un tratto mi trovo per terra con il culetto che ha evitato uno spuntone per caso: viva lo zaino che mi ha protetto l'osso sacro!.

Il tempo non passa mai per raggiungere il Giaff, e poi continua  a non passare giù per il sentiero impervio che costeggia il torrente. Gli ultimi 5 km sono di corsa pura.

Rivedo il prato. La macchina c’è; la tocco. Mi fermo.

Fuori dal bar c'è la signora grassoccia della mattina che si fuma una cicca in pace.

Ci salutiamo. "Come è andata" - mi fa "Bene, solo che c'era un sacco di neve" . "A settembre c'è la gara” – mi dice - " Ci sono dei fenomeni che la fanno in due ore, magari lei ce ne mette  quattro o cinque, che sarebbe un buon tempo, considerata la neve che ha superato oggi ". Sono le 16 e 10. Ci ho messo 6 ore circa per questi 19 chilometri senza ski pass, su un dislivello di 1710 metri in salita e altrettanti in discesa.

Prendo gli aminoacidi. Un quarto d'ora di streching e poi a casa... in velocità. Come piace a me.

 

 
 
 

Monte Porezen: Prova di sforzo

Post n°12 pubblicato il 17 Maggio 2010 da fritzwitt

Monte Porezen – Prova “di sforzo”

 

Antefatto. 24 Marzo 1945. Trentotto giorni alla fine della guerra. Cima del monte Porezen. E’ sera. Vapori acri e densi gravano, pesanti, mentre l’aria è satura dell’odore pungente rilasciato dalle esplosioni. Sul ripido pendio erboso ancora coperto da un leggero strato di neve, si distinguono le fortificazioni italiane, costruite nel progetto del Vallo Alpino del Littorio.

 Si tratta di una casermetta e qualche bunker. Intorno tante ombre indistinte. Sono i corpi di un centinaio di partigiani. Giacciono irrigiditi nelle posizioni crudeli della morte violenta. Alcuni sono ammassati l’uno sopra l’altro.

Hanno combattuto, poi si sono arresi. Le Waffen SS non hanno fatto prigionieri. Se ne sono andate, poi, con i loro feriti .

Ora dopo tanto fragore, urla e crepitio di mitraglie, c’è il silenzio.

L’esercito tedesco si sta ritirando ovunque. Nell’attuale Slovenia i partigiani titini del IX Corpus hanno da tempo intensificato la propria attività di guerriglia, con attentati, sabotaggi, agguati…Vi sono uccisioni continue e rappresaglie altrettanto cruente.

Il valore della vita è nullo. Si viene ammazzati anche per un vago sospetto.

Inquadrate nelle truppe del Terzo Reich, e in particolare nelle Waffen SS, combattono una moltitudine di uomini di etnie diverse: ungheresi, russi, ucraini, italiani, spagnoli, sloveni, croati… chi per ideale, chi per paura, chi per opportunismo… come da sempre, il tutto si mescola nel gran calderone della vita, delle scelte, del destino.

Simile ad un toro alla fine della corrida, solo, al centro dell’arena, accecato dal sangue che gli gronda sulla fronte fino ad oscurargli la vista, e stordito dal dolore delle banderillas conficcate “ad arte” dai picadores nei fianchi, il soldato in divisa germanica è rabbioso, angosciato, ma, comunque, ancora combattivo.

Ha, inoltre, un motivo, psicologicamente molto forte per lottare: vuole ritornare a casa, vivo, entro i confini del Reich. Ma, per poterlo fare, le strade, le direttive principali devono essere libere.

Le zone ad oriente del corso dell’alto  Isonzo, prima che questo sbocchi nella piana di Gorizia, sono una roccaforte partigiana “naturale” perché coperte da fittissime foreste su un terreno frastagliato e accidentato interrotto da valli scoscese . Nonostante ciò, in quel triste mese di Marzo 1945, il Comando Tedesco lancia le operazioni “Fine Inverno” e “ Risveglio di Primavera” in due aree contigue, con lo scopo di “mettere in sicurezza” le adiacenti vie nord orientali. I combattimenti sono durissimi.

Sotto una pressione imprevista, il IX Corpus dell’Esercito di Liberazione Yugoslavo si ritira in modo scomposto, suddividendosi in piccoli gruppi.

Un centinaio di partigiani in fuga decide, allora, di rintanarsi sul monte Porezen …

Agli uccisi, i vincitori della guerra, innalzano un monumento a forma di stele a due passi dalla vetta.

Ogni anno, alla data di ricorrenza, un corteo sale al monte per ricordare il triste fatto e commemorare i caduti.

 

Descrizione. Novaki mi accoglie intorno alle 9.30. Il paesetto è aggrappato al fianco meridionale del Crni Vrh. Non è stato facilissimo arrivarci. Prima di Crkno non c’erano indicazioni e, in precedenza, la strada da Adiussina in avanti è stata un unico, quasi ininterrotto slalom di curve e tornanti. Con andatura “allegra” ho impiegato quasi due ore da Trieste.

Parcheggio in un tratto di strada striminzito, all’altezza del tetto della chiesa, costruita su un pastino più in basso.

Mentre sollevo la mia “Rocky Mountain”dal portabici arriva, sudato, un biker sloveno. Scambiamo quattro chiacchere un po’in italiano, un po’ aiutati dai gesti. Mi chiede dove vado e, nel breve dialogo, racconta che dalla cima del monte, verso sera nelle giornate limpide, si vede il golfo di Trieste. La salita, però… e, verticalizza il braccio, “è così”… Ci salutiamo con simpatia.

Non vedo indicazioni per il Porezen, ma al secondo tentativo, dopo essere piombato davanti a una signora nel proprio cortile di casa cinquanta metri sotto, ci azzecco.

E’ il primo maggio, la temperatura sembra ideale: splende il sole, ma fa abbastanza fresco.

La strada sale subito impegnativa sul versante meridionale e luminoso che chiude la conca di Crkno, puntellato da belle casette. La grip dell’asfalto aiuta a fare meno fatica, mentre la serpentina si allunga incidendo il fianco del bosco. Dopo circa tre chilometri, all’altezza di una curva dove la carreggiata s’impenna ulteriormente, inizia lo sterrato, bianco e polveroso. Il fondo è compatto e abbastanza regolare ed è in pieno sole. Superato uno strappo più duro, asfaltato di recente, raggiungo un ampio costone che fa da spartiacque. Ho percorso circa 6 km, e so che sono ad un terzo del mio itinerario. Il panorama, aereo, di ampio respiro, spazia sui rigogliosi versanti di Crkno e della val Baccia. Mi lascio alle spalle delle graziose casette che, come funghi, spuntano, raccolte, ai limiti di radure verde pallido.

Un rustico cartello di legno lucido mostra la direzione del Porezen. Un’indicazione. Era ora ! fino a questo momento mi mancava quella presenza rassicurante.

Il tempo sta cambiando: frotte di nubi si inseguono creando un gioco continuo di luce ed ombra. La strada svolta decisamente a sinistra e s’inerpica di nuovo, faticosa, in un fitto bosco. Vado avanti a lungo, così, tra gli abeti, avvolto dall’intimità della foresta, raggiungendo un’altra sella. Si alternano, ora, tratti di pendenza ripida ad altri più pianeggianti o in moderata discesa dove posso recuperare il fiato. Raggiungo, in salita, una terza sella, da cui lo sguardo corre sulle distese color smeraldo delle vallate a sud, mentre poi gli le ruote della mia “Rocky Mountain Element 70” incominciano a mordere l’argilla di un’ennesima rampa, veramente impegnativa. Curvo in avanti, spasmodicamente aggrappato ai “corni” del manubrio, innestato il rapporto più “corto”, spingo sui pedali, con fatica e tenacia, patendo per la mancanza di fiato. Il cuore rulla nel petto, come un tamburo che ritma il passo dell’attacco… Mi fermo un attimo per riposare e respirare con calma. S’insinua, perfida, nella mente l’idea di mollare, di scendere e spingere. Rispondo ruggendo un’ imprecazione ad alta voce e vado avanti con determinazione .

Il fondo non molla la sua pendenza. Raggiungo, soffrendo - rosso e sbuffante come una vecchia vaporiera – la fine della salita, accolto da una folata di aria gelata.

La vista, finora coperta da una lunga progressione di gradoni, si apre, e, finalmente, mi si spalanca davanti, grande, in tutta la sua dimensione possente, la piramide erbosa del Porezen.

Proprio perché spoglio, spicca, nello sfondo grigio piombo del cielo, la sagoma nera e storta del monumento. Sembra un totem piegato dal tempo.

Accidenti, la cima sembra ancora molto distante! Troppo. So bene che dalla base ci sono ancora 300 metri di dislivello da superare…

Fisicamente sento che “ho già dato”. La salita mi ha bruciato le energie. Un vento freddo, inoltre, non promette nulla di buono.  Indosso la maglia di pile, anche così“surriscaldato”…Penso - per un istante - di tornare indietro, perché ora non solo mi attende il tratto più duro del percorso ma, visto il tempo, ho la possibilità di beccarmi un gelido acquazzone. Sul Paularo, anni fa, mi sono bagnato e ghiacciato fin nelle budella…

Decido di rischiare… un’accidentata discesa fa perdere nuovamente dislivello. Arrivo all’ennesima spalla. L’indicazione traditrice “Rifugio Partigiano” ad un bivio , in prossimità di una casetta dai tetti spioventi, mi spinge a destra, verso il bosco, dove mi impesto su un sentiero impossibile. Ritorno sui miei passi e riguadagno quota. Nonostante gli integratori, sono ormai come una vecchia macchina “nel rosso della riserva”. Mi arrampico ancora .

Vedo, così, ciò che ciclisticamente non avrei mai voluto vedere: la carraia si alza con una rampa “impossibile”.Mi arrendo. A malincuore scendo dalla bici e incomincio a spingere. Valuto, però, che è veramente bravo chi ce la fa a pedalare su un terreno sconnesso e così pendente!

La strada ex militare disegna un nastro bianco che risalta nello sfondo ocra scuro del versante settentrionale del monte. Ora l’inclinazione diminuisce, anche se è difficile stare in sella a causa del fondo rovinato. Dopo un po’, però, riprendo a pedalare, grazie al vento freddo che ha un effetto benefico e tonificante su un “uomo del Nord” come me. Incontro una giovane famiglia. Sono in tre, fermi. La mamma affettuosamente sistema il cappuccio di un bel giaccone “tecnico”al suo bambino, che mi indica  offrendomi un luminoso sorriso.

 Il paesaggio è quasi invernale. Ad una curva un grosso banco di neve, mi costringe a scendere. Sono ormai vicinissimo al rifugio (una delle ex fortificazioni italiane), semi nascosto da un gigantesco cumulo di coltre bianca.

Il freddo è sempre “intenso”. Lascio la bici e in pochi minuti raggiungo la vetta a 1630 metri. Sono le 13.30. Da lì lo sguardo corre libero nell’infinito, fino a confondersi con la cappa grigia del maltempo che si avvicina minaccioso.

La stele, scura e spoglia, si alza, non distante da un bunker, proprio là sotto. Mi raccolgo in meditazione. Penso alla guerra: tanti sono morti, tutti erano convinti di essere nel giusto.

 Solo alcuni però sono ricordati. Il bene o il vero hanno un colore?

 Dico un “eterno riposo” per tutti.

Poi giù a rifarmi milleduecento metri di dislivello.

 
 
 
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