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CALZE DI SETA VESTONO LA STRADA IN ASPROMONTE, ALLA FERMATA DEL BUS (tratto dal capitolo: Il marito di Eleonora)


Per rispondere agli interrogativi del nostro fedele ed appassionato lettore occorre risalire a qualche mese prima e più precisamente all’ ottobre del 1938. La strada s’inerpicava allargandosi e restringendosi attorno alla montagna. Sul margine era cinta da un muretto alzato, pietra su pietra, con l’ausilio di muli, talvolta recalcitranti, ma in paziente teoria dalla cava, bassa alla destra del torrente, al ciglio del burrone che faceva paura persino a provetti montanari. Nato contadino, Turi si era adattato a quel lavoro provvidenziale, ma se la passava più con le bestie che con gli uomini. Mangiava, riposava con esse e le conosceva a tal punto che sapeva quali bendare affinché affrontassero il sentiero impervio, senza impuntarsi ad ogni curva o nei tratti, brevi ma insidiosi, in leggera discesa. Lungo il percorso, in una rientranza naturale aveva costruito un muretto più alto e un lungo sedile della stessa pietra di color antracite, e con tutta la sua compagnia vi trovava rifugio nell’arroventarsi della calura o durante persistenti temporali. Proprio lì vi era seduta una ragazza, del tutto ignara circa l’artefice di quel sito e dei vissuti di successivi viandanti, ma che andava consumando un rito inconsueto. Con una pezzuola si puliva i piedi e poi infilava delle calze di seta con cui plasmava, alla stregua di un eccelso scultore, piedi affusolati e lievemente tondeggianti, caviglie strette e assottigliate verso lunghissime gambe magre. Poi,  superati ginocchi piccoli e aguzzi, fasciava morbide e sinuose curve materne. Nel frattempo, sopraggiunse la corriera. Per l’azione improvvisa sul pedale del freno, si fermò con uno stridore assordante e dentro una nuvola di gas, sospinta dal tubo di scappamento. Eleonora con fare lesto salì dallo sportello anteriore, mise il fagotto sulla reticella e andò a sistemarsi proprio sul primo sedile. Ancora non v’erano passeggeri sul mezzo, appena partito da un piccolo paese dell’Aspromonte. “Dove andate signorina?”“Che v’importa dove vado?”“Ma io devo farvi il biglietto e se non so la destinazione come faccio a farlo?”Eleonora scoppiò in una fragorosa risata.“Scusate, avevo capito male. A Villa vado, a Villa San Giovanni.”La corriera, nella sua folle corsa lungo la strada dissestata, continuava a sussultare. Eleonora sballottata di qua e di là svelava le intime suggestioni dell’autista che, ormai privo di qualsiasi ritegno, voltava continuamente  la testa per guardare.A causa di una buca più profonda la corriera sobbalzò ed Eleonora, quasi assopita, andò a sbattere la schiena contro il sedile, impennò  le  gambe   come quelle di un cavallo di razza, mandò un urlo, si alzò infuriata e all’uomo lì incantato,  gridò: “Pezzo di scimunitu stai attento alla strada, non hai mai visto.. niente?..  bene! Hai modo di guardare però quando siamo fermi.”.Egli si fece rosso rosso, però non rinunciò del tutto a sbirciare. E lanciava occhiate oblique se riteneva che la ragazza splendida dalle gambe meravigliose non lo stesse controllando. La corriera attraversò parte dell’Aspromonte e dopo circa due ore arrivò a Villa San Giovanni.Eleonora scese e, all’autista, invano proteso nel tentativo di trattenerla, gridò: “Guarda sempre avanti, quando guidi, scimunitu, se no, qualche volta ti romperai la testa”.