Creato da robymagli23mr il 24/02/2009

A TE

che hai reso la mia vita bella da morire, che riesci a render la fatica un immenso piacere

 

 

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Ulisse (la Divina Commedia.....)

Post n°16 pubblicato il 16 Marzo 2009 da robymagli23mr

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,

pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: "Quando


Senti? Lui ha messo... questo si chiama, come tutti sapete, l’enjambement, quando finisce un verso e la frase non è compiuta e ricomincia a metà dall’altro. E in questo canto deborda. E’ come se ci fosse un’alluvione, come se volesse sapere talmente tanto che il canto... mentre lo si recita o lo si legge, è impossibile rimanere fermi. Si corre come un treno che accelera, per arrivare alla fine di Ulisse, che è la fine di tutti noi, che è la fine... Quando dice che non voleva restare con Penelope, con suo padre e sua madre, ma voleva conoscere il valore e i vizi umani:

ma misi me per l’alto mare aperto

Non dice “mi misi”, ma dice “misi me”. Sentite la forza. Basta cambiare una lettera! S’immagina come se stesso gigantesco, lo spirito dell’uomo che si prende e si mette: “Devi sta’ qua!” E’ una cosa... sembra proprio l’uomo che diventa Dio e gli dice: “Questo è il tuo cammino, sei la cosa più... sei Dio”. Ecco, in un’immagine...

Sapete che rileggendo - stavo facendo il film “La vita è bella” e ho letto e riletto Primo Levi - Se questo è un uomo, e mi sono meravigliato, che non solo lui, ma anche un grande poeta russo, Mandel’stam, quando era nei campi di lavoro in Siberia, nello stesso momento entrambi, nel luogo più basso dove l’uomo era arrivato, i campi di sterminio - ci sarà una cosa più bassa? - che hanno preso il posto dell’Inferno di Dante nella nostra immaginazione, in quel momento entrambi hanno pensato... Uno ha scritto un saggio critico sull’Ulisse, e Primo Levi cercava di spiegarlo a un cuoco, praticamente a un lavapiatti del campo di sterminio il canto dell’Ulisse. Proprio perché sentivano che loro erano quello, non erano solo quello che vedevano lì.
L’uomo, l’umanità, non è solo quello, ma è anche questo. Come nel cinema. Avete visto nel racconto, quando alla fine si arriva... c’è un giallo, non si capisce cosa è accaduto e improvvisamente parte la dissolvenza e dice: “Quella sera mi trovavo lì”. Si vede il protagonista che si muove e ci fa vedere esattamente quello che è accaduto. E’ una goduria! E così fa Dante. Ma se lo inventa, così come è. Nessuno lo sa, però lui ce lo fa sembrare vero. Perché ciò che è bello diventa vero! La grandezza di Dante è che in cento canti non viene mai meno l’intensità. Non ho mai letto niente, nemmeno Shakespeare - cioè qualche volta, forse nel Macbeth - c’è un’intensità dall’inizio alla fine così potente come c’è Dante. Ma in Dante, in ogni verso, in ogni canto, c’è un’intensità che non viene mai meno. E’ un libro che si volta pagina e si applaude. Ci sono delle pagine che uno da sé solo comincia ad applaudire. Non si capisce.... Io mi son trovato in camera a dire “Bravo!” così, al libro. Poi mi son guardato intorno: “Ecco, ora se veniva sant’Agostino vedeva l’urlata, vero... invece di leggere a bassa voce”. L’influenza dantesca si sente, ma non solo in Europa, si sente negli americani. Moby Dick, se voi pensate a Moby Dick, Melville, che è la centralità della letteratura americana, come fa Melville a non aver letto l’Ulisse? Infatti l’aveva letto Melville nella traduzione del Longfellow che è quella classica americana, che tutti sappiamo che era spettacolare. Un po’ barocca, però strepitosa. E quando in Moby Dick muore il capitano Achab è uguale al finale dell’Ulisse di Dante.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,

poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".


Senti, senti che bellezza! Con Dante è facile piglia’ gli applausi! Non ci si può neanche scherzare perché Dante alla fine prende la mano e diventa tutto lui. Nella figura d’Ulisse ci ha messo quest’immagine meravigliosa dell’uomo che va alla ricerca del valore di cos’è l’umanità. E sfida Dio. Che rivede un po’ se stesso perché Dante sta giudicando proprio tutti i suoi contemporanei, quindi anche lui sta sfidando Dio. E c’è questo lungo monologo di Ulisse in cui Dante si scancella e parte questa sfida. E se me lo ricordo bene, può darsi che io mi fermi, che ci fermiamo un po’, io ve lo recito. Siamo nell’ottava bolgia, appunto, e ci sono tutte le fiamme che vengono su e Dante chiede chi sono. Beh, ora a dirvi tutto il canto ci vuole un’ora, ve lo faccio.


Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,

3 e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,

6 e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,

9 di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!

12 ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avean fatto iborni a scender pria,

15 rimontò ’l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio

18 lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,

21 e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa

24 m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara

27 la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,

30 forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

33 tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,

36 quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,

39 sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,

42 e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,

45 caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;

48 catun si fascia di quel ch’elli è inceso".
"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso

51 che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira

54 dov’Eteòcle col fratel fu miso?".
Rispuose a me: "Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme

57 a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta

60 onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,

63 e del Palladio pena vi si porta".
"S’ei posson dentro da quelle faville
parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego

66 e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;

69 vedi che del disio ver’ lei mi piego!".
Ed elli a me: "La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;

72 ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,

75 perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto".
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,

78 in questa forma lui parlare audivi:
"O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,

81 s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica

84 dove, per lui, perduto a morir gissi".
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,

87 pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,

90 gittò voce di fuori, e disse: "Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,

93 prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore

96 lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

99 e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna

102 picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

105 e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta

108 dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,

111 da l’altra già m’avea lasciata Setta.
"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,

114 a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,

117 di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,

120 ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,

123 che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,

126 sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,

129 che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,

132 poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto

135 quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque

138 e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso

141 e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

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Commenti al Post:
martypucci_2008
martypucci_2008 il 16/03/09 alle 16:04 via WEB
dante è sempre dante.,...huhu baci
 
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DELIOS 300

Ricorda chi eravamo". L'ordine più semplice che un re possa dare. "Ricorda perché siamo morti". Lui non desiderava tributi, o canzoni, o monumenti, o poemi di guerra e coraggio. Il suo desiderio era semplice: "ricorda chi eravamo", così mi ha detto. Era la sua speranza, se un anima libera dovesse arrivare in questo luogo, negli innumerevoli secoli di là da venire, possano tutte le nostre voci sussurrarti dalle pietre senza età, "va' a dire agli spartani, viandante, che qui, secondo la legge di Sparta, noi giacciamo". E così il mio re è morto. E i miei fratelli sono morti. Appena un anno fa. A lungo ho pensato alle parole del mio re, criptiche parole di vittoria. Il tempo gli ha dato ragione, perché da greco libero a greco libero si è tramandata la notizia che il prode Leonida e i suoi 300 soldati, così lontani da casa, hanno dato la vita, non solo per Sparta, ma per tutta la Grecia e per la speranza difesa da questa nazione. Ora, qui su questo aspro frammento di terra chiamato Platea, le orde di Serse affrontano la loro disfatta! Lì davanti i barbari si raccolgono, è nero il terrore che afferra saldo i loro cuori, con dita di ghiaccio; conoscono molto bene gli impietosi orrori che hanno sofferto per le lance e le spade dei 300 spartani, e ora fissano lo sguardo su questa pianura dove ci sono 10.000 Spartani alla testa di 30.000 liberi Greci!Le forze del nemico ci superano di sole 3 volte! Buon segno per tutti i Greci. Quest'oggi noi riscattiamo il mondo dal misticismo e dalla tirannia e lo accompagniamo in un futuro più radioso di quanto si possa immaginare. Dite grazie soldati, a Re Leonida e ai prodi 300! Alla vittoria! !!!!

 

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