Creato da: 1carinodolce il 08/06/2008
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Alessandro D'Avenia

Post n°515 pubblicato il 28 Dicembre 2010 da 1carinodolce

La provocazione di una ragazza, una sfida per tutti
 
Vogliamo toccare la gioia
Le parole si facciano carne 

 


«Non tocco mai la gioia». Così dice una ragazza triste in un film girato da un gruppo di liceali. Queste parole costituiscono una sfida, perché manifestano il bisogno di una cultura intera. Tutti cerchiamo la gioia. È la ricerca che accomuna buoni e cattivi: chi è buono, è buono per essere felice; chi è cattivo non lo sarebbe, se non sperasse di potere, con ciò, essere felice.
  
Questa ragazza vuole la gioia, fin qui niente di nuovo. Ma la chiede attraverso il senso più basilare che abbiamo: il tatto. Non i sensi nobili e collegati più direttamente all’intelligenza: la vista e l’udito. No, lei vuole «toccare» la gioia. Vuole che la felicità sia comprensibile alle dita, alla pelle.

 

Questa generazione, nutrita di virtuale, chiede in modo ancora più forte che la salvezza diventi tattile:

«L’uomo ha bisogno di vedere e di fare sì che questo tale vedere divenga toccare.
 
Egli deve salire la "scala" del corpo, per trovare su di essa la strada alla quale la fede lo invita» (J. Ratzinger).

Ma la gioia non raggiunge il tatto perché spesso chi ha la gioia (condizione necessaria ma non sufficiente) e vorrebbe trasmetterla ci prova a parole.

Ma le parole non bastano più.

 

Quanti maestri scoraggiati di fronte a ragazzi disinteressati alle loro parole, quanti sacerdoti sfiancati dall’apatia dei ragazzi alle loro parole, quanti genitori pieni di fede rattristati dalla perdita di essa nei loro figli nonostante le tante parole... Non con i discorsi si raggiunge oggi la vita delle persone, ma solo con la vita che si mette in gioco in prima persona, nella carne, nel corpo.
 
La gioia, oggi, è chiamata a rendersi percepibile, non all’ascolto, non alla vista. Non basta più. Deve camminare per le strade del mondo, farsi permeabile al tatto, si deve poter toccare: al supermercato, in aula, in cucina, sul campo di calcio. I ragazzi vogliono toccarla, ma la realtà li delude. Lo sapeva bene un grande cercatore della gioia:
«Al solo sentirla nominare tutti si drizzano e ti guardano nelle mani, per vedere se mai tu sia in grado di dare qualcosa al loro bisogno!» (Agostino). Non c’è risposta più assurda che quella data a una domanda non posta.
In realtà, la domanda c’è e c’è anche la risposta, almeno questo pretende il cristiano, tanto che qualcuno invitava a «dare ragione della speranza che è in voi».

 

........

 

 
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Commenti al Post:
Paideia76
Paideia76 il 28/12/10 alle 23:38 via WEB
Amare l'Altro vuol dire Amarlo in modo incondizionato...certo..senza condizioni..senza dipendenza...senza egoismo...ossessione. Chi si totalizza nell'Altro ha davvero una bassa - se non nulla - autostima: non ha sicurezza nelle proprie capacità, la sua identità risulta fragile...e deve completarsi nell'Altro perchè - da solo - non si sente completo...ma perchè??Cosa significa Amare per qualcuno? Possedere...Totalizzare....Manipolare...Monopolizzare...Noo, questo non è il vero significato dell'Amore. Amare è rispettare e rispettarsi, essere felice dei progressi del tuo compagno ( o della tua compagna), senza invidie, essere felici per la sua felicità..rispettare la sua identità, ma vuol dire anche rispettare i suoi sentimenti, i suoi stati d'animo, i suoi pensieri e - soprattutto - i suoi spazi. Chi dice "Non posso vivere senza di Te??" oppure "Senza di Te non sono niente e nessuno" o ancora "Se mi lascia sono una persona finita"..vuol dire non credere in se stessi, avere poca stima di sè..questo non è Amore..AMORE E' FIDUCIA RECIPROCA, UNO SGUARDO CHE BASTA DA SOLO PER RACCONTARSI UN'INFINITA', AMORE E' VIVERE IL SILENZIO CON SERENITA'E NON CON PREOCCUPAZIONE, AMORE E' ASCOLTO..E' GIOIRE DEI SUCCESSI INSIEME...E CONDIVIDERE LA TRISTEZZA...EMPATICAMENTE PARLANDO..AMORE...E' QUALCOSA DI INFINITO CHE FORSE E' DAVVERO DIFFICILE DA VIVERE...soprattutto nella società contemporanea in cui domina egoismo, consumismo..il volere "tutto e subito"..e in cui lo spirito di sacrificio e il dialogo sono mai in estinzione...ma questo è un altro discorso. Grazie Giuseppe per il tuo post...dettagliato...favorisce la riflessione ;)) Paideia 76
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Paideia76
Paideia76 il 30/12/10 alle 20:32 via WEB
VORREI SOTTOLINEARE L'ULTIMA PARE DEL TUO POST CHE CONDIVIDO PIENAMENTE.."Ricostruendo la propria identità, autostima, imparando ad essere UNO senza aggrapparsi, riempiendo la propria esistenza di se stessi, con l’amore e la cura di sé. Soddisfacendo i propri bisogni, prendendosi la responsabilità di accudirsi, diventando genitori buoni di se stessi. La creatività è la strada che porta ad esprimere ciò che siamo. Crearsi una vita piena di cose per noi stessi, i cui possiamo occuparci e rispondere in prima persona è un terapia quotidiana di cui prendersi carico. E’ un cammino lungo con frequenti ricadute e giornate buie, ma piano piano è possibile imparare a contenersi, a prendersi cura di quel bambino nascosto dentro. Solo così potremo avvicinarci all’altro e non aggrapparci, trascinandolo in un abbraccio soffocante in discesa verso gli inferi. Si può imparare a stare bene con se stessi, sentirsi completi, esseri armoniosi e creativi, amandosi ed accettandosi pienamente per ciò che si è e si può. Nasciamo soli, moriamo soli , a volte ci incontriamo con l’altro, ma poi dobbiamo essere in grado di tornare soli, occorre imparare ad amare questa condizione e farne una ricchezza, per questa avventura affascinante che è il viaggio nella conoscenza di sé. E’ da qui, solo da qui che possiamo davvero incontrare amare ed includere l’altro". TI ABBRACCIO FORTISSIMO ;))
(Rispondi)
 
virgola_df
virgola_df il 01/01/11 alle 18:25 via WEB
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per uno splendido 2011!
Un abbraccio immenso.
virgola
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1carinodolce
1carinodolce il 04/01/11 alle 14:56 via WEB
http://www.youtube.com/watch?v=395Bgb1vdjU
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Joes63
Joes63 il 02/01/11 alle 07:16 via WEB
"Empatia", secondo la definizione iniziale di Edith Stein, designa "una genere di atti, nei quali si coglie l'esperienza vissuta altrui". Usa inoltre questo concetto per determinati atti percettivi particolarmente in relazione ad altre persone. Mediante l'empatia percepisco l'altra persona nel suo valore peculiare e con il mondo di valori che essa si è fatto proprio. Ma questo ha anche come conseguenza una retroazione su di me: empatizzando nell'altro, si costituisce in me, soggetto empatizzante, un nuovo Io. "Ogni coglimento di altre persone diverse", secondo Edith, "può divenire fondamento di una comparazione di valore"; l'essere umano, che è stato percepito nell'empatia ­ nel suo valore e con i suoi valori ­ ci chiarisce "quello che noi siamo in più o in meno degli altri". Allora, "empatizzando, noi ci imbattiamo in campi di valori a noi preclusi, ci rendiamo coscienti di un proprio difetto o disvalore"; in questo modo, nella comprensione dell'altro, può giungere a sviluppo, "quanto in noi 'sonnecchia'" .Anche­ Giovanni della Croce , ha, forse, voluto significare la stessa esperienza quando ha scritto: "L'amore rende simili l'amante e l'amato". Buona giornata e buon anno Joes. P.S. Complimenti per il post è veramente stimolante.
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Da_1a_100
Da_1a_100 il 02/01/11 alle 07:38 via WEB
Contro i Down non solo un ignobile gioco «Scoperti» e «cancellati» Ben oltre il folle di Facebook Il 'gioco' ignobile del tiro al bersaglio sui Down, spuntato su Facebook nei giorni scorsi, è sparito dalla Rete in poche ore: a furor di popolo, nell’onda di una indignazione generale. La forza di questa sollevazione rassicura: siamo ancora in un mondo umano, verrebbe da dire, se a una simile ripugnante caccia al diverso ci ribelliamo. Possiamo magari, e legittimamente, prendercela con la incontrollabilità dei social network, o con la globalizzazione che ha fatto crollare le frontiere e reso impotenti i codici penali. Certi, però, che quel 'gioco' su Facebook è opera solo di un pazzo, o di un idiota. Che la sua logica («I Down sono solo un peso... come eliminarli civilmente?») è del tutto estranea alla gente normale. E, certamente, è così. Tuttavia, nel leggere questa storia, ci torna in mente una ricerca pubblicata dal British Medical Journal tre mesi fa, sull’incidenza della sindrome di Down in Gran Bretagna (ne riferiamo a pagina 7). Dove si spiega come l’aumento dell’età media delle madri negli ultimi dieci anni abbia portato a un incremento molto forte della sindrome; compensato, però, dal progresso degli screening prenatali, sempre più estesi, così che il 70% dei bambini Down viene individuato prima della nascita. Una diagnosi? No, una sentenza capitale: il 92 % delle donne raggiunte dal responso abortisce. D etect è il verbo usato dalla dottoressa Morris, della Queen Mary University di Lontra, per indicare l’individuazione dei bambini Down. I «detected babies» ben raramente vengono al mondo. «Detected» – in italiano individuati, scoperti. E cancellati, 92 su 100. Questo è il British Medical Journal.
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Da_1a_100
Da_1a_100 il 02/01/11 alle 07:39 via WEB
Come dice invece quel pazzo su Facebook? («I Down sono solo un peso… come eliminarli civilmente?»). Dove la differenza è nel tempo, in un 'prima' e in un 'dopo', tra il feto – nella mentalità corrente, un nulla – e il bambino; ma non è nella sostanza delle cose. Quelli lì, non sono desiderati. E se umanamente l’angoscia di una madre di fronte a un figlio handicappato è comprensibile, resta evidente che tutti o quasi, attorno, le dicono o le fanno capire che no, non bisogna avere un figlio così. Così semplice, così indifeso. Così bambino per sempre. La stessa Morris, intervistata da un quotidiano inglese, si è rallegrata dell’affinamento dei test prenatali. Che riconoscono, nel buio del ventre, i figli 'sbagliati'. Chiamandoli al loro breve destino. Allora il delirio di un vigliacco che, nascosto dietro a un soprannome, ha enunciato sulla Rete il suo 'gioco' abietto, non sarà come il materializzarsi di un sottopensiero inconscio, indicibile, che però esiste, almeno quando si tratti di nascituri - di non ancora nati, e dunque secondo alcuni di non­uomini? (In quella frontiera del 'prima' e del 'dopo' stabilita a ferrea barriera, per difenderci da dubbi e inquietudini).
(Rispondi)
 
Da_1a_100
Da_1a_100 il 02/01/11 alle 07:41 via WEB
Non sarà, quel gioco di vergogna, come il lazzo di un ubriaco, che però riecheggia qualcosa che in qualche modo si è ascoltato dai sobri? («Eliminandoli civilmente»). I «detected babies» non nascono. Scovati. Presi. E 'civilmente' respinti. Ma il 30 % sfugge ai controlli. La dottoressa Morris lamenta che c’è uno zoccolo duro di donne, che non accetta lo screening. Che non si sottopone a un esame che è già quasi verdetto. Che si tiene quel bambino, comunque: già figlio, e non clandestino. E questo zoccolo duro di madri ribelli, meraviglia. Forse più questo, che il rigurgito su Facebook di un ubriaco: che si lascia andare, nella sua ubriachezza nella impunità della Rete, a un vergognoso, ben occultato pensiero. Marina Corradi
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eva.dalsasso
eva.dalsasso il 02/01/11 alle 09:13 via WEB
Ciao,bel post approfondito;io credo che alla base di qualunque relazione non si possa non partire dall'amore per se stessi.E' solo amando-si,rispettando-si,stimando-si che si può amare,rispettare e stimare l'altro.
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 04/01/11 alle 01:32 via WEB
La strage di Alessandria d’Egitto gonfia il fiume di sangue alimentato dall’odio contro i cristiani nell’anno appena trascorso. Segnando l’inizio del 2011 con lo stesso, implacabile cinismo di un tiro al bersaglio condotto sotto gli occhi distratti e indifferenti dei grandi del mondo. Colpi veri, confusi coi milioni di falsi che nelle stesse ore salutavano l’arrivo del nuovo anno, quasi ad aumentare la distanza tra la realtà di una tragedia che pare ormai infinita e la finzione di chi si ostina a non vedere. Troppi brindano all’anno che viene senza far caso alle macchioline di sangue schizzate anche sui loro bicchieri. Che sia un anno felice. Non lo sarà per tutti.
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1carinodolce
1carinodolce il 04/01/11 alle 15:08 via WEB
Molte notizie che anche oggi troviamo sui giornali farebbero salire parole dure dal cuore. Ma come c’è la durezza della pena, c’è anche la durezza della gioia. La resistenza, la forza della gratitudine. Quella che proviamo per cose che magari sui giornali non ci finiscono. La gratitudine per le cose da niente che costellano la nostra vita. Per il respiro che ancora ci viene accordato, e il riso e anche per il pianto con cui conosciamo il dolore e l’amore. Le cose che non fanno notizia, come il sorriso di un figlio, l’occhiata della persona che amiamo, il suo voltarsi quando la salutiamo. Quelle cose da niente che non fanno notizia, ma che ci suggeriscono una gratitudine invincibile. E noi vogliamo scegliere di rendere grazie per queste cose da niente. Per la fede dei semplici, papi nel fulgore del loro ministero o ammalati nella penombra della loro offerta. Vogliamo ringraziare per tutte le madri che, camminando lavorando soffrendo, non perdono la speranza. E custodiscono l’amore. Per tutti quelli che non fanno notizia e fanno andare il mondo, mettendo cura e pazienza in lavori senza onori apparenti. Gratitudine per la bellezza spaventosa e dolce di questo posto chiamato Italia, edificato dal genio, dalla fede e dalla operosità dei nostri padri, sotto i cui cieli abitiamo e vediamo panorami per cui vale la pena essere venuti al mondo. Il nostro cuore decide di ringraziare, in questa fine d’anno. Per le cose che ci hanno corretto. Per quelle che, pure facendoci soffrire, ci hanno legato di più a ciò che vale. E ringraziare per le cose da niente, i 'buongiorno' scambiati per le scale, i 'se hai bisogno di una mano, ci sono' che ci hanno detto anche con gesti silenziosi. Vogliamo rendere grazie per la benedizione dei bambini nostri e per quelli degli altri. Per i loro visi dove tutto reinizia. E per la pazienza dei nostri anziani, che onorano il tempo senza sentirlo come una ingiustizia, ma come un chiarimento. Vogliamo ringraziare per la pazienza preziosissima dei sofferenti nel corpo, nella mente. Per chi è restato senza lavoro, ma non senza dignità. Per le cose che non fanno mai notizia, come la cura e l’amicizia offerta da tanti a chi è solo. Per il mare di bene che con onde silenziose sostiene il nostro viaggio. ___ Davide Rondoni
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 05/01/11 alle 11:28 via WEB
I musulmani uccidono e nessuno dice nulla!!!!
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Sara_Caruso
Sara_Caruso il 05/01/11 alle 21:00 via WEB
posso copiare questa seconda parte? E' costruttiva!
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amuchina7
amuchina7 il 05/01/11 alle 22:02 via WEB
uhmmmm...x questi lettori sembra facile la risposta...ma amare e difficile!!e complesso a volte...credo che certi valori stanno esaurendosi e con essi la cosa piu importante "L'AMORE vero"x tutto-->e se mi sbaglio mi rimangio tutto credimi...ma io ci ho messo tanto ma l'ho capito tutti depressi x l'amore e poi...basta trovarlo da chi lo mette in vendita!!to be continued....
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ape_furibonda
ape_furibonda il 07/01/11 alle 11:39 via WEB
la prima cosa: ci sono due tipi di amore. L’”amore-bisogno” e l’”amore-dono”. La distinzione è significativa e deve essere compresa. L’ ”amore-bisogno” o l’ ”amore-carenza” dipende dall’altro, è amore immaturo. Tu usi l’altro, lo usi come un mezzo: sfrutti, manipoli, domini. In questo modo l’altro è reso succube, viene praticamente distrutto; L’uomo matura nel momento in cui comincia ad amare piuttosto che ad avere bisogno. Comincia a traboccare a condividere, comincia a donare. La differenza è fondamentale. Una persona matura dà. Solo una persona matura può dare, perché solo una persona matura può avere. In questo caso l’amore non è dipendente, e tu puoi amare che l’altro ci sia o no. In questo caso l’amore non è una relazione, è uno stato dell’essere. Ebbene questo è il paradosso: coloro che si innamorano non hanno amore, ecco perché si innamorano. E poiché non hanno amore, non possono darne. E ancora una cosa: una persona immatura si innamora sempre di un’altra persona immatura, perché parlano la stessa lingua. Una persona matura ama una persona matura. Una persona immatura ama una persona immatura. Puoi continuare a cambiare marito o moglie mille volte, troverai di nuovo lo stesso tipo di persona e la stessa miseria ripetuta in forme diverse; ma la stessa miseria ripetuta è praticamente la stessa cosa. Il problema di base nell’amore è che prima devi diventare maturo, allora troverai un partner maturo: le persone immature non ti attireranno affatto. Le persone immature che cadono in amore distruggono a vicenda la propria libertà, creano un legame, una prigione. Le persone mature in amore si aiutano a essere libere, si aiutano l’un l’altra a distruggere ogni tipo di legame. E quando l’amore fluisce nella libertà c’è bellezza. Quando l’amore fluisce nella dipendenza c’è bruttezza. Ricorda, la libertà è un valore più alto dell’amore. Quindi se l’amore distrugge la libertà, non ha alcun valore. L’amore può essere lasciato cadere, la libertà deve essere salvata: è un valore più elevato. E senza libertà non potrai mai essere felice, non è possibile. Libertà è il desiderio intrinseco di ogni uomo, di ogni donna: libertà totale, assoluta. Ecco perché si inizia ad odiare tutto ciò che è distruttivo nei confronti della libertà. Non odi forse l’uomo che ami? Non odi la donna che ami? Tu odii fatalmente. E’ un male necessario, devi tollerarlo. Poiché non sei in grado di stare da solo devi riuscire a stare con qualcuno e devi adeguarti alle richieste dell’altro. Devi tollerare, devi sopportare….
(Rispondi)
 
myotherworld
myotherworld il 23/01/11 alle 14:09 via WEB
Articolo esempio, guida, ispirazione... La teoria già la conoscevo ma la pratica è tutta un'altra storia!!! :-)
(Rispondi)
 
cris.cambs
cris.cambs il 27/01/11 alle 22:06 via WEB
Interessante davvero. Tornerò a rileggerti. Poi, ciascuno fa come può con gli strumenti che a disposizione. Vale la pena provare! Complimenti! Cristina
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1carinodolce
1carinodolce il 09/02/11 alle 01:47 via WEB
I nostri figli non nati Cinque milioni di pensieri In questa Italia dove ogni giorno si tumultua e ci si affanna e si grida, e reciprocamente ci si rinfaccia ciò che si è fatto e ciò che si è sbagliato, può sembrare strano parlare di ciò che “non” è stato. Ciò che non è stato mai, perché non è nato. Scorrendo le statistiche ministeriali, vedi che dal 1978 a oggi ci sono stati in Italia cinque milioni di aborti. Perfettamente legali, certo. Ma anche chi sostiene il diritto all’aborto potrebbe fermarsi un momento, in questa domenica di quasi acerba primavera, di fronte a un pensiero: cinque milioni di figli che mancano, cinque milioni, che non sono nati. Legale l’aborto, ma quasi clandestino il pensiero di quei bambini negati. Non se ne parla, ed è giudicato sconveniente ricordarlo, dalle tribune mediatiche che contano. Come fossero cinque milioni di storie private, che nessun altro riguardano se non quelle singole donne; e al massimo le loro malinconie, tanti anni dopo; malinconie di cui però non si usa parlare. E invece per una volta, oggi che i cattolici italiani celebrano la Giornata per la vita, tra tanti pubblici rumori e clamori, vorremmo immaginare un lungo condiviso attimo di silenzio; e che si possa per un momento restare zitti, nel rimpianto di quei figli che avremmo, e non abbiamo. Chi erano, e che facce avrebbero avuto? Erano i compagni che i nostri bambini non hanno conosciuto; quelli con cui non hanno giocato a pallone; quelli che mancavano, nei banchi vuoti delle aule di paesi spopolati. Erano quello di cui nostra figlia si sarebbe innamorata; o la ragazza che un giorno ci avrebbe resi nonni. Erano, sarebbero stati. Il principio scoccato, il tessuto in fieri, e ogni cellula programmata. Ma non previsti, o attesi, o desiderati. Tantissime ragioni, e spesso umanamente comprensibili. Eppure quante di quelle madri hanno ancora addosso quel giorno, tagliente come uno strappo alla propria intima natura. Non sono stati; sospinti indietro, clandestini, invisibili ombre cancellate. Si può almeno averne memoria, e dare voce a un rimpianto che molte conservano gelosamente per sé? Quante, vedendo una folla di ragazzi all’uscita da scuola una mattina, sono attraversate da un sottile doloroso pensiero: avrebbe la stessa età, “lui”. Ma poiché i figli non sono solo figli nostri, quel rimpianto dovrebbe essere collettivo. Quei bambini ci mancano. I primi di loro avrebbero trent’anni ormai. Li immaginate? Oggi magari sarebbero in piazza a gridare contro il governo, oppure a favore; oppure a immaginare un’altra Italia. Sarebbero energie e desideri, e voci nei nostri cortili vuoti; sarebbero nelle scuole a studiare, nelle università a far ricerca, a insegnare. Chi c’era poi, in mezzo agli altri, in quella folla di clandestini respinta? Forse il centravanti che avrebbe fatto impazzire gli stadi; o la splendida voce che ci avrebbe incantati. E quali libri non leggeremo mai, non scritti dai nostri figli non avuti? Fra di loro, non pochi il cui destino è stato decretato dalle analisi: anormali, malati. Inutili. Come Hawkings magari, il fisico in carrozzella? Che cosa è stato buttato via per una diagnosi, e quali doni portavano con sé i figli scartati? Certo, come testimonia chi invece quei figli li ha avuti, la capacità di insegnare ad amare. Milioni di storie diverse. Madri sole, o senza un soldo, o padri inesistenti; o benpensanti famiglie, che non avrebbero tollerato; oppure posti di lavoro a rischio, o carriere che non potevano aspettare. Cinque milioni di storie private si coagulano in questo vuoto collettivo – e anche forse in uno slancio, in un coraggio che ci mancano. Perché ha più fiato, un Paese che pensa ai suoi figli; non si insterilisce nell’oggi, non trascura un futuro, che è il tempo di quei figli. Il silenzio che vorremmo oggi è ammissione, oltre il ben noto e affermato “diritto”, di un censurato dolore: per ciò che non è stato. Un silenzio che dica a chi ha vent’anni oggi che un figlio, voluto o no, è più umano abbracciarlo; e non è questione di codici, ma di una legge più forte, più grande – come scritta addosso. Marina Corradi
(Rispondi)
 
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