Le esperienze
(05 luglio 2006)
Senza lamenti incontro alla vita
L’educazione alla fede quando i figli sono piccoli.
Il poeta Rondoni:
la mattina canto insieme ai miei bambini.
Perché il cristianesimo è allegria.
Come trasmetto la fede ai miei figli? Accidenti che domanda. Sicuri che lo volete sapere? Io non so mica se lo so.
Cioè: la prima cosa che mi vien da dire è che non ci penso tanto a trasmetterla. Nel senso che non ho strategie particolari. Ma un paio di cose chiare.
Primo: la mattina si canta.
Ne ho quattro di figli.
E li accompagno a scuola tutti insieme o due a due, almeno le infrequenti mattine che sono a casa.
La mia vita, infatti, di poeta o non so cosa mi porta spesso randagio in varie parti del mondo e d’Italia.
Però quando io ci sono, alla mattina, un canto lo si fa insieme, scherzando e non scherzando nel tragitto. Mica canti alla Madonna, con tutto il rispetto. Ma canti degli alpini, o popolari della mia Romagna o canti che i bambini imparano a scuola o a catechismo.
Insomma, primo: si canta. Nulla è contro la fede quanto un mattino preso con tristezza o gravezza. O con lamento. Se si prende il mattino così, si prenderà la vita così. Sì, certo, alzarsi per andare a scuola o a lavorare non fa piacere a nessuno.
Ma dopo i primi attimi di stanchezza e di voglia di tornarsene nell’oblio del sonno, può e deve prevalere una apertura, un senso di viaggio, di avventura.
Di allegria. O come dicono i cristiani, di letizia. E la compagnia cantante è un aiuto a recuperar quella posizione. Sono canzoni-preghiera, dico loro.
Capita dunque che portando i piccoli in ciclomotore (sì lo ammetto, in questo sono un fuorilegge! Ma provate voi a far respirare in coda per delle mezzore ai bimbi lo smog dei viali che entrano ed escono in Bologna) si veda questa strana composizione cantante che sfreccia – si fa per dire…l’andatura è poco più che caracollante.
Se dunque il primo punto chiaro è cantare, il secondo è: "la fede è una vita, e una vita in comune". Ovvero non è la famiglia un perimetro chiuso in cui scoprire chi è Gesù o altro.
I miei piccoli ne devono e ne possono sentir parlare da altri, dai catechisti, certo, poi da amici che come noi vivono nel giro del movimento di Comunione e liberazione, o da altri ancora.
Insomma, la seconda cosa chiara è che la trasmissione della fede non è solo un insegnamento né solo un esempio. Ma una vita.
Che i miei figli vedano o sentano che a tavola con gli amici e con i loro figli che sono amici si parla di certe cose, o che i catechisti tocchino certe figure su cui anch’io o mia moglie abbiamo raccontato una storia, è essenziale.
Il resto sta nel buon senso di scegliere se possibile una scuola che non sia indifferente o peggio avversa al senso religioso della vita, nel rispondere alle domande che i bambini fanno su Dio, sulla morte, sulla vita.
Come quella di Battista, il terzogenito, che mi chiese se Dio aveva creato prima gli animali o la Ferrari. O si tratta di valorizzare con serietà e senza pesantezza gli spunti che hanno. Come quando Bartolomeo, il primogenito, con il quale si parla il più delle volte di calcio o di compiti o di cavolate, vedendo il titolo di una mia raccolta di poesie (“Avrebbe amato chiunque”) mi stupì dicendo: “Ma è Gesù!”. E io che non avevo pensato a riferire quel titolo a Gesù in particolare gli chiesi: “Perché dici così?”. E lui, micidiale e profondo: “Perché è come se fosse una domanda: chi avrebbe amato chiunque? E chi se non Gesù”.
Oltre alle “eccezioni” o ai gesti particolari, credo che, come in ogni trasmissione che coincide con un percorso educativo, siano importanti le ripetizioni, le fedeltà dei gesti. Come, in primis, quello della Messa la domenica. Che cerchiamo di fare insieme, quando non sono via, e che comunque non si salta. Idem il catechismo, a costo di rinunciare a qualche partita a pallone. Oggi vien facile accondiscendere alle manifestazioni di noia dei bambini. Lo si fa spesso da parte di adulti annoiati pure loro e dunque massimamente insofferenti a una noia in più. Ma la tenuta su certe fedeltà ai gesti conta più di mille discorsi o cose eccezionali. E nei gesti come la Messa, l’atteggiamento che si ha noi grandi è in un certo senso importante quanto le parole dell’omelia o della liturgia che loro a malapena comprendono. Ma comprendono se il babbo a un certo punto si inginocchia, che lì accade qualcosa di importante. E magari imitano, e imitando imparano.Non sono un pedagogo né ho mai fatto troppa attenzione agli esperti dell’infanzia. Né sono un cultore di strumenti educational o ad hoc per la trasmissione della fede (tipo film particolari, almeno per ora). Non penso né di essere permissivo né di essere oppressivo. E nemmeno mia moglie. Certo non mancano le “tozze” o gli scappellotti, e anche qualche “punizione” (tipo anticipo della “ritirata” o salto della partita a calcio). Ma si tratta di estremi rimedi. Il più delle volte si cacciano due urla. E poi si è di nuovo pronti a ridere e a stare insieme. Meglio arrabbiature brucianti e brevi che musoni lunghi, noiosi e recitati.
So che ogni mio figlio è uno. Che ciò che può essere indicato per Barti non lo è per la Carlotta, o per Clemens detto la pìgura (il quale è già diventato anche un personaggio di un mio romanzetto per ragazzi). Nell’atteggiamento che ho nei confronti di ognuno, e diversamente per ognuno, si gioca il dramma tremendo e fantastico della mia paternità. Cioè dell’aver io qualcosa che mi supera continuamente, e a cui devo rispondere; e dell’aver loro qualcosa da cui si sentono continuamente voluti e in qualche modo corretti, (recti cum) portati. So che per Bartolomeo, Carlotta, Battista e Clemente sono preparate vie che io non conosco e che non sono nelle mie mani. C’è da tremare nel buio per questo. E da pregare. Perché la mia preghiera per loro sarà utile per loro forse più dei soldi con cui li vesto o dei debiti che faccio per mantenerli.Io cerco di trasmettere a loro una fiducia nell’esistenza, e mia moglie fa lo stesso. Con temperamenti diversi (mia moglie di certo la mattina non canta, anzi… ma ha più pazienza di me) e con accenti diversi.
Però la cosa peggiore contro la fede è la disperazione o il cinismo. Ognuno di loro dovrà confermare in sé la fede ben oltre il nostro povero insegnamento e il mio smandrappato esempio. Anzi, potrebbero farlo anche in opposizione ai miei modi. Ma vorrei che non avessero mai un padre distante dalla vita, o lagnoso verso di essa. Che questo si mostri perché quando si gioca ci si dà dentro per davvero, o perché mi piace con loro andare a scoprire dei posti, o perché ci si inventano le canzoni o perché mi vedono preso in mille cose, e viaggiare, io lo spero. O perché domani leggeranno le mie poesie. Io lo spero. Di certo, non ho una ricetta particolare. Vedranno i film di tutti, giocheranno coi giochi di tutti, cammineranno nelle città di tutti. Non preparo per loro una zona protetta del mondo. Dati i gesti elementari proposti dalla Chiesa, i sacramenti e l’imparare del catechismo (che in noi grandi vedono che continua nelle riunioni della nostra comunità) si tratta poi di vivere senza ritirarsi dall’agone e da sotto il cielo.
Adesso che ci penso, c’è un altro aspetto di cui ho un po’ di cura e che un po’ c’entra con la fede, e un po’ con il mio sangue romagnolo. Il senso della grande famiglia. Nel senso di una affettività non smunta con i nonni, con gli zii per quanto si riesce, e insomma con la porzione di mondo che è legata a loro dal tempo e dal sangue. Non si tratta solo di una faccenda affettiva. E’ in gioco anche un più largo sentimento dell’esistenza come di una cosa che ci viene grazie anche alla vita di altri, che c’erano prima, che erano accanto a chi ci ha fatto nascere e a chi ci ha cresciuto. Il Mistero a cui il cuore tende e della cui pienezza è inquieto ha anche il volto della rete in cui la tua vita è gettata. In questo senso, vedere che i nonni vengono alla Messa della prima comunione, o che la nonna ha la stessa fede dei genitori etc, indica un senso di popolo che è connaturato ad un’esperienza non puramente moralistica o intellettualistica della fede.
Era una domanda difficile, quella da cui si è partiti… O forse no, è semplice, come è semplice in fondo la risposta. Ecco, forse in questa introduzione a un popolo sta la mia unica, e alta, e drammatica responsabilità di padre. Che essere misero sarei, se pensassi che dalle mie piccole forze i miei figli attingessero tutta la forza di persuasione, di testimonianza e di letizia del cristianesimo! Che essere misero sarei se pensassi che li possa indirizzare la mia coerenza… A che spettacolo più grande li devo chiamare con il mio piccolo show…Che vedano anche attraverso i miei occhi, la mia fatica e la mia allegria cosa è appartenere al popolo in cammino della Chiesa. Che avvertano che è bello camminare, e guardare tutto e accogliere la vita per come è donata…
Chi è
Davide Rondoni, nato nel 1964 a Forlì, ha pubblicato diversi libri di poesia tra cui “Il bar del tempo” (Guanda, 1999) e “Avrebbe amato chiunque” (Guanda, 2003), con i quali ha ottenuto i più importanti premi di poesia in Italia. Sue poesie sono presenti nelle migliori antologie italiane di poesia contemporanea. E’ tradotto in volume o riviste in Francia, Spagna, in Russia, negli Stati Uniti. Dirige le collane di poesia del "Saggiatore" e "Marietti". E’ autore di teatro e di programmi televisivi di letteratura.Ha fondato e diretto la rivista “clanDestino”. Dirige il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. www.daviderondoni.it)
La citazione
«La testimonianza dei genitori ha svolto un ruolo talmente decisivo che la famiglia è divenuta il luogo per antonomasia in cui la Chiesa trasmette la fede; così accade nei Paesi di missione, mentre in altre nazioni di grande tradizione cristiana, la famiglia ha sovente perso questo ruolo da protagonista, con il conseguente declino della fede e della pratica religiosa».
(Catechesi preparatoria per il V Incontro mondiale delle famiglie)