Creato da: 1carinodolce il 08/06/2008
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COSA TI 'PESA' DI PIù ???

Post n°477 pubblicato il 12 Gennaio 2010 da 1carinodolce

  

IN QUESTO PERIODO
COS è CHE TI  'PESA'  DI PIù ? 

E  'COSA'  TI  MANCA  MAGGIORMENTE ?

 

  

IN QUESTO PERIODO
QUAL è IL TUO
DESIDERIO/BISOGNO  PRINCIPALE ?

 

 

 
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Anonimo il 02/03/10 alle 02:18 via WEB
In un’aggiornata e sintetica ricostruzione della storia del cinema italiano, Gian Piero Brunetta definisce giustamente La dolce vita di Federico Fellini un «grandioso affresco sociale e cinematografico […] un’opera ponte: chiude una stagione del cinema italiano e inaugura una nuova era, precorrendo non poche tensioni e spinte del cinema internazionale»[1]. A pochissimi anni di distanza, tornando nuovamente sull’opera di Fellini, e ritenendola il vero salto di qualità per il cinema italiano, Brunetta scrive che con La dolce vita il regista riminese «scopre e inventa una forma di epica cinematografica di cui, in seguito, apparirà come il cantore più imitato e difficilmente ripetibile. Da un momento all’altro egli si sente liberato dai complessi nei confronti del super ego della critica, per cui si lascia guidare dal proprio immaginario, armando tutte le vele, che per anni era stato costretto a orzare per la miopia dei produttori. La sua navigazione assume subito un andamento maestoso. Quello che è certo e subito palese alla critica è che il modello e l’idea di cinema, verso cui Fellini punta, sono situati in un emisfero posto agli antipodi del cinema neorealista, ancora considerato […] punto fondamentale di orientamento»[2]. Dai giudizi del maggior storico della cinematografia italiana, emergono due snodi determinanti. Il primo riguarda la produzione nazionale: dopo le grandi fortune dell’esperienza neorealista, soprattutto internazionali, ormai in via di esaurimento, con La dolce vita il cinema italiano raggiunge picchi di qualità eccezionali, nell’anno 1960, peraltro ricco di grandi film quali Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, L’avventura di Michelangelo Antonioni e La ciociara di Vittorio De Sica. Il secondo snodo riguarda invece la collocazione del film di Fellini nel contesto internazionale, considerata un’opera faro della modernità cinematografica. Se tali giudizi Brunetta li inserisce all’interno di un grande, imponente lavoro di investigazione e sistematizzazione della storia del cinema italiano, il «fellinologo» per antonomasia, Tullio Kezich, di fatto da tutt’altra prospettiva, un saggio di ricordi, li conferma. «Il riminese - scrive - stava compiendo sul corpo del nostro cinema il miracolo della resurrezione»[3]. E La dolce vita finì, sempre a parere di Kezich, per dare forma ad «una fra le più tipiche espressioni del cinema moderno»[4]. Brunetta nelle sue analisi introduce il concetto di «opera mondo». Seguendo l’indicazione, possiamo paragonare il film di Fellini ad un’opera nella quale lo spirito del tempo rimane perfettamente condensato nella celluloide; spirito segnato da una profondissima nostalgia per il sacro, che sembra ormai abbandonare l’orizzonte umano, e una insopprimibile curiosità per gli aspetti più stravaganti della vita moderna. La nuova società cinematica, affermatasi pienamente con la fine della seconda guerra mondiale, contribuisce alla sostituzione del romanzo con il film di finzione. I consumi di massa e le logiche dell’industria culturale hanno determinato la moltiplicazione, in maniera sempre crescente, di «nuovi testi» (i film), talvolta considerati addirittura eccezionali, vere e proprie opere d’arte, assurte a preciso sistema estetico di rappresentazione sociale della embrionale cultura postmoderna[5]. Ma tra le opere d’arte, ve ne sono alcune rarissime: le chiameremo racconti epici o meglio, come già anticipato, «opere mondo». La dolce vita può essere considerata, appunto, «opera mondo». Il film di Fellini è dunque un testo di riferimento della cultura cinematografica occidentale: racconto epico per immagini, dotato di una valenza culturale in grado di superare i confini nazionali. Pur se portatrice di uno Zeitgeist epocale, l’opera felliniana appare il nitido ritratto della società italiana in pieno boom economico, ripresa attraverso la finzione cinematografica, in una fase di forte consolidamento e quindi più libera nel potersi mettere in mostra. Come ha notato lo scrittore Antonio Tabucchi, il film «costituì una frattura generale». A Tabucchi La dolce vita appare un «grande affresco sull’Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta». Nel corso di una intervista Tabucchi ha provato a leggere il film di Fellini come una sorta di giudizio universale privo di salvezza. Ogni classe sociale è condannata, a cominciare dall’alta borghesia: «in fondo - dice Tabucchi - l’Italia non ha mai avuto una borghesia intelligente, colta... Poi c’è la piccola borghesia, il padre di Marcello che arriva a Roma dalla provincia e vuol fare la notte di follie al tabarin: un disastro. Un personaggio toccante, patetico. E patetica è anche Yvonne Furneaux, la “moglie italiana” con le sue fissazioni, possessiva e disperata per quel voler accudire Marcello, preparargli i ravioli con la ricotta. Ecco poi i nobili, l’aristocrazia romana che si raduna per la festa nel castello di Sutri: una galleria di inetti o di puri deficienti. Ma c’è anche il popolino, il sottoproletariato, quello che spera nelle apparizioni della Madonna e si presta alle riprese della Tv. Il cerchio si chiude con gli intellettuali; c’è Marcello Rubini (Mastroianni), il giornalista che vuol diventare grande scrittore e intanto lavora per una rivista scandalistica: crede di avere importanti aspirazioni, e invece è solo patetico. Più in alto, molto più in alto c’è Steiner (Alain Cuny), una mente raffinata, nutrita di cultura filosofica e di letture scelte, suona Bach. Ha un salotto frequentato da scrittori e artisti, a cui fa ascoltare la registrazione dei suoni della natura. Ma ha anche una famiglia, due bimbi, la moglie sorridente: insomma, sembra un esempio perfetto di equilibrio e serenità. E invece è un fallito, e il suo suicidio cambia radicalmente il giudizio su tutto: quelle riunioni di intellettuali che parevano tanto scelti, tanto profondi, erano solo poveri ricevimenti di persone vuote e fatue. Insomma, La dolce vita è il ritratto più terribile che un artista abbia prodotto sulla società italiana. Profeticamente, Fellini aveva già intuito dove saremmo andati a parare. Il modo con cui rappresenta i mezzi di comunicazione di massa è rivelatore. I fotografi scatenati e urlanti dietro le celebrità, i giornalisti che s’inventano stupidi scoop (Anita Ekberg vestita da prete che sale sulla cupola di San Pietro), gli scatti rubati della diva presa a schiaffi dal suo compagno, la spettacolarizzazione del niente. E la Tv? Anche peggio: la sequenza del finto miracolo sui pratacci dell’ultima periferia romana è atroce. Due bambini che dicono di aver visto la Madonna attirano la troupe della Rai, che vuole dare di tutto, di più. In mezzo a una falsa agitazione, tutti recitano: i piccoli veggenti, la folla pronta ad andare in estasi, lo zio orrendo dei ragazzini che intona le laudi, lo speaker della Tv. Poi, comincia a scendere la pioggia, di Madonne nemmeno l’ombra, e l’operatore cinicamente esclama: “Piove! Spegniamo tutto”. Un’Italia orrenda degli inizi degli anni Sessanta, Paese corrotto e decadente, terra in cui niente si salva né può essere salvato, società putrefatta come la Roma del Satyricon di Petronio […] Ci sono tutti i difetti italiani, quel viver bene alla giornata, il cinismo generale che accomuna sottoproletari, intellettuali, borghesi. Il velleitarismo del giornalista Marcello è desolante: il suo dialogo con Anita Ekberg, nella scena della fontana, è agghiacciante. “Sì, è vero, ho sbagliato tutto, hai ragione tu...” e va nell’acqua dietro alla bionda formosa e cretina che s’inebria nel primordiale, nell’arte, nella romanità di quel tuffo barocco di Trevi. E altrettanto tremendo è l’episodio del miracolo della Madonna. Speriamo tutti, anch’io, di vedere la Madonna, ma la Madonna di quelle borgate non ci promette la vita eterna, tutt’al più una vacanza a Fregene. Si lascia comprare con quattro soldi, costa due lire, non era l’apparizione felice, immortale, era una povera cosa di cartone»[6]. La lunga citazione è utile per evidenziare una mentalità diffusa, ben espressa da Tabucchi, impegnata ad affastellare troppe riflessioni, con la lettura del presente sovrapposta al passato, nella quale si fondono vizi e disfunzioni non tanto legate al tempo del film di Fellini, ma quanto riconducibili alla contemporaneità. Inoltre la severa reprimenda di Tabucchi getta una luce poco edificante sull’Italia uscita da un decennio di straordinaria evoluzione sociale e di solida guida politica (il centrismo democristiano di Alcide De Gasperi, rimasto al governo sino al 1953). Un giudizio del genere non può essere circoscritto al fraintendimento di un letterato incapace di cogliere l’essenza della dinamiche storiche. Tabucchi si trova in perfetta sintonia con le analisi espresse da una diffusa pubblicistica e da una predominate storiografia, impegnate a distorcere il reale significato della stagione degasperiana. Il potente sviluppo economico prodotto dalla modernizzazione industriale e dalla società dei consumi, non è contrassegnato, a parere di Tabucchi, da un’eguale crescita morale, culturale e civile dello spirito nazionale: osservazioni molto discutibili. Lo storico Pietro Scoppola ha sottolineato come l’interpretazione degli anni Cinquanta, nella cultura italiana, ha l’immagine «di un certo grigiore». Questa lettura dominante «diventa in alcune delle ancora approssimative ricostruzioni di quel periodo un preciso giudizio: alla fine degli anni quaranta si sarebbe aperta, nella vita politica e nella cultura, una fase di restaurazione nel senso deteriore del termine»[7]. Come è sin troppo evidente, il pensiero di Tabucchi si distacca davvero poco da questa linea interpretativa. Ciò non toglie però che i rilievi dello scrittore affrontino un punto fondamentale: la città di Roma è ormai diventata, e La dolce vita ne è la massima rappresentazione, un luogo geografico totale, dove sta andando in scena l’apoteosi della modernità. Roma trattiene i segni del passaggio compiuto (la conclusione della modernità) e al tempo stesso presenta la fisionomia embrionale di un cominciamento (il superamento della modernità). La città eterna si è trasformata, grazie al potere seducente della celluloide, nella «Hollywood sul Tevere»[8], divenendo il centro del mondo, come lo sono Parigi nei film della «nouvelle vague» e la «Swinging London» di Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, o la Madrid al tempo della «movida», in alcune opere dei primi anni Ottanta di Pedro Almódovar. «La dolce vita - scrive opportunamente Vito Zagarrio - passa alla Storia come la più famosa celebrazione dei fasti della modernizzazione (la “movida” romana, via Veneto, i veicoli di comunicazione di massa), e insieme l’innesto di elementi di rinnovamento linguistico e narrativo […] Ma la stessa atmosfera de La dolce vita, a ben vedere, è insieme “moderna” e “postmoderna”, soprattutto per il mescolamento di arredi e di scenografie, di musiche e di culture (l’oriente e l’occidente, il rock ’n’ roll e l’impero romano, l’aereo e l’elmo medievale, ecc.)»[9]. L’opera di Federico Fellini compie più o meno lo stesso percorso. Dopo i primi passi nell’orizzonte della commedia, sempre più sicuri, con Luci del varietà (1950, diretto in collaborazione con Alberto Lattuada), Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953), Fellini si avventura nell’universo proprio del realismo, realizzando opere di grande importanza stilistica quali La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957), che assicurano al regista riminese successo e notorietà internazionali. Fellini, formatosi a stretto contatto con il regista di punta del neorealismo, Roberto Rossellini, si avvicina al realismo con i tratti propri dell’umanesimo cristiano[10]. Rossellini nei film girati con Ingrid Bergman come protagonista, si impegna nella rifondazione del realismo (e del neorealismo), salutata dalla giovane critica francese con enorme favore[11], e da altri frontalmente osteggiata con l’accusa di «spiritualismo»[12]. Quindi se nel Rossellini di Stromboli, terra di Dio (1949), Europa ’51 (1952) e Viaggio in Italia (1953), per ragioni estetiche e morali (centrate sul realismo della messa in scena e sull’umanesimo cristiano del contenuto), debba essere rintracciata la vera origine della modernità, in Fellini troviamo la medesima sensibilità e un puntuale e originale prolungamento. Con la «trilogia della grazia e della salvezza», a parere di Peter Bondanella, il regista riminese si avvicina all’umanesimo cristiano. Pertanto, assai prima dell’anno-cerniera 1959 (ricordiamolo: l’anno dell’esplosione della «nuovelle vague» in Francia e delle opere faro della modernità), Fellini concorre con la sua ricerca estetica e valoriale, espressa ai massimi livelli in La strada e Le notti di Cabiria, alla formazione della modernità cinematografica, che si preciserà ulteriormente con La dolce vita e con il successivo 8 e ½ (1963). La modernità del cinema non è soltanto una questione legata alla tecnica impiegata, o al grado di realismo dell’opera, ma anche, e forse soprattutto, una rinnovata visione del mondo, operata attraverso il linguaggio filmico, da un gruppo di cineasti, nella stragrande maggioranza europei, di cui Rossellini e Fellini sono stati certamente i precursori.
 
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