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Alessandro D'Avenia

Post n°515 pubblicato il 28 Dicembre 2010 da 1carinodolce

La provocazione di una ragazza, una sfida per tutti
 
Vogliamo toccare la gioia
Le parole si facciano carne 

 


«Non tocco mai la gioia». Così dice una ragazza triste in un film girato da un gruppo di liceali. Queste parole costituiscono una sfida, perché manifestano il bisogno di una cultura intera. Tutti cerchiamo la gioia. È la ricerca che accomuna buoni e cattivi: chi è buono, è buono per essere felice; chi è cattivo non lo sarebbe, se non sperasse di potere, con ciò, essere felice.
  
Questa ragazza vuole la gioia, fin qui niente di nuovo. Ma la chiede attraverso il senso più basilare che abbiamo: il tatto. Non i sensi nobili e collegati più direttamente all’intelligenza: la vista e l’udito. No, lei vuole «toccare» la gioia. Vuole che la felicità sia comprensibile alle dita, alla pelle.

 

Questa generazione, nutrita di virtuale, chiede in modo ancora più forte che la salvezza diventi tattile:

«L’uomo ha bisogno di vedere e di fare sì che questo tale vedere divenga toccare.
 
Egli deve salire la "scala" del corpo, per trovare su di essa la strada alla quale la fede lo invita» (J. Ratzinger).

Ma la gioia non raggiunge il tatto perché spesso chi ha la gioia (condizione necessaria ma non sufficiente) e vorrebbe trasmetterla ci prova a parole.

Ma le parole non bastano più.

 

Quanti maestri scoraggiati di fronte a ragazzi disinteressati alle loro parole, quanti sacerdoti sfiancati dall’apatia dei ragazzi alle loro parole, quanti genitori pieni di fede rattristati dalla perdita di essa nei loro figli nonostante le tante parole... Non con i discorsi si raggiunge oggi la vita delle persone, ma solo con la vita che si mette in gioco in prima persona, nella carne, nel corpo.
 
La gioia, oggi, è chiamata a rendersi percepibile, non all’ascolto, non alla vista. Non basta più. Deve camminare per le strade del mondo, farsi permeabile al tatto, si deve poter toccare: al supermercato, in aula, in cucina, sul campo di calcio. I ragazzi vogliono toccarla, ma la realtà li delude. Lo sapeva bene un grande cercatore della gioia:
«Al solo sentirla nominare tutti si drizzano e ti guardano nelle mani, per vedere se mai tu sia in grado di dare qualcosa al loro bisogno!» (Agostino). Non c’è risposta più assurda che quella data a una domanda non posta.
In realtà, la domanda c’è e c’è anche la risposta, almeno questo pretende il cristiano, tanto che qualcuno invitava a «dare ragione della speranza che è in voi».

 

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1carinodolce
1carinodolce il 09/02/11 alle 01:47 via WEB
I nostri figli non nati Cinque milioni di pensieri In questa Italia dove ogni giorno si tumultua e ci si affanna e si grida, e reciprocamente ci si rinfaccia ciò che si è fatto e ciò che si è sbagliato, può sembrare strano parlare di ciò che “non” è stato. Ciò che non è stato mai, perché non è nato. Scorrendo le statistiche ministeriali, vedi che dal 1978 a oggi ci sono stati in Italia cinque milioni di aborti. Perfettamente legali, certo. Ma anche chi sostiene il diritto all’aborto potrebbe fermarsi un momento, in questa domenica di quasi acerba primavera, di fronte a un pensiero: cinque milioni di figli che mancano, cinque milioni, che non sono nati. Legale l’aborto, ma quasi clandestino il pensiero di quei bambini negati. Non se ne parla, ed è giudicato sconveniente ricordarlo, dalle tribune mediatiche che contano. Come fossero cinque milioni di storie private, che nessun altro riguardano se non quelle singole donne; e al massimo le loro malinconie, tanti anni dopo; malinconie di cui però non si usa parlare. E invece per una volta, oggi che i cattolici italiani celebrano la Giornata per la vita, tra tanti pubblici rumori e clamori, vorremmo immaginare un lungo condiviso attimo di silenzio; e che si possa per un momento restare zitti, nel rimpianto di quei figli che avremmo, e non abbiamo. Chi erano, e che facce avrebbero avuto? Erano i compagni che i nostri bambini non hanno conosciuto; quelli con cui non hanno giocato a pallone; quelli che mancavano, nei banchi vuoti delle aule di paesi spopolati. Erano quello di cui nostra figlia si sarebbe innamorata; o la ragazza che un giorno ci avrebbe resi nonni. Erano, sarebbero stati. Il principio scoccato, il tessuto in fieri, e ogni cellula programmata. Ma non previsti, o attesi, o desiderati. Tantissime ragioni, e spesso umanamente comprensibili. Eppure quante di quelle madri hanno ancora addosso quel giorno, tagliente come uno strappo alla propria intima natura. Non sono stati; sospinti indietro, clandestini, invisibili ombre cancellate. Si può almeno averne memoria, e dare voce a un rimpianto che molte conservano gelosamente per sé? Quante, vedendo una folla di ragazzi all’uscita da scuola una mattina, sono attraversate da un sottile doloroso pensiero: avrebbe la stessa età, “lui”. Ma poiché i figli non sono solo figli nostri, quel rimpianto dovrebbe essere collettivo. Quei bambini ci mancano. I primi di loro avrebbero trent’anni ormai. Li immaginate? Oggi magari sarebbero in piazza a gridare contro il governo, oppure a favore; oppure a immaginare un’altra Italia. Sarebbero energie e desideri, e voci nei nostri cortili vuoti; sarebbero nelle scuole a studiare, nelle università a far ricerca, a insegnare. Chi c’era poi, in mezzo agli altri, in quella folla di clandestini respinta? Forse il centravanti che avrebbe fatto impazzire gli stadi; o la splendida voce che ci avrebbe incantati. E quali libri non leggeremo mai, non scritti dai nostri figli non avuti? Fra di loro, non pochi il cui destino è stato decretato dalle analisi: anormali, malati. Inutili. Come Hawkings magari, il fisico in carrozzella? Che cosa è stato buttato via per una diagnosi, e quali doni portavano con sé i figli scartati? Certo, come testimonia chi invece quei figli li ha avuti, la capacità di insegnare ad amare. Milioni di storie diverse. Madri sole, o senza un soldo, o padri inesistenti; o benpensanti famiglie, che non avrebbero tollerato; oppure posti di lavoro a rischio, o carriere che non potevano aspettare. Cinque milioni di storie private si coagulano in questo vuoto collettivo – e anche forse in uno slancio, in un coraggio che ci mancano. Perché ha più fiato, un Paese che pensa ai suoi figli; non si insterilisce nell’oggi, non trascura un futuro, che è il tempo di quei figli. Il silenzio che vorremmo oggi è ammissione, oltre il ben noto e affermato “diritto”, di un censurato dolore: per ciò che non è stato. Un silenzio che dica a chi ha vent’anni oggi che un figlio, voluto o no, è più umano abbracciarlo; e non è questione di codici, ma di una legge più forte, più grande – come scritta addosso. Marina Corradi
 
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