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Scoprire l'identità per incontrare l'altro

Post n°12 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da GiuseppeLivioL2


   

«Prof, io ho paura. La gente guarda me e i miei amici come se fossimo dei potenziali terroristi pronti a entrare in azione. Ma io cosa c’entro con “quelli”?».
«Anche io ho paura. Da “quelli” c’è da aspettarsi di tutto. Ma io e te abbiamo qualcosa in comune, oltre la paura. Dobbiamo scoprirlo insieme».
Dialogo tra uno studente marocchino e l’insegnante di italiano nel corridoio di una scuola superiore di Milano, durante l’intervallo.
Un dialogo indotto dai fatti di questi giorni, rivelatore dei sentimenti che albergano nei cuori e nelle menti di tanti.
E chissà quanti altri dialoghi simili a questo si sono dipanati, dopo l’attentato di Parigi, nei bar, sugli autobus, nella case di tanti italiani e di tanti stranieri.
            
Un amico solitamente “aperto-democratico-dialogante”, icona perfetta del politically correct, ha intimato al figlio quindicenne: «Non andare più a mangiare il kebab nel locale del turco sotto casa, meglio cambiare aria di questi tempi».
Da indizi elementari, ma altamente indicativi come questo, si potrebbe dire che i terroristi, se non hanno vinto la guerra, si sono già aggiudicati una battaglia.
   
Tra i loro obiettivi c’è esattamente quello di diffondere la paura e di dividere le persone. Ma come si vince la paura? Cosa permette di guardare in faccia coloro che proclamano di amare la morte, che nutrono in cuore il desiderio di un (falso) martirio figlio di una pulsione nichilista? Come possiamo guardarli a testa alta?
Non basta gridare «Je suis Charlie», anzi non serve proprio. Ci vuol altro. Ci vuole qualcosa che tenga in piedi la vita, che la alimenti ogni giorno secondo una inarrestabile positività che può essere figlia solo di certezze elementari. Come quella di avere in comune qualcosa di importante, di irrinunciabile, con chi ci sta intorno.
 
E di poterne fare il collante che permette di vivere insieme.
La Bibbia usa un termine che nei secoli è stato spesso corrotto ed equivocato: il “cuore”.
C’è, al fondo, di ogni uomo e di ogni donna, l’aspirazione al bene, al giusto, al vero, quello che chiamiamo comunemente “senso religioso”.
Una tensione positiva che rischia però – se non viene costantemente educata – di inaridirsi, o addirittura di corrompersi, fino a degenerare in un’ideologia che fa della fede uno strumento per affermare un potere e distruggere l’alterità.
   
È un rischio sempre in agguato, con il quale il mondo islamico sta facendo drammaticamente i conti da molti anni e che mina i sinceri tentativi di misurarsi con la modernità, che pure non mancano. È un rischio storicamente affrontato anche dai cristiani, e dal quale neppure oggi essi possono dichiararsi esenti. Per i seguaci di Gesù questa è una stagione di nuove sfide alle quali è impossibile sottrarsi.
È il tempo di riscoprire radici troppo a lungo dimenticate e sempre più disprezzate dalla mentalità dominante, di riappropriarsi nuovamente della propria identità, rifuggendo la tentazione di considerarla un’alabarda da calare sulla testa del “nemico” ma facendone invece una risorsa che consente di ri-capire chi siamo e come possiamo incontrare tutti.

Non uno specchio in cui rimirare le proprie sembianze, ma una finestra aperta sulla realtà.
Due secoli fa Goethe scriveva:
«Ciò che hai ereditato dai tuoi padri devi conquistarlo di nuovo, per possederlo nuovamente».
Parole che pesano e danno un’indicazione anche per l’oggi.
Solo accettando la sfida della riconquista personale di ciò che ci costituisce, potremo diventare capaci di vincere la paura e di resistere a chi ama la morte più della vita.

 

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Utente non iscritto alla Community di Libero
Rosa M. il 23/01/15 alle 13:08 via WEB
Nella marea di sdegno e lacrime generali e bipartisan, qualcosa non va, c’è un che di falso e stordente, come se quel Je suis Charlie che viene ossessivamente proposto suonasse tanto attrattivo e convincente solo perché non ci riguarda. La strage islamica si è consumata a Parigi, ma poteva accadere anche a Roma o a Milano, oppure a Firenze o a Napoli. E allora, quel Je suis andrebbe tradotto con Io sono. Già, “io sono”, ma con chi? Beh, questo gli illustri direttori e le grandi firme non l’hanno scritto e forse neppure pensato. Ma se volete un suggerimento, potremno dire “Io sono con Oriana Fallaci”, oppure “Io sono con Magdi Cristiano Allam”, o anche (ma la cosa è di qualche anno fa) “Io sono con Theo Van Gogh” (il regista olandese assassinato da un terrorista islamico), e anche “Io sono con Kurt Westergaard”, il primo vignettista, nel 2005, a scatenare le reazioni del mondo musulmano per aver disegnato Maometto con una bomba nel turbante. E per spostarci un po’ più in là dai confini europei, dovremmo essere tutti con Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia, con la sudanese Merian Ibrahim arrestata per apostasia, con i nazareni iracheni cacciati da Ninive, gli yazidi, i cristiani del Pakistan, le ragazze e i ragazzi nigeriani rapiti dagli islamici guerriglieri di Boko Haram che bruciano le scuole e i libri perché diabolici strumenti dell’Occidente. La rabbia e l’orgoglio e la sua profezia sull’Eurabia, l’Europa sottomessa all’islam, costarono a Oriana Fallaci la segregazione per islamofobia lanciata dalla sinistra e dalla grande stampa nazionale. Accusata di fomentare l’odio religioso, pure dal suo stesso giornale, il Corriere della Sera, la Fallaci veniva quotidianamente sbertucciata come “sordida reazionaria”, “perniciosa guerrafondaia”, mortale portatrice di “Orianismo”. Quando la sua trilogia comparve in Italia, ricorda la stessa Oriana, «il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come “a provocateur” una “provocatrice”. Una villana colpevole di calunniare l’islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio». Il quotidiano La Repubblica faceva da capofila alla schiera dei lanciatori di pietre, tutti col marchio della sinistra doc e liberal. Quando a Milano il sindaco Letizia Moratti propose di conferirle l’Ambrogino d’oro, ricorda la Fallaci, i consiglieri di sinistra minacciarono «di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: “Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush”». Ironia della cronaca: il settimanale Charlie Hebdo, a sorpresa, ebbe il coraggio in quegli anni di schierarsi con la Fallaci.
 
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