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Un blog creato da GiuseppeLivioL2 il 31/08/2014

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Post n°52 pubblicato il 24 Maggio 2016 da GiuseppeLivioL2

     


La nostra società è sempre più, sempre di più, una "società drogata", malata.... 

è infatti in terribile aumento il numero di persone che soffrono di dipendenze, così come aumentano sempre più le forme, i tipi di dipendenza, 

al di là dell'abuso di sostanze stupefacenti, problema così diffuso da non fare più notizia.    

Pensiamo solo alla dipendenza dal cellulare, da internet, dallo shopping, dal cibo, dalle "slot-machine"  che si trovano ormai dappertutto. 

Si può  diventare dipendenti persino dal calcio, delle serate in discoteca con gli amici o dai social network. 

   

Insomma, pare proprio che ai giorni nostri sia difficile non essere dipendenti da qualcosa. 


Tutti noi abbiamo a che fare con un vuoto interiore che cerca di essere in qualche modo colmato. 


Perché accade?


   

    

 
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GiuseppeLivioL2
GiuseppeLivioL2 il 25/05/16 alle 15:04 via WEB
una delle migliori metal song di tutti i tempi. “Master of Puppets” significa “mastro marionettista”, termine qui usato per mascherare qualcosa che ben riesce a pilotare le persone: la droga. La dipendenza da cocaina, una delle più letali e provanti per il fisico, era all’epoca un tabù bello e buono di cui non si poteva parlare, nei confronti del quale riusciva persino difficile trovare articoli e men che meno canzoni disposte a farlo. Interessante è soffermarsi sul testo della canzone, costellato da doppi-sensi e riferimenti più o meno velati. I primi tre versetti “End of passion play/crumbling away/I'm your source of self-destruction" (“Fine della passione/si sbriciola/sono la fonte della tua autodistruzione”) alludono chiaramente alla dipendenza dalla sostanza e dal suo impatto inizialmente appagante: una volta svanito l’effetto euforico, si rivela la droga per quello che: un mezzo letale per avviarsi all’autodistruzione. “Veins that pump with fear/sucking darkest clear/Leading on your death's construction” rimarcano velatamente il concetto di cui sopra con le “Vene che pompano con paura/succhiando la più tetra chiarezza” (dove il vocabolo “the darkest”, letteralmente “il più scuro”, lascerebbe intendere altresì all’eroina nera). L’ultimo versetto della prima strofa rivela chiaramente il tragitto intrapreso non appena si inizia con gli stupefacenti: costruire il proprio destino fatto unicamente di morte. Il bridge rivela le intenzioni della droga, quasi come se fosse lei a parlare. “Taste me you will see/More is all you need/Dedicated to/How I’m killing you” (“Assaggiami e vedrai/Ne hai bisogno sempre più/Osserva/Come ti sto uccidendo”) sono versi a cui non servono spiegazioni. Il pre-chorus è pauroso per quello che rivela: la droga è come un serpente che s’avvicina strisciando (“Come crawling faster”), con la sua voglia che s’insinua nella testa diventando un chiodo fisso. L’ordine è imperativo: devi obbedirgli (“Obey your Master”), con il termine “master” chiara personificazione della droga. Facendo questo però “la tua vita brucia più veloce” (“Your life burns faster”) e poi, in ultima istanza, quasi come se fosse un sabba maledetto, si ripete ancora una volta: “Ubbidisci al Maestro. Maestro” (“Obey your Master, Master”). Parole che sono passate alla storia e che sono rimaste scolpite nella mente di ognuno di noi. In quello che è il ritornello, la cocaina ci controlla, proprio come un marionettista comanda coi fili le sue “creature” (“Master of puppets I'm pulling your strings”, “Marionettista, io sto tirando le tue fila”). L’impatto con la droga è pur sempre duro (“Twisting your mind and smashing your dreams”, “Travisando la tua mente e distruggendo i tuoi sogni”), tanto che non ci si accorge nemmeno che la sostanza ci sta lentamente uccidendo (“Blinded by me, you can't see a thing”, “Reso cieco da me, non riesci a vedere nulla”). Terribili sono gli ultimi versi del chorus: dovrai “solo chiamarmi per nome/perché io ti sentirò gridare/Maestro/Maestro” (“Just call my name/’cause I’ll hear you scream/Master/Master”). In altre parole, quando si è in astinenza da droga, basta pensarla, basta “chiamarla” col pensiero, affinché il suo delirante bisogno accompagni – quasi meccanicamente – i gesti corporei verso l’assunzione. Allucinante. Agendo sempre in questa maniera (“Needlework this way”) mai si tradiranno le proprie aspettative (“Never you betray”) nei riguardi dell’effetto gratificante della droga. Però, così facendo, “una vita fatta di morte si sta delineando sempre più chiara” (“Life of death becoming clearer”). Il momento dell’assunzione si caratterizza ormai per due cose: “monopolio del dolore, [e] miseria rituale” (“Pain monopoly/ritual misery”), sottolineando quanto sia degradante il doversi drogare perché non se ne riesce a fare a meno. Ed allora arriva una delle immagini più desolanti, con te che “ti prepari la colazione su uno specchio” (“Chop your breakfast on a mirror”), superficie liscia che permette di individuare bene tutti i grani da assumere, senza che questi vengano dispersi. Non c’è che dire: liriche assurdamente nude e crude, ma fottutamente evocative. Musicalmente parlando, invece, gli stacchi che introducono la canzone si potrebbero riconoscere fra altri mille. Tutti urlerebbero subito “MASTER!!”. A partire dall’inconfondibile riff d’apertura, la canzone si struttura con dei poderosi stacchi che danno il la ad un groove a dir poco leggendario, indelebilmente inciso nel cuore di ognuno di noi. Il tiro è deciso, ma non troppo veloce, marcato piuttosto sugli stacchi di batteria. Il cambio di tono permette alla canzone di variare e non stufare, sebbene non si discosti dalla medesima resa sonora. Il chorus è impreziosito da alcune sferzate melodiche di chitarra, mentre la voce di Hetfield viene affiancata da un eco che riprende i fine versi. Il chorus acquisisce maggiore velocità e traghetta la canzone verso la sua seconda sezione, identica alla prima. A metà traccia la mitica risata viene letta, alla luce dei fatti di cui sopra, come una voce che si perde nei meandri della testa di un tossicodipendente. La droga pare essere finalmente arrivata, dopo tanto tempo passato ad invocarla. L’arpeggio pulito di chitarra è la sostanza che si diffonde, superando la superficie delle vene: la soavità del musica che si sprigiona è quasi paradisiaca e l’assolo seguente – oltre che storia – è zuccheroso miele, un orgasmo indotto dalla droga. Se la prima parte della canzone può essere intesa come una disperata richiesta di assunzione, la parte centrale e l’assolo come l’effetto stordente ed appagante, la terza parte (dal post-assolo fino alla fine) può essere il tragico lascito degli effetti della cocaina sul corpo del protagonista, uomo già segnato nel suo destino. Il resto della canzone – da 4:47 in poi – è la nuova caduta nell’oblio: un nuovo viaggio nel dolore e nella triste sofferenza di essere dipendenti. Un potente crescendo di tamburi apre una sezione in cui le chitarre procedono strascicanti, talmente pesanti da far male alle orecchio, così abrasive nel loro incedere. Bellissimi i cori di supporto ad Hetfield che rimarcano l’incredulità del drogato: “Maestro, maestro/dove sono i sogni che prima avevo?” (“Master, Master/where’s the dreams/that I’ve been after?”) s’interroga il disgraziato. Poco ci passa prima che avvenga una lucida constatazione dei fatti (“Master, Master/you promised only lies”, “Maestro, maestro/Tu hai promesso solo menzogne”). Ma ormai è troppo tardi, giacché “Risate, risate/tutto quello che posso sentire o vedere sono risate/Risate, risate/Ridendo delle mie grida” (“Laughter, Laughter/all I hear or see is laughter/Laughter, Laughter/laughing at my cries”): il tragico passo è stato compiuto ed oramai è inutile qualsiasi rimedio: si è irreparabilmente persi nella propria miseria. A questa splendida sezione s’accompagna uno speditissimo assolo di Hammett, che fa correre la sua ascia come meglio sa fare. Irripetibili i fraseggi a salire e poi a scendere che sono dal minuto 6:19 in poi. L’ultima strofa della canzone è a coronamento di questo viaggio infernale nella droga: domandandosi se l’inferno è valso tutto questo, il protagonista si ritrova in un labirinto senza fine, fatto di parole senza un senso, ma con i giorni ben contati, giacché la sua vita sta volgendo al termine (“Hell is worth all that/natural habitat/Just a rhyme without a reason/Neverending maze/drift on numbered days/now your life is out of season”). Il bridge finale è la dichiarazione d’intenti della droga: lei s’impossesserà di te, ti aiuterà a morire, scorrerà al tuo interno ed, infine, ti controllerà (“I will occupy/I will help you die/I will run through you/Now I rule you too”). Otto minuti e trentacinque di viaggio negli anfratti della droga, un dedalo da cui è difficile uscire e che strema – quasi – come una dose vera. Canzone pazzesca.
 
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