Scrivere

GRAFITE - romanzo a puntate di Nicolò Gueci


GRAFITE(Tutti i diritti riservati all'autore)INCIPIT    Nella notte accarezzo i tasti del mio notebook. Voi non sapete che cos’è un notebook. I più vecchi rideranno. Sì, quella strana valigetta che tutti portavano con sé per darsi un tono e che in treno aprivano per battere sui tasti... Non avete ancora capito? Un computer, piccolo, portatile. Naturalmente: un computer è piccolo e, in un certo senso, portatile. Che cosa devo dire ancora? In fondo per chi scrivo? Sì, scusate, io dovrei spiegare anche la parola scrivere. Scrivere è comunicare con segni grafici – grapho vuol dire io scrivo. Così mi è riuscita anche una tautologia e non ho spiegato niente.Ormai nessuno scrive più. Pochi parlano ancora. Non vogliate credere che gli uomini siano diventati una comunità d’introversi; al contrario, essi hanno raggiunto un massimo di capacità comunicativa, ma di altro genere. Se un giorno qualcuno si chiederà come mai una cultura si sia trasformata così radicalmente, queste note potranno essergli utili, supposto che sappia interpretarle. Perché scrivo, allora? Scribo, ergo sum. Scherzo: scrivo per me, per il futuro, per il passato.Tutto iniziò una tarda mattina d’aprile. Avevo collegato il notebook al computer della mia università e mi preparavo ad un esame. Tra le due macchine e me c’era la primavera e mi fu subito chiaro che ogni ricerca, ogni accurata raccolta di informazioni, nulla avrebbero potuto contro la primavera: quello che avevo raccolto, che studiando mi aveva entusiasmato, ora mi risultava estraneo.Ero sfiduciato, distratto come un bambino che sogna. Per scherzo staccai il cavo di collegamento e avvicinai lo spinotto alla tempia sinistra. Al contatto del cavo con la tempia, sentii un doloroso ronzio e provai un’allucinazione, come di righi di un libro allineati. Contemporaneamente a 360 gradi si era formata una striscia di immagini sovresposte non identificabili. Mi spaventai e allontanai il cavo. L’immagine sparì. Lo portai di nuovo alla tempia: apparve un’altra immagine, che mutava ad ogni movimento del cavo. Sul mio orecchio destro portavo una matita, secondo l’uso dei falegnami, come facevo già da bambino quando leggevo e come faceva mio padre quando lavorava. Presi la matita per prendere appunti: l’immagine sparì. Il mio cuore partì all’impazzata, mentre io, come in trance, movevo la matita a contatto del capo e immagini tridimensionali, scritti, colori e movimenti si proiettavano attorno a me, fermandosi o fuggendo. Archimede uscì nudo dalla vasca da bagno e corse gridando, fuori di sé dalla gioia, eureka! Io ero come inchiodato alla sedia, in un bagno di sudore. Tentativi con la penna a sfera, con le forbici, con una riga di legno mi fecero capire che la produzione delle immagini era da attribuire alla mina di grafite. Grafite, grapho, scrivo. Dopo una lunga interruzione per far passare il capogiro e per analizzare le sensazioni, colorai con la matita un pezzetto di carta. Non mi fermai, finché non ebbi un denso strato di grafite.Quando portai il foglio ad una tempia e appoggiai all’altra parte lo spinotto, mi sentivo come alla roulette russa. Si formò una cupola d’informazioni, paesaggi in movimento, formule e calcoli che io non capivo, ma in mezzo ai quali mi muovevo con una certa sicurezza, nel senso che potevo mettere a fuoco, solo desiderandolo, un particolare o un aspetto. Dunque i miei neuroni si caricavano di dati, non stabilmente, ma per il tempo in cui rimanevano collegati con un computer. Se avessi trovato una soluzione, come una fasciatura alla testa o un grosso cerotto e il collegamento ad un minicomputer, i miei esami sarebbero stati salvi. Più dello spirito goliardico, mi venne in mente sempre più il pensiero che avevo fatto una scoperta interessante. E questo per la mia età era troppo, senza considerare che, alcuni anni prima, avevo scoperto il moto perpetuo, cosa che mi era costata una gran presa in giro. Gli esami si avvicinavano ed io ero deciso ad utilizzare la mia invenzione. D’altro canto ero terrorizzato, perché una truffa avrebbe potuto compromettere i miei studi. Alla scoperta ero arrivato per un caso fortuito: l’accumulatore del mio notebook si stava scaricando. Mi affrettai a misurare l’energia erogata e a stabilizzarla con un reostato fino a realizzare una sintonia tra i due sistemi, cerebrale ed elettronico. Inoltre le placche di grafite distribuite intorno al capo formavano come un casco e la materia di studio, ben distribuita e suddivisa, il che vuol dire, studiata ordinatamente, era raccolta nei miei CD come pure, effetto collaterale, nella mia memoria (Nota: da questo momento rimando alla fine del testo per la definizione di termini che possano non essere noti al lettore). Mi venne idea di utilizzare i miei esami per annunciare ufficialmente la mia invenzione.Diedi gli esami senza testa fasciata o mezzi proibiti e il mio professore fu più che soddisfatto. Mi fece addirittura capire che aveva bisogno di un assistente.  Ero fuori di me dalla gioia; ma gli risposi che al momento ero occupato in certe ricerche. Il professore capì che avevo ragazze per la testa e mi disse: „Ha ancora tempo e un paio d’esami da sostenere“.La questione era: come può il mio „computer di bordo“ imparare, come si può attivare la sua memoria? Il problema non era di facile soluzione. Avevo capito: s’impara solo con grande attenzione e ripetendo. Mi ricordai di un vecchio maestro che, quando ero distratto, diceva: „Da un orecchio entra e dall’altro esce“. Come si poteva evitare che „uscisse dall’altro orecchio“? Come potevo bloccare l’uscita delle informazioni? La soluzione venne da sé, quando distribuii gli elettrodi all’interno del casco di grafite, di modo che la corrente fu riflessa dalle pareti e si venne a creare un effetto eco, che si tradusse in una ripetizione elettronica. Per prima cosa acquistai una bottiglia di Champagne.Se pensavo di festeggiare con Angelica, mi ero proprio illuso. Negli ultimi giorni, nell’entusiasmo dell’invenzione, l’avevo trascurata e ora faceva l’indifferente. Le scrissi, le mandai dei fiori. Non rispose. Divenni triste, depresso, non uscii più di casa.E un giorno si trovò davanti alla porta, con una scatola di cioccolatini in mano e un’ombra di broncio sul volto. „Hai imparato?“ – mi chiese. I cioccolatini erano squisiti e lo Champagne inebriante. Così trovai il coraggio di parlare dei motivi della mia assenza. Le mostrai il „casco“. Pensando a lei, ne avevo costruito un secondo, collegandolo in serie. Li provammo e Angelica rimase impressionata. Capì persino perché non mi ero fatto vedere. „Perché non mi hai detto niente?“ Non era più arrabbiata. Con i caschi in testa eravamo due strane figure, tra futuro e passato, e potevamo scambiare pensieri, senza formulare una parola. Quando lei mi baciò, lo scambio di pensieri divenne ancora più intenso e un sentimento di sincerità e pienezza ci invase. Non avevamo più bisogno di scuse e chiarimenti. Volevamo solo riprenderci il tempo perduto. Forse i caschi mostravano un nuova proprietà? No, da tempo erano caduti per terra.(continua)