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GRAFITE


2. L’EREMO NELLA FORESTA   Proseguendo gli studi con alterno interesse, diviso tra gli impegni affettivi e le mie ricerche sull’interazione tra il sistema cerebrale e quello elettronico, riuscii a laurearmi con lode, cosa che mi diede accesso ad una borsa di studio per un dottorato di ricerca in un istituto di prestigio. È probabile che a questo avesse contribuito una telefonata del professore; soltanto così si spiega il suo incoraggiamento, quando gli chiesi consiglio. “Lì avrà possibilità quasi illimitate per le sue ricerche” – mi disse. “La carriera universitaria può aspettare”. Partii per la Foresta Nera, dove fui accolto in un complesso di edifici dissimulati nel bosco. Ogni mia richiesta veniva soddisfatta con una semplice parola: selbstverständlich, naturalmente. Naturalmente mi furono messi a disposizione la struttura e gli strumenti di ricerca più sofisticati, naturalmente non si badò a spese, naturalmente non mi furono fatte domande indiscrete su quello che io consideravo con gelosia la mia creatura. Naturalmente - ne sono convinto - si seguì minuziosamente quanto segretamente ogni mio passo: se la struttura si preoccupava di fare di me un uomo di vetro, quantomeno aveva il buon senso di non farlo platealmente.Mi trovavo in uno stato euforico che mi faceva dimenticare tutto ciò che non fosse la mia ricerca. Dimenticai sempre più spesso di collegarmi con la mia ragazza, che pure mi aveva incoraggiato a partire. D’intesa, per le nostre conversazioni utilizzavamo il “casco”. Un bel giorno il collegamento non funzionò. Al telefono mi disse qualcosa come di un guasto irreparabile. Capii che mi voleva nascondere i suoi sentimenti, ormai orientati verso altri ricercatori di affetto e non ne soffrii più di tanto. Ero ormai diventato un monaco della scienza, anche se mi ripromettevo di ritornare alla vita normale, non appena avessi raggiunto risultati significativi; ma quando li avrei ritenuti soddisfacenti? Le possibilità si aprivano a ventaglio ogni volta che una soluzione era stata trovata. Mi trovai in trappola. Nuove dimensioni impensabili al momento della mia intuizione iniziale si affacciavano, per la possibilità di vagliare rapidamente le variabili, evitando lunghi percorsi fuorvianti. Nel mio casco si raccoglieva gran parte della capacità di lettura e d’analisi dell’intero istituto. Solo raramente mi trovavo davanti a porte chiuse, dalla dicitura: “Qualora ritenga che questa connessione sia indispensabile al suo lavoro, voglia chiedere il passi alla direzione”. Era in questi casi che provavo una strana sensazione di essere osservato dall’altra parte di quello che chiamerò la “tenda elettronica”. Di fatto, tutte le volte ben ponderate che ebbi a chiederne il permesso, non faticai a spiegarne i motivi. Spesso il contatto si traduceva nella collaborazione con un altro ricercatore, che poi risultava non digiuno delle mie ricerche, altre volte erano centri elettronici immensi, situati in qualche parte del mondo, sorprendentemente disponibili, eccettuate le porticine sbarrate di cui sopra. Queste si moltiplicarono, quando, fortuitamente o volutamente, l’argomento di ricerca coincideva con interessi militari. Insensibilmente, i limiti divennero più tangibili. Notai un rallentamento dei rapporti con i dirigenti, sempre molto cortesi, beninteso, ma molto più occupati, meno raggiungibili. Obbligato ad attendere quando avrei voluto correre, cominciai ad innervosirmi, a cercare distrazioni. Mi chiesi come avessi potuto passare diversi mesi in un eremo, senza il minimo interesse per la vita intorno.  Volevo uscire, andare a ballare, visitare la città, conoscere gente: vivere. Mi trovai in mensa di fronte ad una simpatica collega, che mi stuzzicava con un “come va” un po’ stonato nella melodia, per intenderci, con quella giravolta all’insù, tipica dell’interrogativo tedesco, che trasforma ogni domanda in un test. “Bene, grazie. E tu?” Così erano esaurite le sue conoscenze sulla mia lingua e dovevamo passare a quella convenzionale.   “Tu sei di qua, non è vero?” Mi rispose che era nata nel Nord, ma che aveva studiato a Stoccarda. “Me la faresti conoscere?” – le chiesi. Rispose con un  risolino divertito.“Credi che potresti abbandonare per qualche ora l’istituto senza dover indossare lo scafandro?” Mi fece arrossire. Pensava che non fossi una persona normale? Ma ero ancora una persona normale? Sentii il bisogno impellente di andarmi a guardare nello specchio. Quando finalmente potei farlo senza essere osservato, capii che effettivamente mi ero trascurato da un bel po’. Insomma, non erano solo le piccole distrazioni, come uscire di camera con il cuscino sotto il braccio, dopo aver accuratamente deposto i libri, che volevo consultare, a capo del letto. Ero divenuto uno scienziato da fumetti. Ma Waltraut- si chiamava così -  mi aveva lasciato con una mezza promessa: “Appena avrò un po’ di tempo ti farò sapere”. Anche lei era una ricercatrice seria.“Il prossimo fine settimana potrei prendermi una pausa” – mi disse un giorno. “Se hai voglia, ti porto un po’ in giro”.  Così mi ripulii per l’occasione e, con i miei due capi firmati, feci subito colpo. Attraversare il bosco era già una gita in sé. Waltraut  guidava con perizia per la strada tortuosa e aveva un profilo delizioso che mi distraeva dal panorama. Se uno scoiattolo ci tagliava la strada, lei, che aveva già rallentato, sottolineava l’incontro nella sua lingua: Eichhörnchen. Io cercavo di ripetere, storpiando, e lei a ridere di cuore. “Scoiattolo” – dissi con decisione. Stavolta fu lei a suscitare le mie risa. Poi la foresta si diradò. Ampie radure, vallate, paesi che seguivano il corso dei ruscelli – nei secoli andati la loro corrente era stata sfruttata per alimentare segherie. In lontananza, le torri delle emittenti, la città distesa sul clinale delle colline, più densa nella valle. Stuttgart. Mi disse che voleva dire “il giardino delle cavalle” e mi spiegò che una volta c’era solo un allevamento di cavalli da guerra, che molti dei paesi vicini avevano origini più antiche, alcuni fondati dai Romani. Anche dal punto di vista culturale, la gita diventava affascinante. Le promisi di farle un giorno visitare Firenze. Credo che, se non fosse stata al volante, mi avrebbe gettato le braccia al collo. Era di buon umore e ancor di più lo divenne quando ci fu servita una pizza DOC in un ristorante italiano. “Io amo Italia” – disse. Non volli correggerla, perché mi sentivo lusingato. Dopo una passeggiata nel centro, le dissi che avrei visitato volentieri una birreria tipica. Non mi parve molto entusiasta. Rispose che non mi sarebbe piaciuta. Poi mi guidò in un localuccio, dove la birra veniva non solo servita alla spina come si deve, ma addirittura prodotta. Le vasche di fermentazione in rame facevano parte dell’ambiente, separate da una parete a vetri. Una birra gioiosa e spumeggiante che nulla aveva a che vedere con quella da esportazione alla quale ero abituato. Veniva servita in piccoli bicchieri, che la cameriera attenta sostituiva non appena erano stati vuotati. Doveva avere un occhio particolarmente allenato, quella muscolosa signora dalla minigonna impropria, se riusciva a farlo, servendo una decina di tavoli. La mia collega mi spiegò che il bicchiere sarebbe stato sostituito con uno pieno finché io non l’avessi coperto col sottocoppa. Mi chiesi se l’avrebbero fatto anche con quei calici sovradimensionali a forma di stivale che una comitiva di tifosi della squadra locale si era fatta servire. Mi accorsi che Waltraut era diventata irrequieta. Mi propose di andare da qualche altra parte: l’ambiente avrebbe perso ben presto il suo aspetto idillico “fin de siècle” per diventare una bettola. (continua) Gia pubblicati in questo sito: 1. capitolo: INCIPIT)