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Ebola

Post n°467 pubblicato il 13 Novembre 2014 da Guerrino35

Ebola in Africa: un prodotto della storia, non un fenomeno naturale

Agosto H. Nimtz * | pambazuka.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

29/10/2014

Non c'è nulla di inevitabile nell'epidemia di Ebola che sta ora devastando intere parti dell'Africa. Come altri disastri, anch'esso è il prodotto della storia e delle decisioni prese dai governi, in passato come nel presente.

La storia moderna africana insegna, spesso tragicamente, come sia necessario distinguere tra quelli che si potrebbe chiamare fenomeni naturali e quelli che sono essenzialmente fenomeni socio-economico-politici. I periodi di siccità che hanno devastato molte parti del continente nei primi anni 1970 sono stati un esempio del primo caso. (Lascio da parte la questione dell'influenza delle azioni umane sul riscaldamento globale.) Come mostra la California attualmente colpita dalla siccità, le carestie e le decine di migliaia di vite perse che sono arrivate dopo la sua scia non erano, però, inevitabili. Questo risultato orribile era in gran parte il prodotto delle politiche messe in atto dai governi coloniali e doverosamente e tristemente riprodotti da regimi post-coloniali.

La stessa lezione viene insegnata, ancora una volta, tragicamente, dall'ultima piaga del continente. Gli agenti patogeni umani esistono in Africa da quando la nostra specie ha cominciato lì a evolversi, e nello stesso tempo si sono evoluti anche loro, a volte con risultati come quello del virus Ebola. Ma non c'è nulla di inevitabile nell'epidemia di Ebola che è tuttora in evoluzione. Come le carestie, essa èanche il prodotto della storia, delle decisioni che i governi hanno preso nel  passato e nel presente. La questione rilevante è: gli interessi di chi  sono stati preferiti in queste scelte? Il modo in cui una società risponde al più naturale dei processi, l'evoluzione dei patogeni umani, mostra le risposte che si possono dare a questa domanda.

I regimi coloniali, al potere dall'ultimo quarto del XIX secolo, sino ad una decina di anni dopo la seconda guerra mondiale, sono stati disegnati soprattutto  per estrarre le risorse naturali dell'Africa nel modo più redditizio. I servizi sociali di cui avrebbero potuto beneficiare i soggetti coloniali, come la sanità e l'istruzione, se mai concessi, sono stati ridotti al minimo, per risparmiare sui costi. Questo spiega il carattere profondamente antidemocratico di quei regimi. L'ultima cosa che gli estrattori di risorse volevano era quella che i sudditi avessero  un po' di voce in capitolo circa il modo in cui erano governati e, quindi, come dovessero essere utilizzate le loro risorse naturali. Queste erano le condizioni del regime che le élite post-coloniali non solo ereditarono e prontamente abbracciarono,  ma che intensificarono al fine di privilegiare gli interessi della loro classe ristretta.  Nel caso della Liberia, una semi-colonia degli Stati Uniti, nominalmente indipendente dal 1847, la sua élite (i discendenti degli schiavi rimpatriati dall'America) garantì che la  Firestone Gomma potesse trarre enormi profitti dai suoi investimenti nel paese. È così che si produce la situazione scandalosamente ironica di oggi, dove in uno dei paesi produttori di gomma più importanti del mondo non sono  disponibili per i suoi abitanti sufficienti guanti di gomma per proteggerli dall'epidemia.

Negli ultimi decenni, in nome della lotta contro la spesa pubblica, gli sprechi e la corruzione, le agenzie internazionali di prestito, come il Fondo monetario internazionale, hanno richiesto, come condizione per ottenere nuovi finanziamenti, che  i governi africani riducessero le loro spese. Le élite africane hanno volontariamente accettato di farlo con i tagli imposti al settore sanitario e all'istruzione-contribuendo a creare la tempesta perfetta per il virus Ebola.

Affinché non si presuma che solo i paesi poveri o in via di sviluppo siano afflitti da tali esiti tragici, si prenda in considerazione quello che è successo nel paese più ricco del mondo nel 2005. Sulla scia di un fenomeno naturale, l'uragano Katrina - di nuovo tenendo da parte il riscaldamento globale - più di 1.600 persone (un numero ancora in fase di verifica, per quelli di noi che hanno familiarità con quello che è successo) hanno perso la vita a New Orleans e dintorni. Eppure, due mesi prima, un uragano di maggiore intensità, Dennis, ha colpito Cuba due volte e solo 15 dei suoi cittadini sono morti. Né l'esito era inevitabile. La differenza, invece, ha evidenziato le profonde trasformazioni strutturali in corso nella società cubana dopo il 1959, con l'avvento della sua rivoluzione. Per la prima volta nella storia di Cuba, i suoi proletari avevano un governo che dava priorità ai loro interessi e non a quelli di una piccola élite. La loro speranza di vita, così come misurata, ad esempio, dai tassi di mortalità infantile, le aspettative di vita, i livelli di istruzione, sono notevolmente migliorati, nonostante il fatto che Cuba sia ancora povera e sottosviluppata. I postumi crudemente diversi dei due uragani nelle due società, l'hanno detta lunga su quello che i proletari di Cuba avevano raggiunto e su ciò che le loro apparentemente benestanti controparti di 400 miglia a nord non avevano avuto.

Né è un caso che Cuba abbia fatto un passo in avanti, a differenza di qualsiasi altro paese, per inviare  il personale sanitario al fine di combattere la piaga dell'Ebola. Quattrocentosessantuno cubani si trovano in viaggio o già nelle zone colpite. Sono stati selezionati su 15.000 dei loro 11 milioni di cittadini che  hanno espresso la volontà di andare. Tutto ciò in significativo confronto con i soli 2.500 cittadini americani in rapporto ad una popolazione di 316 milioni di persone che, in accordo con l'agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, si sono dichiarati volontari, per il medesimo obiettivo. Per i cubani non vi è nulla di insolito in quello che stanno facendo, posto che 4.000 dei loro operatori sanitari già sono in servizio in 38 paesi africani e circa 45.000 in altri 28 paesi. In tal modo, le scelte politiche di una società generano conseguenze non solo per le opportunità di vita dei propri cittadini, ma anche per quelli di altri paesi. E qui sta la lezione più importante. Fino a quando i proletari, non solo in Africa, ma altrove, non hanno governi che servano i loro interessi, rischiano di essere ancora una volta vittime inutili di fenomeni naturali.

* Agosto H.Nimtz è professore di scienze politiche e studi afroamericani ed africani presso l'Università del Minnesota.

 
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BURKINA FASO

Post n°466 pubblicato il 06 Novembre 2014 da Guerrino35

Un sogno all'ALBA per il paese degli "uomini integri"

Marinella Correggia | albainformazione.wordpress.com

02/11/2014

Il 31 ottobre 2014 il popolo del Burkina Faso [Paese degli uomini integri] è sceso in piazza in massa ottenendo le dimissioni e la partenza del presidente Blaise Compaoré, al potere da ventisette anni, dopo il colpo di Stato che il 15 ottobre 1987 uccise la rivoluzione del "Paese degli integri" e la sua guida, l'allora 37enne presidente Thomas Sankara. La "rivoluzione della dignità" in soli quattro anni (1983-1987) aveva trasformato il poverissimo paese saheliano in un laboratorio di futuro, di giustizia, solidarietà, antimperialismo, pace, ecosocialismo potremmo dire. Tutto molto scomodo per le élites mondiali e per quelle africane.

Non sappiamo ancora se la sollevazione di questi giorni si trasformerà – a causa delle interferenze esterne, in particolare da parte della Francia, ex potenza coloniale – in una delle tante "primavere manipolate", oppure se il paese saheliano recupererà la rivoluzione di Sankara. All'ex presidente burkinabè,  i sankaristi che con altre forze hanno partecipato alle manifestazioni di piazza in Burkina Faso hanno dedicato questa parziale vittoria.
Alassane, burkinabè sankarista che vive in Italia, ci ha detto: «Spero per il mio paese e per il mio popolo in una vera rivoluzione, come quelle dell'America Latina… Sankara era amico di Fidel e del Nicaragua; il presidente Chavez arrivò al potere quando lui era morto da oltre dieci anni, ma lo citò varie volte».
A una grande speranza, quella del Burkina nell'ALBA (Alleanza bolivariana), con tanti altri paesi africani, dedichiamo un piccolo sogno, ambientato nel 2017, a trent'anni dalla morte di Thomas Sankara. Che si avveri!

Capodanno 2017. La pagina internet curata in ventidue lingue da un gruppo di studenti del Burkina Faso traccia un bilancio dell'anno appena concluso.

Il nostro paese è stato insignito da Bolivia ed Ecuador del premio "Sumak Kawsay". In lingua quechua andina significa "Ben vivere collettivo". Noi burkinabè ci siamo arrivati in pochi decenni partendo da una condizione di morti di fame, in una nazione che era "il concentrato di tutte le disgrazie del mondo" come disse il nostro presidente Thomas Sankara all'Onu nel 1984.

L'associazione delle coltivatrici del Burkina Faso ha appena assunto la presidenza del movimento agricolo internazionale Via Campesina e, affiancata dal governo, s'impegna a perfezionare l'indipendenza alimentare del paese e lo sviluppo delle condizioni di vita nelle campagne.

La sicurezza e sovranità alimentare ("Mangiamo quello che produciamo, produciamo quello che mangiamo") è da qualche anno raggiunta malgrado le condizioni climatiche non favorevoli, tanto che i nostri agricoltori e nutrizionisti sono regolarmente utilizzati come consulenti anche da un Occidente sempre più in crisi, dove per fortuna i migranti – quelli che non sono ancora tornati nei paesi d'origine – hanno iniziato a prendere in mano la situazione.

Finalmente la barriera contro il deserto in Burkina è ultimata  e alberi resistenti ai climi aridi – neem, moringa, manghi, tamarindi, albicocchi africani, pistacchi, karité, acacie, giuggioli – popolano campagne e città, intorno a case e scuole dotate di pannelli fotovoltaici, essiccatoi, pompe, cucine, macchinari agricoli, tutto a energia solare.

Stiamo esportando nei paesi amici diversi principi attivi di origine agricola utili a curare malattie di massa prima trascurate; otteniamo in cambio materie prime necessarie e tecnologia. Ormai facciamo parte di un pool internazionale riconosciuto in materia di sanità per tutti, insieme – fra gli altri –  a Cuba e Venezuela.  

Partendo da una riunione di capi di Stato africani ad Addis Abeba nel 1987, su impulso del nostro presidente Sankara era stato creato un fronte unito contro il debito estero e per l'unione di tutta l'Africa. Ormai il progetto ha dato frutti e il debito ingiusto non lo paga più nessun paese del Sud del mondo… gli speculatori hanno giocato a lungo ma alla fine hanno perso.

Il Burkina Faso e altri venticinque paesi fanno parte dell'ALBA internazionale, Alleanza bolivariana dei popoli dell'America latina, Asia e Africa, un progetto di cooperazione anziché competizione fra paesi fratelli, nazioni sorelle. In origine si chiamava Alba. Nacque nel 2004 in America latina a opera dei governi rivoluzionari di Cuba e Venezuela, e si estese presto ad altri paesi progressisti dell'America del Sud.

Dopo la rivoluzione dell'ottobre 2014, che ha costretto il presidente Compaoré alle dimissioni, il nostro paese è quasi subito diventato il primo membro africano dell'Alleanza, trascinandone poi altri e i risultati in termini di sviluppo corale in pochi anni sono stati così evidenti che i popoli di diversi paesi africani e asiatici hanno votato alle elezioni in favore di candidati che avevano i principi e l'adesione all'ALBA nel loro programma.

Un processo a catena. L'ALBA, i cui membri sono in pace da tempo e non fanno guerre,  è stata nominata dall'Onu come mediatrice nel caso di conflitti interstatuali e interni. Già in varie occasioni, a partire dal 1991 anche prima dell'Alba i paesi non allineati erano riusciti a smascherare di fronte all'opinione pubblica i pretesti che avrebbero condotto a guerre in Medioriente da parte dell'organizzazione militaresca offensiva chiamata «Nato per uccidere», un pool di paesi occidentali belligeranti spesso in combutta con le medioevali petro-monarchie del Golfo.

Dimenticavamo: la Nato è in via di scioglimento. Nessuno ne sentirà la mancanza.

 
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operazione Van Troi

Post n°465 pubblicato il 16 Ottobre 2014 da Guerrino35

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 13-10-14 - n. 515

50 anni dell'Operazione "Van Troi"

Roso Grimau | prensapcv.wordpress.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

06/10/2014

Questo 9 ottobre si compiono i 50 anni dell'Operazione "Van Troi" durante la quale l'Unità Tattica di Combattimento (UTC) "Ivan Barreto Miliani" delle Forze Armate di Liberazione Nazionale (FALN), formata da militanti della Gioventù Comunista del Venezuela (JCV), catturò il Tenente Colonello dell'aviazione degli Stati Uniti, Michael Smolen, secondo agente della CIA in Venezuela, per ottenere uno scambio umanitario col patriota vietnamita Nguyen Van Troi, che era condannato a morte nel Vietnam del Sud.

Il compagno Van Troi, membro dell'Unità Speciale d'Azione Armata del Fronte Nazionale di Liberazione del Vietnam del Sud, era stato fatto prigioniero nell'antica Saigon il 9 maggio del 1964 dalle truppe nordamericane, mentre minava un ponte che si trovava sotto controllo dell'esercito degli Stati Uniti,
a Cong Ly e che sarebbe stato attraversato il giorno seguente dal Segretario della Difesa degli USA, Robert McNamara e dall'ambasciatore Henry Cabot Lodge.

Anche se fu selvaggiamente torturato per cinque mesi, Van Troi mai rivelò come fosse riuscito ad aggirare il sistema di controllo e ad accedere alla zona militare statunitense dove si trovava il ponte. Dopo vari tentativi di fuga, il governo del presidente Khanh, imposto in Vietnam del Sud da Washington, condannò Van Troi a morte per fucilazione il 10 agosto dello stesso anno.

Ricordiamo con orgoglio l'audace azione realizzata dai nostri giovani, storico atto di solidarietà internazionale tra il Venezuela e l'eroico popolo vietnamita, nei momenti in cui questo popolo, diretto da Ho Chi Minh e dal Generale Vo Nguyen Giap, difendeva la propria sovranità e autodeterminazione contro l'attacco criminale delle truppe d'invasione dell'imperialismo statunitense.

L'operazione in marcia

Alla testa della UTC si trovava il compagno Luis Fernando Vera, Comandante Plutarco; si formarono 4 gruppi indipendenti che entrarono in contatto solo tra la fine di una fase dell'operazione e l'inizio della seguente: un gruppo di cattura, uno di trasporto, uno di custodia e l'altro di consegna. Tutti i militanti erano integrati nella JCV, appartenenti al Distaccamento "Livia Gouverneur" del Plotone "Daniel Mellado" della Brigata "Capitano Wilfrido Omaña" delle FALN.

La mattina del venerdi 9 ottobre i compagni David Salazar e Carlos Rey assicurarono un carro per l'operazione, nel quale trasportarono i 4 membri del gruppo di cattura verso il sito della residenza dell'ufficiale della CIA. Alle 8:03 am, Smolen uscì di casa insieme al Colonello Henry Lee. Memtre i compagni Noel Quintero e Carlos Rey vigilavano ogni accesso alla strada, il compagno Carlos Argenis Martínez assicurò, ammanettandolo, la cattura di Smolen; Lee riuscì a scappare.

Qualche minuto dopo, Smolen fu consegnato al gruppo di trasporto a carico del compagno Gonzalo Sepúlveda, il quale portò l'ostaggio nell'appartamento dell'artista Ángel Luque, dove aspettavano il compagno Raúl Rodríguez Fernández e il gruppo di custodia. In questo appartamento Smolen rimase per tre giorni; dopo aver tolto la benda dagli occhi, il gruppo di custodia dialogò con lui sul criminale attacco degli USA in Vietnam e gli spiegò che il suo sequestro aveva il fine di impedire la fucilazione di Nguyen Van Troi.

Si scatena la repressione

In poco tempo, l'agenzia internazionale Associated Press (AP) diffuse al mondo la notizia: Smolen era stato catturato e sarebbe stato fucilato se Van Troi fosse stato assassinato. Il governo imperialista accusò l'inaspettato colpo e ordinò immediatamente di sospendere l'esecuzione del vietnamita. Ma allo stesso tempo scatenò una violenta caccia all'uomo a Caracas, attraverso i suoi agenti della CIA e dell'FBI che dirigevano le forze di repressione del governo del presidente venezuelano Raul Leoni.

Lyndon Johnson, presidente degli Stati Uniti, ordinò al Pentagono di mantenere il contatto permanente con la sua ambasciata a Caracas; tutte le informative dovevano passare dal Dipartimento di Stato per dirigere da lì le operazioni da realizzarsi in Venezuela. Sotto la pressione esercitata dagli USA sul governo di Leoni si creò un comando unificato per il caso, integrato dalla Direzione Generale delle Relazioni Interne, il Servizio d'Intelligence delle Forze Armate (SIFA), la Direzione Generale della Polizia (DIGEPOL) e la Polizia Tecnica Giudiziaria (PTJ).

La violenza fu brutale, ma i giovani comunisti venezuelani mantennero il sequestro di Smolen secondo i piani. Ci furono più di 5 mila arresti, centinaia di incursioni, mobilitazioni di truppe; circa trecento persone vennero imprigionate per indagini, vennero offerte ricompense per coloro che avrebbero dato informazioni sul caso e si pensò all'occupazione militare e alla chiusura dell'Università Centrale. I corpi repressivi, con criminali metodi di tortura, ottennero da alcuni detenuti il tradimento delle identità dei loro compagni.

La liberazione di Smolen

Di fronte al cerchio poliziesco e militare che si stringeva, il comando delle FALN discusse sul da farsi. C'erano opinioni a favore che Smolen fosse giustiziato, ma considerando le ripercussioni che ci sarebbero state sia in Venezuela che in Vietnam, si prese la decisione finale di liberare l'agente della CIA.

Così alle 10:40 pm del 12 ottobre venne liberato con grandi precauzioni per la minaccia repressiva. Il giorno seguente, la polizia politica catturò alcune persone collegate all'operazione e al suo ambiente, fu perquisito l'appartamento dove era stato tenuto in ostaggio fino a poche ore prima.

Immediatamente, le autorità yankee ordinarono al governo fantoccio di Saigon di procedere con l'esecuzione di Van Troi. Il 15 ottobre alle ore 9:45 am, alla presenza di giornalisti e cameramen internazionali, Van Troi, legato mani e piedi, venne legato a un palo di legno. Anche se rifiutò la benda agli occhi, i suoi carnefici gliela apposero; poi gridò le sue ultime parole: "Viva il Vietnam! Lunga vita a Ho Chi Minh"! Allora il plotone di esecuzione sudvietnamita lo fucilò.
 
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le sinistre hanno l'elastico - indice

Post n°464 pubblicato il 19 Settembre 2014 da Guerrino35

 

Indice

 

Senior

Coetanei

Operai

Quando

Scrittore

L'altra metà del cielo

Letteratura

Animali

Carmelo

Babbo Natale

L'invito

Invisibili

5 parole

Religione

No Tav

Democrazia

Chi comanda a Torino

Piccolo è bello

Vicenza

20 mila sul valico

25 Aprile

1° Maggio

Patto di mutuo soccorso

Aria

Inquinamenti

Nuove rotte

Alla tavola dell'Europa

Africa

Il giorno della decadenza

Un altro mondo è possibile

I barbari

La vendetta del Tav

Funerali

 
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Le sinistre hanno l'elastico

Post n°463 pubblicato il 08 Settembre 2014 da Guerrino35

Le Sinistre hanno l'elastico
 
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Le Sinistre hanno l'elastico
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Descrizione prodottoSinossi

Si scrive sempre lo stesso libro. Questo ha il pregio di essere un libro bastardo, incrocio tra saggio e narrativa, che vuol ricostruire una risaia. Si vuol parlare della comunicazione. Si vuol raccontare le difficoltà che si incontrano nel comunicare tra generazioni, tra generi, tra i compagni. Il racconto è esente da fantasia, eccetto piccole porzioni, quando si auspica il cambiamento. Senza fantasia non sarebbero possibili le religioni e neanche il marxismo, che partano da presupposti scientifici e si perdono in ipotesi.

I Balanta, etnia meravigliosa dell'Africa tropicale, non conoscono l'aggettivo "vecchio". Gli anziani sono /lante n'dan/, uomini grandi. Più sei in là con gli anni e più sei grande.

Da noi tentano di emarginarti verso i cinquant'anni buttandoti fuori dal lavoro. Se il lavoro non lo hai mai trovato, non sei mai esistito. Chi invece con la politica o con i soldi o l'arte diventa un personaggio è più vivo degli altri.
Le coordinate di questo libro:
Quando: i primi anni del terzo millennio
Dove: sudovest a sinistra

 
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RANIERO PANZIERI

Post n°462 pubblicato il 05 Settembre 2014 da Guerrino35

 

Cesare PIANCIOLA, Raniero Panzieri, Pistoia, Centro di documentazione ed., 2014, pg. 87, euro 10.

L’interessante e contro corrente collana gli antimoderati, dopo i due testi su Bianciardi e Giovanni Pirelli, prosegue con un interessante saggio di Cesare Pianciola, filosofo torinese, già autore di studi su Marx, Arendt, Sartre e l’esistenzialismo, sulla sempre attuale, anche se colpevolmente dimenticata, figura di Raniero Panzieri.

Panzieri (1921- 1964) è intellettuale e dirigente socialista dall’immediato dopoguerra. Partecipa alle lotte contadine e alla riorganizzazione del PSI in Sicilia, quindi, a livello nazionale, alla proposta di politica culturale del PSI (vedi Mariamargherita SCOTTI, Da sinistra, Roma, Ediesse ed, 2011) e alla miglior fase della rivista “Mondoperaio”. Vittorio Foa scrive di lui: Panzieri reintrodusse, in forma non scolastica o accademica, ma militante il marxismo teorico in Italia.

Questo nella ricca e tumultuosa fase che segue il 1956 e apre la strada ai fervidi anni ’60, alla rimessa in discussione delle ortodossie e delle certezze e che per Panzieri significa opposizione alla scelta per il centro sinistra del suo partito, emarginazione e ricerca di una via autonoma che lo porta alla fondazione dei “Quaderni rossi”, sino alla morte improvvisa e prematura.

Pianciola non percorre l’intera vita di Panzieri, ma si sofferma sulla fase che giudica più creativa e feconda, quella dei “Quaderni rossi” e della riproposizione di un marxismo non scolastico.

Tre gli elementi di ricchezza dei “Quaderni rossi” evidenziati nel testo:

  • Il ritorno a Marx, attingendo non alle scuole marxiste, ma a lui direttamente, come strumento per l’analisi del capitalismo

  • La lettura del capitalismo come formazione dinamica, che supera quella di un capitalismo italiano “straccione” e ritiene che la lotta di classe sia prodotta ai livelli più avanzati

  • Il rifiuto dello schema dell’integrazione della classe operaia.

Sempre operando una sintesi di un pensiero e di temi molto complessi, l’autore ricava quattro tesi dal lavoro panzieriano svolto nei suoi ultimi anni:

  • La critica dell’ortodossia dello sviluppo delle forze produttive ostacolato dai rapporti capitalistici di produzione e critica della visione apologetica del progresso tecnico- scientifico diffusa nella vulgata matxista

  • Nel capitalismo la concorrenza è una fase soltanto transitoria e, inversamente, la pianificazione non è sufficiente a caratterizzare il socialismo

  • Nelle lotte dei lavoratori, sia nella società capitalistica sia nei paesi socialisti, c’è l’istanza di una democrazia non delegata, come potere diretto a partire dai luoghi di produzione

  • Il livello della coscienza di classe – nei suoi aspetti antagonistici e non solo conflittuali- non si lascia dedurre dall’analisi delle trasformazioni oggettive del capitalismo: occorre l’inchiesta operaia.

Proprio all’uso socialista dell’inchiesta operaia è dedicato l’ultimo scritto di Panzieri che la legge come nesso tra elaborazione teorica e verifica pratica. E’ questo uso critico degli strumenti sociologici, questo uso “marxista” della sociologia ad impedire ogni caduta in una visione mistica del movimento operaio, rimproverata a chi (Tronti, Asor Rosa, Negri…) nel 1963, dà vita, da una frattura nei “Quaderni rossi”, alla rivista “Classe operaia”.

Il testo, oltre ad una analisi delle tematiche panzieriane, offre una breve biografia, una attenta bibliografia, una postfazione di Attilio Mangano, numerose testimonianze (Foa, Asor Rosa, Tronti, Fortini, Fofi, Lanzardo, Ferraris, Baranelli, Lanzardo, Masi, Miegge, Mottura, Rieser) che ripercorrono, anche criticamente, alcuni aspetti del suo pensiero. Ne emerge uno spaccato del dibattito politico- culturale di una stagione che può parere lontana, ma che offre elementi di analisi che si dimostrano invece molto attuali.

La sintesi del pensiero e dell’opera di Panzieri è inserita da Pianciola nel quadro del dibattito culturale degli anni ‘50/’60.

La affermazione di Panzieri come maggiore interprete del ritorno a Marx è inquadrata in uno studio, sintetizzato in poche pagine, ma di grande profondità sul marxismo degli anni ’60.

Pianciola riesce, con grandissima capacità, a padroneggiare le diverse tesi del marxismo come storicismo, come scienza positiva (Della Volpe), le tematiche della scuola di Francoforte, la lettura di Marx fondata sui Grundrisse, la scoperta di Lukàcs e Korsch, il materialismo di Timpanaro, il neopositivismo.

Questa ricchezza di dibattito e di posizioni è alla base della ricaduta politica dei primi anni ’60 e della stagione successiva, dalle Tesi sul controllo operaio alla “stagione delle riviste”, dal “ritorno a Lenin” alla ricerca di parti, rimosse, della storia del movimento operaio.

Le ultime pagine, di grande profondità ed attualità, partono dalla valutazione di un Panzieri rifondatore del marxismo militante in Italia, ma si chiedono quanto resti del ricco dibattito sul marxismo e se e quanto sia possibile riferirsi a Marx, nella complessa e mutata realtà attuale.

La panoramica offerta di posizioni, valutazioni, interpretazioni anche diverse spazia da Sartre a Merleau Ponty, da Aron a Bobbio, da Giolitti a Chiodi, da Negri a Bellofiore e costituisce una sorta di saggio nel saggio che si chiude con la valutazione della necessità di un approccio a Marx come classico imprescindibile, ma non direttamente spendibile in un programma politico.

Certo, Panzieri avrebbe trovato questa conclusione “revisionista”, nel suo coraggio di andare contro corrente, di cercare nuove strade, nella sua speranza di un socialismo diverso da quello dei regimi autoritari che ne avevano usurpato il nome, di accettare l’emarginazione.

Il mezzo secolo che ci separa da lui esige bilanci, giudizi anche diversi. Ad esempio, del tutto differenti sono le conclusioni sulla sua attualità in Paolo FERRERO (a cura di), Raniero Panzieri, un uomo di fontiera, Milano- Roma, ed. Punto rosso- Carta, 2005.

Un testo breve, aperto, da discutersi, volutamente non una biografia, ma un saggio aspetti centrali del grande laboratorio aperto da Panzieri.

Il ricordo, leggendo queste pagine, non può non andare all’amico Vittorio Rieser che ci ha recentemente lasciati.

Sergio Dalmasso

 

 

 
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il nostro Gramsci di Sergio Dalmasso

Post n°461 pubblicato il 31 Agosto 2014 da Guerrino35

 

Sergio Dalmasso

 

IL NOSTRO GRAMSCI.

 

Possiamo schematicamente dividere l’attività di Gramsci in tre periodi: gli anni torinesi e l’ ”Ordine nuovo, la costruzione del partito, il carcere. Li percorriamo sinteticamente, facendo seguire alcune brevi considerazioni.

 

Gli anni torinesi e l’ “Ordine nuovo”

Antonio Gramsci è a Torino all’età di vent’anni, nel 1911, vincitore di una borsa di studio per la frequenza della facoltà di lettere.

In Sardegna ha maturato le prime letture (Salvemini, Croce, Marx, “La Voce”), aderendo a tesi autonomistiche (è da discutersi se, in seguito, abbandonate o meno).

Nel 1913 si iscrive al PSI, anche per la profonda amicizia con Angelo Tasca che gli trasmetterà una forte impronta culturale e pedagogica. Torino è il maggior centro industriale del paese e non è retorica l’affermazione per cui il giovane studente va a scuola dalla classe operaia, pur mantenendo sempre uno spiccato interesse meridionalista (la lezione di Salvemini).

Nel 1915 la svolta nella sua vita:

Sono entrato nell’ “Avanti” quando il PSI era ridotto agli estremi…liberamente, per convinzione. Nei primi giorni del dicembre 1915 ero stato nominato direttore del ginnasio di Oulx, con 2500 lire di stipendio e tre mesi di vacanza. Il 10 dicembre 1915 mi sono invece impegnato con l’ “Avanti”, per 90 lire al mese di stipendio.

Qui si manifestano i suoi interessi: l’attenzione alla cultura, al teatro, al costume, al senso comune. La sua rubrica “Sotto la Mole”, calendarietto di vita cittadina, modifica il linguaggio, trasforma il pettegolezzo di tanti giornali, affronta, attraverso pagine minute di vita, aspetti complessivi, così come i suoi articoli politici.

Dopo i moti torinesi contro il caro vita e la guerra, nell’agosto 1917, diviene segretario della sezione socialista e direttore del “Grido del popolo”. Nel novembre, dopo Caporetto, è delegato al convegno nazionale della frazione massimalista. Le iniziali incertezze, con qualche simpatia interventista, si è trasformata in un chiaro astensionismo.

Il 1 maggio 1919 nasce l’ “Ordine nuovo”, inizialmente settimanale. Siamo nel cuore del “biennio rosso”, massimo intreccio tra la crisi del capitalismo internazionale e la spinta operaia che sogna di fare come in Russia, di trasformare e rovesciare il mondo poggiandolo sulle classi subordinate.

La testata del settimanale sintetizza elementi del pensiero gramsciano: la spontaneità e le spinta delle masse (Agitatevi), la necessità di forza e di strutturazione politica (Organizzatevi), la necessità dell’istruzione, della formazione, della cultura (Istruitevi). L’influenza del leninismo e della rivoluzione sovietica si coniuga con la impietosa analisi delle organizzazioni operaie e dei sindacati tradizionali.

E’ la fase in cui maggiormente Gramsci concepiscel’organizzazione politica come necessariamente fondata sulla fabbrica, sul ruolo centrale dell’operaio nel processo produttivo. Il capitalismo è caratterizzato da concorrenza, anarchia nella produzione, individualismo, disordine, indisciplina.

L’alternativa è data dalla fabbrica, dalla coesione materiale del proletariato; è la fabbrica a costituire il modello organizzativo, su essa si modella il futuro dello stato operaio. I lavoratori sono educati alla rivoluzione comunista da questo apparato.

Inevitabile la teorizzazione del doppio potere. E’ il rapporto tra operai nella produzione a sviluppare modi di vita e di pensiero alternativi a quelli della borghesia e la conseguente necessità di una struttura organizzativa. I consigli operai sono, quindi, intesi come strumento di lotta rivoluzionaria e, al tempo stesso, come modello istituzionale per lo stato operaio. Nel ’20, Gramsci, avendo acquisito la teoria leniniana del dualismo di potere, scrive: Esistono due poteri in Italia.

E’ chiaro, oggi, il nodo problematico: è in discussione l’ideologia della neutralità delle forze produttive e dell’organizzazione del lavoro, propria anche del Lenin di Soviet più elettrificazione.

Il 1 gennaio 1921 l’ “Ordine nuovo” si trasforma in quotidiano. 20 giorni dopo a Livorno viene fondato il Partito comunista d’Italia (PCd’I). Il gruppo torinese, pur rappresentando la più significativa esperienza di massa è inizialmente subordinato all’esperienza e all’iniziativa della componente che fa capo ad Amadeo Bordiga.

La convinzione comune è che la situazione veda ancora la fase ascendente aperta dalla rivoluzione sovietica, che il capitalismo non significhi che putrescenza e caos, che l’emergente fascismo no sia pericolo reale, ma un semplice colpo di coda. Da qui la critica frontale al Partito socialista e alla CGIL, in Gramsci mai così netta.

 

La formazione del partito

Il partito bordighiano è centrato su un programma comunista, su una concezione statica del marxismo, fondato su principi immutabili, sulla proposta astensionista.

La tendenza comunista astensionista non ha mai avuto la pretesa che le viene affibbiata di essere la più fedele interprete del pensiero di Lenin. Essa ha sempre sostenuto che il bolscevismo non è altro se non il richiamo al più rigido, severo, classico, marxismo al quale continuamente fa appello e a cui continuamente si riporta lo stesso Lenin.

Il gruppo torinese, nei primi anni subordinato a questo (Gramsci avrà sempre grande stima per la statura politica di Bordiga) inizia nel ’23 a proporre un’altra ipotesi di partito e di lavoro politico.

La caratterizzano la creazione di cellule nei luoghi di produzione, l’impegno nel sindacato, la centralità della fabbrica, l’attenzione alla formazione dei quadri (le scuole di partito).

Nel 1924, anche per l’intervento e l’appoggio dell’Internazionale, Gramsci è in maggioranza.

Sono gli anni in cui, nonostante l’affermarsi della dittatura fascista, il PCd’I cresce, raddoppia il numero degli iscritti, nasce e si afferma il quotidiano “L’Unità”; sull’onda dell’opposizione aperta dall’indignazione per il delitto Matteotti, il partito sembra ritrovare slancio e ruolo. Tutti gli scritti di Gramsci colgono le grandi potenzialità, ma contemporaneamente la sproporzione fra la spinta di massa e le capacità ancora insufficienti dell’organizzazione politica.

L’affermazione definitiva della nuova direzione è segnata dal congresso di Lione (1926) le cui tesi segnano un grande documento, capace di analisi strutturale, di applicazione del marxismo all’analisi concreta della realtà italiana ed internazionale.

Le tesi propongono la linea di massa per il partito, il funzionamento collegiale degli organi politici, il maggior ruolo degli organi periferici, la capacità di calarsi nel lavoro illegale, l’analisi precisa dell’imperialismo italiano, l’attenzione alla questione contadina e all’influenza della religione cattolica sulla società, in particolare sulla masse contadine meridionali, propone l’incontro di operai e contadini in un blocco storico capace di trasformare la società.

L’originalità e l’anticonformismo di Gramsci, autentico marxista critico, si manifestano nel 1926, quando davanti allo scontro nato nel Partito comunista dell’URSS, una sua lettera critica metodi e deformazioni che stanno affermandosi. La lettera è bloccata da Togliatti che risponde nervosamente e per anni ne sarà negata l’esistenza (verrà pubblicata ufficialmente solo nel 1966) e denota, indubbiamente una lettura diversa delle caratteristiche della società socialista. Trotskij, Zinoviev e Kamenev hanno posizioni errate, ma ci hanno educati…ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati fra i nostri maestri. La maggioranza non deve stravincere, deve evitare le misure eccessive. E’ ovvio che già nel ’26 e più ancora dal carcere, il confronto fra la realtà dello stalinismo e gli anni e la prassi leninista portino il comunista italiano a riflettere sui pericoli di degenerazione e di potere personale in URSS e sulla degenerazione che sta investendo il movimento internazionale.

 

Il carcere

Ancor più netto, ormai dal carcere di Turi, il dissenso di Gramsci nel 1929, davanti alla ennesima, netta svolta dell’ Internazionale. La crisi economica viene letta, da parte comunista, come il segno dell’imminente crollo del sistema capitalistico e della inevitabile vittoria di una ipotesi rivoluzionaria, solamente “sospesa”dopo il biennio 1919- 1920. In questo quadro, il compito dei comunisti italiani sfuggiti alla repressione fascista è il rientro in Italia, paese prossimo non solo al crollo del regime, ma alla rivoluzione sociale; la parola d’ordine: Tutti in Italia, conseguenza di questa analisi schematica e scolastica, è contraddetta da Gramsci che dal carcere elabora una ipotesi politica radicalmente diversa:

- E’ assurda l’ipotesi del crollo imminente a livello mondiale del sistema capitalistico,

- è errata l’ipotesi del socialfascismo (un blocco unico contro il comunismo che accomuna fascismo e forze democratiche) che tra l’altro cancella e vanifica tutta la polemica leniniana contro l’estremismo,

- tra fascismo e socialismo è necessario prevedere una fase di transizione (la Costituente non come fine, ma come mezzo in cui trovino posto le rivendicazioni più immediate della classe lavoratrice).

L’isolamento in cui Gramsci passa gli ultimi anni della sua vita, i contrasti con gli stessi compagni di carcere sono conseguenza di queste posizioni e sono documentati dalle lettere.

Per questo, l’albero genealogico spesso presentato: Gramsci- Togliatti- Longo- Berlinguer è elemento propagandistico, non sempre motivato, o comunque da discutere storicamente se non politicamente.

 

Per una riflessione

Un uomo isolato, distrutto fisicamente e psicologicamente produce, dalla cella di un carcere, con quasi inesistenti contatti con il mondo esterno e con pochissimi strumenti, una delle opere di maggior importanza per la cultura, non solamente italiana, del ‘900. La prima, certo imprecisa, suddivisione dei Quaderni dal carcere, così li titola tematicamente: Materialismo storico, Gli intellettuali, Sul Risorgimento, Note sul Machiavelli, Letteratura e vita nazionale, Passato e presente.

Chiaro l’intendimento di una riflessione non contingente, ma di lungo periodo.

Il marxismo della Seconda internazionale ha piegato il pensiero critico e dialettico di Marx verso una china oggettivistica e scientifica. Leggi oggettive regolano lo sviluppo della natura e la storia. Le leggi dell’evoluzione, applicabili nello studio della continua e progressiva evoluzione della specie, sono da applicarsi anche alla storia. L’affermazione della classe operaia è un portato dell’evoluzione e avverrà attraverso progressive conquiste e dislocamenti progressivi del potere (vedi, per questa interpretazione: Lelio BASSO, Socialismo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1980).

Bernstein, Kautsky, Plechanov…pur nelle differenze, concordano su questa prospettiva gradualista.

Gramsci, fin dai suoi primi scritti, rivaluta, al contrario l’intervento attivo dell’uomo nella storia. La rivoluzione contro il Capitale, scritto con cui saluta la rivoluzione sovietica, è l’esaltazione dell’intervento cosciente che ha piegato le leggi ferree dell’evoluzione, a parer suo, teorizzate nel Capitale di Marx.

Fra le due guerre, la spaccatura fra le due letture del marxismo si accresce. La situazione (isolamento dell’URSS, crescita della destra) favorisce l’irrigidimento ideologico. In URSS si conia, come dottrina ufficiale, il materialismo dialettico (Diamat). Stalin scrive Sul materialismo dialettico e sul materialismo storico. Ogni deviazione dalla dottrina ufficiale è considerata errore e tradimento, strumento utile per la reazione.

Contro l’economicismo che considera unicamente la base economica e in contrapposizione a questa logica riduttiva e parziale vengono pubblicati, nel 1923, due testi: Storia e coscienza di classe di Gyorgy Lukacs e Marxismo e filosofia di Karl Korsch.

In questi, la logica è opposta. Cardini del loro pensiero sono il concetto di totalità e il ruolo centrale del proletariato. Per comprendere un fenomeno storico, occorre tenere conto di ogni dato, del contesto, non solamente del quadro economico. E’ il materialismo storico di Marx a darci la chiave per comprendere i fenomeni storici; una visione globale non appartiene a tutti, ma solamente a chi si immedesima nella coscienza collettiva di una classe sociale. La borghesia può cogliere la totalità, ma la vede nei rapporti economici, nella merce. Solamente il proletariato può spezzare questa logica, vedendo la società nella sua realtà. E’ il comunismo la società in cui i rapporti fra esseri umani non sono più sottoposti alle regole di mercato.

Nel 1925, il quinto congresso dell’Internazionale “scomunica” i due testi come cedimento piccolo borghese a concezioni idealistiche. Il Diamat si afferma come legittimazione della società esistente.

Anche la Scuola di Francoforte, con il suo tentativo di legare marxismo e psicoanalisi, di inserimento di questa in una sfera sociale, con la sua grande capacità di lettura della società di massa e dell’autorità in tutte le sue forme, sarà oggetto di una chiusura totale e riscoperta (non a caso come Rosa Luxemburg) solamente negli anni ’60.

Davanti alla sconfitta politica e all’impoverimento culturale del movimento comunista, è Antonio Gramsci l’autore della più compiuta riflessione sullo scacco degli anni ’20 e contemporaneamente e teorizzatore di un pensiero (e forse addirittura di un comunismo) diverso e più ricco.

 

I Quaderni dal carcere

Di questi che rappresentano uno dei maggiori contributi alla cultura italiana del ‘900 e al marxismo teorico e che offrono, a distanza di 80 anni, apporti alla filosofia, al pensiero politico, alla storiografia internazionale (bastino il concetto di egemonia, il rapporto dialettico struttura/ sovrastruttura, o il nesso stato/società civile) isoliamo unicamente alcuni temi.

La critica a Bucharin. La propaganda marxista ha spesso prodotto una fase popolaresca, con tendenze deterministiche, fatalistiche, meccaniche. In fasi di sconfitta, questa concezione può divenire elemento di forza, di fede, di resistenza. Al contrario, quando il movimento rivoluzionario diviene forza dirigente, l’interpretazione meccanicistica si trasforma in un pericolo.

Esempio di questa semplificazione è il testo di Nicola Bucharin La teoria del materialismo storico, manuale popolare di sociologia marxista (1921) che riduce la filosofia della prassi (come Gramsci, non solo a causa della censura carceraria, chiama il marxismo) a ideologia, a verità assoluta, volgarizzandola.

Il marxismo rischia di essere ridotto alla teorizzazione di tesi meccanicistiche, di divenire un sistema dogmatico di verità assolute che giudica come assurde e prive di fondamento tutte le teorie precedenti: E’ indubbio come la critica gramsciana tenti di ridare al marxismo la veste di filosofia critica della storia e attribuisca centralità al momento filosofico superiore rispetto alle altre fonti (economia politica classica, rivoluzione francese) che riesce a sintetizzare.

La sua interpretazione coglie la natura anche filosofica della critica dell’economia politica contro la Seconda internazionale che nel Capitale vede solamente una nuova e superiore teoria economica. La critica dell’economia politica investe, invece, l’intera società capitalistica, in tutti i suoi aspetti, come “non universale”, ma capace di rispondere solo ad una classe sociale.

Il confronto con Croce. E’ indubbio che il confronto, anche se dal carcere, con Croce, coinvolga le due maggiori personalità culturali del ‘900 italiano, perlomeno quelle che maggiore influenza hanno avuto sul clima e sulla formazione intellettuale del nostro paese.

Se una ripresa del marxismo può avvenire solo confrontandosi con il livello più alto della cultura mondiale, in Italia il passaggio per la critica alle posizioni crociane è inevitabile. Diversa è la concezione dell’intellettuale (“tradizionale” in Croce, centrato sulla militanza politica nei Quaderni), netta la critica al peso avuto dai grandi intellettuali meridionali nella formazione complessiva della cultura e del senso comune nelle regioni del sud: Croce è una specie di papa laico. E’ il legame organico al proletariato a permettere all’intellettualità di avere un nuovo ruolo, di assumere impegno politico davanti ai nodi storici reali.

Tornano e si esplicitano, in questo confronto, i grandi temi del pensiero gramsciano: la questione meridionale, il ruolo della religione cattolica, il superamento dell’intellettuale “tradizionale” in quello “collettivo”

 

Il Risorgimento. Il Risorgimento italiano è “rivoluzione passiva”, cioè rivoluzione borghese parziale ed incompiuta. In esso non hanno avuto ruolo le grandi masse popolari, in particolare il mondo contadino. Le forze borghesi, ma anche quelle democratiche, rappresentate soprattutto dal Partito d’Azione non hanno saputo e voluto promuovere quella riforma agraria che sola avrebbe potuto muovere le masse contadine, legando ‘idealità nazionale a precise e concrete motivazioni sociali.

Questo mancato collegamento ha avuto conseguenze gravi e irrimediabili per lo stato unitario che si è costruito sul legame tra grandi proprietari terrieri meridionali e la nascente industria del nord, escludendo totalmente le masse popolari (contadini, operai…). La permanenza, a sud, di residui feudali e la politica reazionaria delle classi dirigenti hanno permesso una politica che non ha mai affrontato le grandi questioni sociali, la questione meridionale, quella della partecipazione del proletariato, scaricando sulla migrazione, su un ritardato colonialismo da piccolo imperialismo, su un intreccio fra repressione e clientelismo i problemi irrisolti.

Da qui la cronica debolezza istituzionale, da qui l’incompiutezza, a confronto con altri paesi, della nostra democrazia, da qui l’avvento del fascismo come risposta al fallimento dell’Italia liberale.

 

Americanismo e fordismo. L’imperialismo statunitense, affermatosi già negli ultimi decenni dell’ ‘800, agisce, con tutto il suo peso, sull’intero ventesimo secolo (tralasciamo considerazioni sull’oggi), a causa della sua grande potenza economica e militare, ma anche per una evidente egemonia politico- culturale. Nella riflessione di Gramsci emerge nettamente il legame organico fra l’egemonia americanista e le punte più avanzate del capitalismo. L’americanismo, quindi, non è limitato agli USA, ma è da intendersi come forma universale dell’egemonia capitalistica.

Oltre all’aspetto strutturale, l’analisi tocca il nuovo tipo umano che esso produce. L’uomo ridotto a scimmia dalla taylorizzazione, controllato in ogni aspetto della vita (dalla produzione, alla famiglia, al tempo libero) è esemplificato dall’espresione “uomo scimmia” e, nel cinema, dal personaggio chapliniano di Tempi moderni.

Il fordismo è caratterizzato dalla radicalizzazione e generalizzazione del taylorismo, dalla sussunzione diretta, sotto il capitale, di ogni forma di riproduzione della forza lavoro.

Ancora una volta, come già negli scritti sull’ “Ordine nuovo” circa la crescita della classe operaia e del regime di fabbrica, Gramsci coglie l’aspetto potenzialmente positivo di questo processo: l’americanismo e il fordismo derivano dalla necessità di pervenire ad una economia programmata. Questa segna il passaggio da un capitalismo individualistico ad uno monopolistico. Qui sta il terreno concreto, perché il proletariato possa rovesciare il capitalismo.

E’ ovvio che oggi l’eccezionale attualità dell’analisi gramsciana e della sua “scoperta” (chi altri coglie la enorme novità nell’economia, nella politica e nel modo di pensare di quella trasformazione nel momento in cui si svolge?) debba essere verificata a distanza di decenni.

La quasi scomparsa dell’operaio- massa nei paesi occidentali è compensata dalla crescita industriale in nuove aree? E’ corretto parlare di post fordismo davanti a paesi come Cina, India, all’area asiatica? Perché non si è verificata la previsione gramsciana secondo la quale contro l’americanismo sarebbe cresciuto lo spirito critico e invece crescono i fenomeni di spoliticizzazione e di conformismo di massa?

E’ chiaro che anche Antonio Gramsci sia da rileggere criticamente. Anche a settant’anni dalla morte.

In sintesi.

  • L’opera di Gramsci è da intendersi come unitaria e non è corretto contrapporre il periodo ordinovista a quello “partitista” a quello dei Quaderni.

  • I Quaderni non presentano una tematica del tutto nuova e diversa rispetto alle elaborazioni precedenti l’arresto (1926), ma una matura sistemazione teorica di problemi sorti nel corso della attività politica.

  • Il pensiero gramsciano si sviluppa interamente attorno alla scelta irreversibile compiuta nel 1917: adesione alla rivoluzione d’Ottobre e alla concezione della democrazia soviettista, non migliore, ma del tutto diversa rispetto alle altre forme di governo e concezioni della democrazia.

 
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Le sinistre hanno l'elastico

Post n°460 pubblicato il 20 Agosto 2014 da Guerrino35

L LIBRO

Il libro, dal titolo “Le sinistre hanno l’elastico”, parla della comunicazione. Comunicazione tra generazioni, tra generi, tra schieramenti politici. I Balanta non conoscono l’aggettivo “vecchio”, gli anziani sono i “lante n’dan”, uomini grandi. Sull’Africa i mezzi di comunicazione di massa continuano a ripetere e alimentare i pregiudizi più assurdi, che il testo tenta di scardinare.

Per leggere un’anteprima del libro cliccate qui!

 

Guerrino Babbini

 
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le bombe

Post n°459 pubblicato il 20 Agosto 2014 da Guerrino35

Le bombe alimentano rabbia, paura e guerra.
La giustizia non scende dai cieli
né con le bombe né con gli aerei-bomba:
può solo salire dalla terra, dal grido delle vittime.
Noi lottiamo per esistere in pace e dignità.
La nostra Intifada si chiama Serhildan
ed ha lo stesso significato della parola palestinese:
camminare a testa alta.
Lottiamo contro una globalizzazione che nega i kurdi,
i palestinesi, gli indios, che nega interi continenti,
ma anche bisogni e soggetti qui in occidente.
Lottiamo per esistere liberi e uguali,
non per schiacciare altri popoli.
(intervento di Hevi Dilara, militante kurda del PKK
Roma, 8 novembre 2001, un mese dopo l'inizio della guerra in Afghanistan)

 
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Joia

Post n°458 pubblicato il 29 Novembre 2013 da Guerrino35

La figlia di Sachù
Come un chicco di riso.
E’ una bella bambina con un bel nome, Joia è nata il 17 gennaio del 2011. Qualche giorno prima della mia visita per il censimento, era caduta nel fuoco – una disgrazia molto frequente qui, in maggioranza ne sono vittime i bambini, nel villaggio ne ho visto almeno una decina di piccoli con il corpo marchiato dal fuoco o dall’acqua bollente - che tutte le mattine viene acceso per scaldarsi dopo il freddo patito durante la notte. Cadendo, istintivamente aveva allungato le braccia per proteggersi ed a causa del suo peso erano penetrate nelle braci. Il viso non aveva subito danni, ma aveva ustioni fin sopra il gomito. Ora, gli arti superiori gonfi e sanguinolenti, erano ricoperti da specie di bambagia, forse cotone, che serviva a non far posare sulla ferita le mosche ed assorbire il liquido che fuoriusciva dalle piaghe.
Avanzava ondeggiando, come sulla tolda di una nave durante la tempesta,sul terreno accidentato del cortile. Le braccia le portava alzate sopra la testa per evitare lo sfregamento contro i vestiti. Questa postura la induceva ad un instabile equilibrio che, inevitabilmente la faceva incespicare e cadere. Per rialzarsi appoggiava le braccia e le mani a terra imbrattandole di polvere. Ripartiva, e, per l’insicuro incedere della sua età ricadeva dopo qualche passo.
Erano le dieci del mattino, la temperatura, sui venti gradi – come è diversa la percezione individuale dell’ambiente esterno – una condizione per me gradevole, per loro fredda. Il padre sembrava assente, sordo, relegato in un mondo lontano dove non arrivavano i lamenti della figlia. Quasi fosse preda di una sonnambula veglia o nella fase di smaltimento dei postumi di una abbondante bevuta. Accucciato vicino al fuoco si scaldava allungando le mani verso la fiamma. Improvvisamente si risvegliava dal suo stato di catarsi ed iniziava ad imprecare contro la sorella più grande intimandogli di aiutare la piccola. Altrettanto subitaneamente tornava ad essere avviluppato dal lento processo di risveglio delle funzioni del corpo e della mente infreddoliti.
A qualche metro in coppia, le giovani mogli, una delle quali era la madre, pilavano il riso. Con ritmo sincronizzato si alternavano, alzando ed abbassando con forza nodosi bastoni alti più di un metro e rigonfi alle estremità, dentro grossi mortai di legno. Ad ogni colpo un sordo rumore, i chicchi di riso proiettati ai bordi volavano verso l’alto lambendo le pareti, qualcuno riusciva a conquistare la libertà. Finalmente fuori! Sfuggiti alle percosse! Trovavano fuori le galline in agguato che accorrevano per beccarli.
Ogni tanto, anche le madri marcavano la loro presenza. Ad alta voce, aggiungevano i loro rimbrotti a quelli del padre e contemporaneamente continuavano nel loro pestare, lontane dal portare un qualche aiuto.
Perché non l’avete portata subito a medicare, chiesi arrabbiato! Il padre con un sorriso risponde di non avere denaro. Anzi, pretendeva 100 F cfa per comprare dello zucchero! Già alterato, per come si stavano svolgendo i fatti. Sgarbatamente gli dissi che, non avrebbe ricevuto niente se prima non avesse condotto la bimba nella nostra infermeria per prestarle le cure che le erano indispensabili!
Durante questo battibecco, erano stati liberati maiali e capre che ora scorrazzavano nel cortile, i ragazzini maschi facevano uscire le mucche dal recinto interno adiacente la casa, le radunavano per portarle al pascolo ed iniziare la loro giornata di guardiani. In brevissimo tempo tutta l’aia fu punteggiata da escrementi di varie fattezze e dimensioni. La bambina piangente, invano, cercava di rimanere in piedi ed evitare di finire sopra le deiezioni. La sua esistenza era iniziata sotto una cattiva stella, se supererà tutto questo, l’aspetta comunque una vita ben grama. Lei però lotta, con tutte le sue forze, per poterla vivere fino in fondo, rialzandosi.
Non la rividi più, ripartii per l’Italia due giorni dopo.
Pino

 
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Libia a due anni

Post n°457 pubblicato il 21 Novembre 2013 da Guerrino35

www.resistenze.org - popoli resistenti - libia - 18-11-13 - n. 475

Libia: A due anni dalla "liberazione". Cosa ha portato la guerra della NATO?

Enrico Vigna

novembre 2013

A poco più di due anni dalla "liberazione" dal "regime" di Gheddafi, imposta dalla cosiddetta "coalizione dei volonterosi" occidentale (leggasi, al di là di retoriche e demagogie, paesi aggressori e NATO) può essere illuminante, per capire di quante menzogne e falsità mediatiche ci nutrono, fare un punto sulla situazione nel paese e sul livello di violenza e terrore nella realtà della vita quotidiana del popolo libico.

Soprattutto può aiutare a riflettere sulle manipolazioni usate per fare le "guerre umanitarie" e per i diritti umani, e appurarne i risultati nel concreto della vita dei popoli.

La Libia di oggi è un territorio senza più alcuna legalità, a detta di osservatori  internazionali, esperti, giornalisti e testimoni sul campo, Ong come Human Right Watch ed anche l'ONU nell'ultimo rapporto di quest'anno redatto dalla sua missione in Libia (UNSMIL), ha denunciato l'uso sistematico della tortura, dello stupro, di omicidi, di indicibili e feroci atrocità perpetrate nelle prigioni e nei siti a disposizione delle milizie e delle bande criminali che controllano il paese, usati per la detenzione. Un paese teatro di una vera e propria guerra tra bande jiahdiste e criminali che si sono spartite geograficamente il paese e le sue risorse.

Ogni milizia ha creato una ''giustizia privatà", ogni gruppo di mercenari possiede una prigione privata dove rinchiudere e torturare i propri detenuti.

Tutti conoscono il caso di Saif Al Islam Gaddafi, detenuto illegalmente a Zilten ma altri 8000 detenuti si trovano nelle stesse situazioni. Il dato è confermato anche dal Ministero di Giustizia del governo centrale di occupazione, totalmente impotente di contrastare lo strapotere dei battaglioni di mercenari che infestano la Libia.

A fianco di tutto questo c'è un altro aspetto che non ci dicono ma è documentato, ed è il radicamento sempre più largo del Movimento di Liberazione Nazionale, testimoniato dai documenti e comunicati, e dal crescere costante delle attività militari e armate, contro le strutture ed i leader del governo fantasma insediato dalla NATO, ma che in realtà non ha il controllo neanche della capitale.

In una galassia di centinaia di piccole bande e milizie che gestiscono il potere anche solo su quartieri o piccoli villaggi, le due forze mercenarie più forti, sono i salafiti nell'area di Tripoli e le milizie dello "Scudo della Libia" nell'area di Bengasi; questo insieme di bande, impongono leggi loro, vessazioni, tassazioni inique, violenze sistematiche. Quotidianamente la cronaca riporta notize di scontri, sparatorie, attentati, assalti, omicidi fra loro per sopraffare gli altri. Se si sommano alle attività di guerriglia delle Forze di liberazione nazionale, si può immaginare la quotidianeità e la vita delle famiglie libiche.

L'uccisione lo scorso anno del console USA a Bengasi è stato solo il fatto più eclatante e mediatico, ma in questi due anni sono ormai migliaia i morti in uno stillicidio giornaliero ed in crescita costante, stando alle statistiche.

Ormai la Libia è un area incontrollabile e dove vi è, al di là delle apparenze, un vuoto di potere neanche più nascosto, ed una gestione militare del territorio da parte delle forze fondamentaliste qaediste e di altre meramente banditesche; tutto questo è confermato dalla CNN, che ha riferito del trasferimento di oltre 250 marines nella base USA di Sigonella ed in quella spagnola di Moron, nell'ipotesi di dover nuovamente intervenire militarmente nel paese. Ulteriore prova è la creazione della Missione militare italiana " Mare Nostrum", su pressione e richiesta della NATO per mettere sotto controllo il Mediterraneo, oltre a quella già in atto di addestramento e formazione di una polizia e un esercito regolari, che forniscono la prova che tuttora non esistono, se non sulla carta. C'è da aspettarsi altre morti e bare italiane (come da Afghanistan e Iraq), in quanto disarmare un numero stimato di 100-150 mila miliziani armati, animati dal fondamentalismo jiahdista più profondo e dal qaedismo organizzato, non sarà una passeggiata.

Quelle stesse forze che fino a ieri, sono state usate come alleati e compari in quanto "combattenti della libertà", oggi non sono più utili o addirittura scomodi, quindi da rimettere in riga o colpire. Altrochè diritti umani, libertà o democrazia, il loro unico obiettivo era la distruzione della Jamahiriya araba, libica e socialista ed il suo leader, non assoggettati agli interessi economici e militari occidentali; forse la loro colpa vera era di cominciare a richiedere il pagamento del petrolio non più in dollari ma in oro e cercare di fondare una nuova moneta comune africana aurea, chiamata "Dinaro africano"; oppure il finanziamento con i guadagni del petrolio libico, di un Fondo Monetario Africano, liberando così i paesi africani e poveri del mondo, dallo strozzinaggio del Fondo Monetario Internazionale? O forse questa continua e intensa campagna gheddafiana per rafforzare e consolidare sotto tutti gli aspetti (politici, economici, militari e culturali) l'Unità Africana come strumento fondamentale di difesa e di emancipazione dei paesi africani?

Il paese è oggi spartito nell'area della Cirenaica detta anche Barqa, di fatto ormai autonoma, guidata dallo sceicco Ahmed al Senussi; la provincia di Misurata che è gestita dalle milizie fondamentaliste che ne hanno preso possesso nel 2011 e da allora non permettono a nessuno di entrarvi; vi è poi la milizia di Zenten anch'essa autonoma da tutti e dove tra l'altro è prigioniero Saif, il figlio di Gheddafi, di cui è stata finora rifiutata la sua consegna a tribunali o corti  libiche o internazionali, lo hanno definito un "loro prigioniero privato", naturalmente torturato; questa milizia controlla anche di fatto l'aereoporto di Tripoli. Quest'ultima città è la sede del governo "ufficiale", in realtà non governa neanche la città stessa, in quanto interi quartieri vivono sotto leggi e regole imposte dalle bande che si sono insediate e li controllano militarmente, con regole e dettami da clan; quotidianamente ci sono scontri armati, incursioni, sequestri, assalti oltre a posti di blocco fissi agli ingressi dei quartieri o improvvisi per imporre vessazioni o vere e proprie rapine ordinarie. Una vera e propria balcanizzazione e parcellizzazione della Libia, senza regole o leggi statali rispettate da alcuno, un paese dove nenache una Costituzione si è  potuta varare.

Dalle donne alla popolazione nera, dai lealisti della Jamahiriya ai cristiani, dagli stranieri ai non praticanti l'islam più fondamentalista, ciascuno oggi in Libia è perseguito, vessato, possibile obiettivo di queste bande che hanno in mano la nuova Libia…ma questo ormai non interessa più a nessuno, in primis a coloro che premevano sul governo italiano di allora, della assoluta necessità di intervenire per "liberare" il popolo libico come in Afghanistan, in Iraq, in Jugoslavia, in Somalia, oggi in Siria…ma essi da buoni "grilli parlanti", vivono tranquilli una vita al caldo, con internet, vacanze, crisi personali o psicologiche passeggere, qualche problema di denaro mai abbastanza per le loro vite agiate e in benessere….proporio come quei popoli "liberati", quasi la stessa vita. Come mi disse una vecchia amica jugoslava…: "…ma perchè si occupano di noi, del nostro paese, dei nostri problemi, dei nostri governi…sono un problema nostro non di intellettuali, giornalisti, politici o pacifisti italiani o occidentali. Forse che da voi non avete problemi e cercano un occupazione?...".  Già…perchè se ne occupano? Risposta non semplice.

Il 17 marzo 2011, il Consiglio di sicurezza, con la risoluzione 1973, ha autorizzato la NATO ad intervenire "per proteggere i civili e le aree civili sotto minaccia di attacco in Libia."

Misuriamo il successo della missione della NATO consultando i seguenti dati:

Nel 2010, sotto il "regime di Muammar al-Gaddafi" c'erano in Libia:
- 3.800.000 libici
- 2,5 milioni di lavoratori stranieri
6,3 milioni di abitanti.


Oggi 2013,
- 1.600.000 di libici sono in esilio mentre ,
- 2,5 milioni di immigrati hanno lasciato il paese per sfuggire alle aggressioni razziste.
Sono rimaste circa 2,2 milioni di persone.  
( da SibiaLiria)
 
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AFRICOM

Post n°456 pubblicato il 14 Novembre 2013 da Guerrino35

Criminali di guerra ruandesi sconfitti in Congo, ma AFRICOM cresce in buona salute

Glen Ford | blackagendareport.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

05/11/2013

Gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di permettere che qualcosa di simile alla giustizia faccia la sua apparizione in Africa centrale

Dopo 17 anni e la morte di sei milioni di congolesi, gli Stati Uniti hanno alla fine cambiato direzione nei loro sforzi per dominare l'Africa centrale. All'inizio di quest'anno, Washington ha tagliato gli aiuti militari al Ruanda, che insieme all'Uganda, altro alleato degli Stati Uniti, ha saccheggiato e terrorizzato il Congo orientale ricco di risorse minerarie sin dal 1996. In tutti questi anni, le amministrazioni Usa repubblicane e democratiche hanno profuso armi e denaro ai due stati clienti, proteggendoli dalle sanzioni dei forum e tribunali internazionali. Il genocidio in Congo era centrale per la politica statunitense nella regione. Mentre moriva l'8% della popolazione della Repubblica Democratica del Congo, i soldati e i teppisti di Ruanda e Uganda si sono arricchiti in qualità di intermediari, spedendo i preziosi minerali del Congo nei forzieri delle multinazionali. Nel frattempo, sia Ruanda che Uganda hanno forniti soldati per ogni missione militare approvata dagli Usa nel continente, in qualità di mercenari americani in Africa.

Allora, perché gli Stati uniti hanno modificato la loro politica? In primo luogo, a causa della pressione internazionale che alla lunga ha reso insostenibile per Washington continuare a inviare i suoi scagnozzi neri per destabilizzare l'Africa centrale. Il presidente Obama ha nominato l'ex senatore del Wisconsin, Russ Feingold, un liberale per gli standard americani, come suo emissario per la regione dei Grandi Laghi in Africa, e ha bloccato la consegna delle armi al Ruanda. Gli americani hanno permesso alle Nazioni Unite di formare una speciale brigata d'intervento di 3000 uomini autorizzata ad usare la forza contro il cosiddetto gruppo ribelle M23, che in realtà è guidato dal governo tutsi del Ruanda. Questa settimana, le forze d'intervento dell'Onu, sostenute dall'esercito congolese hanno sconfitto il gruppo M23, spingendo alla fuga i suoi resti attraverso i confini ruandesi e ugandesi. I "ribelli" hanno annunciato la fine alla loro insurrezione.

Non ci si può attendere che il dittatore ruandese Paul Kagame si rivolga contro i propri uomini

Tuttavia, il Ruanda non ha mai riconosciuto l'M23 come una propria creazione, o il fatto che molti alti ufficiali dei combattenti sono membri delle forze armate ruandesi. Secondo "Friends of Congo", un gruppo di pressione con sede a Washington, c'è un solo modo per garantire che M23 non riemerga con qualche altro nome: portare a giudizio questi criminali genocidi. Tuttavia, ciò richiederebbe una loro consegna da parte del Ruanda alla Repubblica Democratica del Congo o a qualche autorità internazionale. E dal dittatore ruandese Paul Kagame non si può pretendere che bruci i suoi uomini, mentre agli Stati Uniti non andrebbe a genio di affrontare una serie di processi in cui il loro ruolo nel massacro di milioni di persone sarebbe rivelato con dettagli imbarazzanti.

Pertanto, anche se Washington ha messo della distanza tra Usa e Ruanda, gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di permettere che qualcosa di prossimo alla giustizia faccia la sua apparizione in Africa centrale. Il comando militare statunitense AFRICOM è cresciuto a passi da gigante sotto il presidente Obama - con lo stazionamento permanente di una brigata di truppe americane in Africa - e la rinforzata presenza militare delle Nazioni Unite nella regione fa esattamente quello Washington dice loro di fare. Proprio come accade per i regimi ruandesi e ugandesi, che devono comprendere di essere solo ingranaggi della macchina imperiale. L'impero americano è vivo e in crescita in Africa centrale.

 
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KENIA, IL NON DETTO

Post n°455 pubblicato il 03 Ottobre 2013 da Guerrino35

www.resistenze.org - popoli resistenti - kenya - 02-10-13 - n. 468

Kenia. Il non detto di un attacco che non ha sorpreso nessuno

Jean-Paul Pougala | michelcollon.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

27/09/2013

Estratto

È ancora presto per trarre insegnamenti dall'attacco al supermercato di Nairobi, ma possiamo porci alcune domande senza tuttavia passare per complottisti: Perché ora? Perché da quando il Kenia ha volto lo sguardo ad Est, verso Pechino e Mosca, gli capita di tutto?

Ormai gli scambi tra il Kenia e un certo numero di paesi saranno realizzati in yuan cinesi piuttosto che in dollari americani. Il Kenia ha appena scoperto nel suo sottosuolo uno dei più grandi giacimenti al mondo di acqua dolce. Quell'acqua tanto ambita dall'Europa. Contemporaneamente, Dakar passa la sua prima settimana senza acqua potabile. Ci dicono che l'impianto di potabilizzazione situato a 280 km, costruito nel 2004 da un'impresa francese con una garanzia di 30 anni, ha problemi di condutture. In alternativa, si propone a questo paese attraversato da 3 fiumi (Senegal, Niger, Casamance) di indebitarsi per 50 miliardi di franchi CFA [Franco delle colonie francesi d'Africa, oggi chiamato Franco della comunità finanziaria africana, ndt] per desalinizzare l'acqua dell'Oceano Atlantico. Se il Senegal rifiutasse, siamo certi che il loro attuale amico, Macky Sall, non sarà presto tradotto al TPI [Tribunale Penale Internazionale] per le cose odiose che egli avrebbe commesso quando era ancora nel grembo di sua madre?

Ritorniamo al Kenia. Inizialmente abbiamo avuto l'incendio all'aeroporto nel momento in cui questo paese metteva in atto una svolta approfittando degli investimenti cinesi, per passare dal turismo che ha portato nel paese solo pedofili e predatori sessuali occidentali, all'industria.

Ci sono poi state manipolazioni con le false notizie pubblicate sui giornali francesi come Liberation del 24/09/2013 su Israele, che avrebbe diretto le operazioni a Nairobi per liberare gli ostaggi chiusi al supermercato. Ciò è, beninteso, falso. Come avrebbe potuto il Kenia, che combatte con successo gli Shebab in Somalia da 10 anni, passare il rapimento degli ostaggi a Israele che non è presente con loro in Somalia? Mistero. Vi consiglio di rivedere il discorso del presidente keniota, soprattutto sui ringraziamenti. Comprenderete tutto.

Quando si assiste a dichiarazioni sui programmi francese come "C'est dans l'Air" su France 5 del 23/09/2013, dove uno pseudo esperto dell'Africa afferma che tutti i capi di stato africani sono sorvegliati da Israele, in modo particolare il presidente camerunese Biya, si capisce rapidamente il perché di tutte queste menzogne: la Francia e il suo preteso exploit in Mali. Si è criticato alla UA [Unione Africana] il fatto che il presidente della CEDEAO, [Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale], Ouattara, ha preferito programmare un intervento africano1 anno dopo per fare venire la Francia in Mali, piuttosto che gli etiopici e kenioti che avevano 10 anni d'esperienza con gli islamisti in Somalia.

Con l'attacco di Nairobi, occorreva fare passare l'immagine dell'incapacità degli Africani ad occuparsene, per convalidare l'insistenza del presidente francese di organizzare una conferenza a Parigi sulla sicurezza in Africa.

Problema: tutti coloro che sono dietro questi maneggi dimenticano di essere loro stessi manipolati da una mafia che li sovrasta, la finanza internazionale, e che non ha volto. Hollande aveva giurato in campagna elettorale di combatterla, prima di andare a Londra a dire che scherzava per ammansire il suo popolo e farsi eleggere, e per riassicurare che la Francia sarebbe rimasta una loro terra di conquista.

Ultima menzogna in ordine di tempo: l'intervento del Kenia e dell'Etiopia per ristabilire uno stato di diritto in Somalia sarebbe finanziato dall'Europa e dagli USA. Falso. Il contenzioso tra gli occidentali e gli africani su quel versante si è concluso molto male, perché gli africani non vogliono più che una missione in Africa sia comandata da non africani. Gli africani avrebbero voluto lo stesso l'aiuto militare degli europei in Somalia ad una sola condizione: che fosse stato sotto comando africano. Gli europei e gli americani hanno rifiutato e da allora, gli africani affrontano soli questo problema e con molto successo.

Questa favola dell'aiuto occidentale alla Somalia somiglia a quella raccontata sullo pseudo-aiuto americano all'esercito egiziano. Come può un esercito comperare il proprio equipaggiamento in un paese con un piano di rimborso e a farlo passare ogni volta come aiuto?

A che serve proclamare che è un "paese ricco", un "paese sviluppato", se alla fine è un pugno di uomini in una banca a piazzare le loro pedine a tutti i livelli finanziari del paese. La mediocrità dei politici generati dalla trappola del suffragio universale ha permesso la creazione di nazioni deboli alla mercé dei finanzieri. Chiedetevi come un paese come la Francia, in soli 5 anni di Sarkozy, abbia totalizzato 700 miliardi di euro di debiti, cioè una volta e mezzo i debiti cumulati da tutti i 54 paesi africani.

Questo perché la tanto elogiata "democrazia" è solamente un sistema molto ordinato dove si può fregare il popolo che viene ridotto in schiavitù ed è anche contento poiché tutti i giorni gli mostrano le immagini di repertorio di bambini malnutriti della guerra del Biafra, facendole passare per l'Africa di oggi.

Con ciò, Obama era sul punto di seguire Hollande e finanziare una guerra in Siria, spingere shebab e jihadisti siriani a piazzare un domani delle bombe in un centro commerciale di Parigi o di New York, mentre il 17 ottobre dovrà riuscire a convincere il proprio Congresso ad alzare ancora il limite massimo del debito, perché il vecchio votato l'anno scorso non basta più. Gli USA continuano a prendere prestiti tutti i giorni dalla Cina per pagare le guardie del corpo di Obama, pagare il pasto servito tutti i giorni sul tavolo.

Guardate questo documentario che è passato ieri sera su Arte (vedere il link al fondo) e comprenderete come tutto l'occidente della democrazia avanzata è tenuto magistralmente per mano dalla mafia. E se si insiste a esportare la democrazia in Cina, non è certamente per rendere questo paese più potente di quanto lo sia oggi, ma solo perché la stessa mafia possa mettere mano anche sulle ricchezze di questo paese.

L'Africa deve trovare la sua via, per evitare che gli esperti in democrazia ci installino durevolmente la loro mafia finanziaria.

Se ci riescono, ne avremo ancora per generazioni e generazioni di sottomissione e schiavitù, esattamente come si vede oggi in Grecia o in Italia o in Spagna.

È l'economia che comanda la politica e non viceversa. Non capirlo significa continuare a vivere nell'illusione di una politica potente, che rimane un castello di carta finché non è stata creata sufficiente ricchezza. Senza ricchezze, qualsiasi potere è dedicato a diventare subalterno "alla mafia democratica" delle potenze del denaro occidentali. Il caso del Mali ben lo dimostra.

A conclusione di questo testo, non abbiamo ancora risposto alla domanda: perché il Kenia?

Il Kenia rappresentava l'Africa degli animali senza gli africani, che una certa letteratura coloniale razzista del XIX secolo aveva tanto descritto. Prendete una televisione come la BBC: il Kenia esiste soltanto rispetto ai parchi faunistici e ai suoi numerosi safari. Il Kenia è là dove si cerca la vita selvaggia, dove si cerca il selvaggio. Perché la Cina e la Russia? Perché sono i soli attualmente a possedere una miniera d'oro, quando gli altri soffrono per l'indebitamento eccessivo.

I dirigenti kenioti si hanno semplicemente seguito l'esempio di altri paesi prima di loro: la Tailandia.

Se la Tailandia sta cessando di essere il bordello degli occidentali, è grazie ai capitali soprattutto russi, ma anche cinesi, nel settore immobiliare in particolare. Oggi abbiamo 30.000 russi che si sono trasferiti in Tailandia, cioè la popolazione agiata che ha abbandonato la Costa Azzurra. La particolarità della Tailandia è cominciata con la guerra di Corea e del Vietnam, dove i marines americani avevano bisogno di trovare un angolo con ragazze facili per sfogarsi.

È così che è nata la meta turistica sessuale della Tailandia che, con l'arrivo del nuovo G2 [accordo informale tra Stati Uniti d'America e Cina, ndt], non vuole più questi turisti depravati che creano molti più problemi. I bordelli chiudono uno dopo l'altro a Pattaya, sostituiti da ville da sogno per questi ricchi. È stato anche creato un ministero speciale per lusingare questi nuovi ricchi russi e cinesi che vogliono portare le loro famiglie in vacanza, negli hotel o nelle loro molte seconde case. Ad esempio, numerose sono le aziende cinesi che offrono come premi di produttività dei viaggi in Tailandia.

Il Kenia sta semplicemente copiando la Tailandia, per lanciare il suo sviluppo e ciò probabilmente a qualcuno non piace.

Perché? Cosa perderanno tutte le grandi catene occidentali del settore alberghiero che vi si sollazzavano? Per saperlo guardate il video qui di seguito. Apprenderete dei bluff dei politici occidentali e di quelli che tirano le fila nell'ombra.

link video:
http://www.arte.tv/guide/fr/045773-...
http://vimeo.com/49904381

 

 
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L'Africa e gli Africani

Post n°454 pubblicato il 18 Luglio 2013 da Guerrino35


L'Africa e gli africani nello specchio degli altri

Mbuyi Kabunda* | alainet.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

21/06/2013

Generalmente, nell'analisi delle realtà africane prevalgono due approcci opposti, quasi dogmatici, che sono: l'afro-pessimismo cronico e l'afro-ottimismo di compiacenza.

È necessario allontanarsi da questi paradigmi per camminare verso l'afro-realismo o l'afro-responsabilità, consistente nello spiegare quelle realtà, non a partire dai loro effetti, bensì delle loro cause storiche ed attuali, strutturali e congiunturali, esterne ed interne, a prescindere delle semplificazioni facili e illecite.

In un mondo dominato dai pregiudizi euro-centrici, scrivere qualcosa di positivo sull'Africa - che normalmente è considerata come un paese o qualcosa di omogeneo e non come un continente - significa che nessuno lo leggerà. Esiste infatti un vero complotto mediatico contro Africa e gli africani, posizionati in basso nella gerarchia delle società umane.

L'afro-pessimismo o l'ultima trasformazione dell'ideologia razzista

L'afro-pessimismo, che si ispira alle tesi hegeliane del XIX secolo, ebbe nuova fortuna all'inizio degli anni 1960, con l'analisi negativa di René Dumont ("afro-pessimismo sfumato") che lancia l'allarme sul modello di sviluppo e sullo Stato imitativo o travisante, adottato dai paesi africani, prima di prendere la forma dell'"afro-pessimismo cinico" o dell'"l'afro-catastrofismo", illustrato dalla "negrologia" di Stephen Smith e nel discorso di Nicolás Sarkozy a Dakar, nel luglio 2007, nel quale si negava agli africani di avere Storia e cultura in quanto "continuano a vivere da millenni secondo i ritmi delle stagioni e della natura".

L'afro-pessimismo vigente è l'ultima trasformazione del disprezzo e/o dell'arroganza occidentale verso l'Africa e gli africani, per il suo ragionamento superficiale e le sue mezze verità, attribuendo la responsabilità dei fallimenti dell'Africa a fattori interni, con la duplicità intellettuale dei rapporti negativi su questo continente stilati delle organizzazioni internazionali, soprattutto negli anni 1980 per giustificare le loro politiche di aggiustamento strutturale, e dei mezzi di comunicazione al loro servizio che, in questo modo, contribuiscono alla diffusione dell'idea, rispetto al futuro del continente, del "disordine africano" e della disperazione.

Si insiste sulla povertà crescente, la fame nera o le calamità naturali, le migrazioni dei miserabili, le "guerre tribali e crudeli", i colpi di stato, i dittatori corrotti... Cioè, una lunga lista di tragedie e di fallimenti che vivono i paesi africani. L'idea soggiacente è che gli africani sono per lo più pari a zero ed incapaci.

Raramente si parla di avvenimenti felici o del dinamismo dei paesi africani o del "rinascimento africano". Non si insiste, per esempio, sulla responsabilità nel "dramma africano" del carico del debito, dei disastri umani e sociali generati dai Piani di aggiustamento strutturale (PAS), del saccheggio delle risorse naturali e dell'accaparramento delle terre africane da parte delle multinazionali del Nord o del fallimento degli aiuti allo sviluppo. Cioè, le pratiche perverse che hanno trasformato l'Africa in un esportatore netto di capitali.

Questa ideologia risulta pericolosa non solo per la sua dimensione razzista, ma anche per essere assunta e riprodotta da alcuni intellettuali africani, che pensano di adottare con ciò un atteggiamento critico, molto apprezzato dai loro mentori occidentali, verso la propria società. Si tratta di una critica economica, spesso superficiale, che riproduce le critiche occidentali.

Disgraziatamente, come denuncia abilmente Boris Diop, il problema col pubblico occidentale in generale, è che gode nel vedere gli stessi africani denigrare l'Africa. L'opinione di questo autore lo ha abituato alle critiche degli intellettuali africani interessati ad attirare a tutti i costi i fondi o la simpatia del pubblico europeo, denigrando la propria società, presentata come arretrata, oppressiva e crudele. L'obiettivo è rimanere con la coscienza tranquilla e responsabilizzare gli africani sui loro problemi e disgrazie.

La "afrodestra latinoamericana", secondo il termine azzeccato di Jesús Chucho García, sta riproducendo lo stesso discorso sull'Africa, per compiacere i dominatori ed ottenere più o meno gli stessi obiettivi. Questa corrente dell'afro-discendenza, che si è nutrita di un eurocentrismo venduto dal boia stesso, si rifiuta di considerare "l'Africa come madre patria", per i supposti fallimenti che incarna questo continente, le umiliazioni che ha sofferto nel passato e che la fanno vergognare, cadendo nell'apologia dei soliti argomenti negativi sull'Africa dei media e di alcuni circoli occidentali. Ha interiorizzato la storia dei "vincitori" per convenienza / opportunismo, trasformandosi in detrattrice della "autenticità africana".

Detto in altre parole, l'afrodestra è caduta nell'eurocentrismo, nutrendosi dalla letteratura negrofoba ed alleandosi coi peggiori responsabili e colpevoli di crimini contro l'umanità o dei loro antenati. Pertanto, siamo di fronte a vittime e, cosa peggiore, incoscienti. Questo atteggiamento masochista, di etnocolonizzazione e autoflagellazione, propria dei popoli dominati, è analizzato nelle opere di Aimé Césaire, Frantz Fanon e Albert Memmi e spiega la tendenza di alcuni membri di questi collettivi a giudicarsi non a partire dai propri parametri, bensì da criteri introiettati dai dominatori.

In definitiva, come afferma Abiola Irele, l'afro-pessimismo, invece di essere una vera preoccupazione della situazione e del futuro dell'Africa, è una visione cinica che permette ad alcuni intellettuali occidentali di fare dell'Africa la loro base commerciale e giustificare la loro carriera nelle istituzioni governative e dello sviluppo in Africa, insistendo in una visione negativa e deformata del continente.

Decostruzione delle basi del programma afro-pessimista

"I popoli africani non hanno Storia e cultura"

La supposta disgrazia permanente degli africani nasce nella versione biblica della "maledizione di Cam", figlio di Noé, dal quale i neri sarebbero discendenti ("razza camitica"). Si tratta di un'invenzione o di una apologia medievale della legittimazione o giustificazione della schiavitù dei neri, perché consisteva nel negare agli africani la parte di umanità, essendo l'obiettivo quello di fornire la manodopera necessaria per le miniere e le piantagioni del Nuovo Mondo.

In quanto alla teoria di assenza di Storia nel continente, fu elaborata dai colonizzatori per giustificare la colonizzazione o la "missione civilizzatrice" e non ha alcun fondamento. È oggi ampiamente dimostrato che la civiltà faraonica nera fu la figlia e non la madre delle civiltà africane (vedere i lavori del professore Cheikh Anta Diop). L'antropologo francese Maurice Delafosse dimostrò che fino al XV secolo le società africane avevano lo stesso livello di sviluppo delle loro equivalenti arabe ed europee (regno del Kongo, impero del Ghana, Mali, Songhai, Kanem-Bornú, Benín, Monomotapa). Non si può neanche prendere in considerazione l'idea che l'Africa fosse una tabula rasa culturale prima dell'arrivo degli europei. Prova di ciò è la persistenza dei valori culturali africani nella santería cubana, candomblé o nella macumba brasiliana e nella cultura latinoamericana in generale. Le rivelazioni dei navigatori dal XV al XVII secolo evidenziano il fatto che l'Africa nera fu una terra di brillanti e ben strutturate civiltà.

"L'Africa è un continente condannato al sottosviluppo e alla povertà"

Normalmente si perde di vista che il sottosviluppo dell'Africa non è una fatalità irreversibile. È il risultato dei meccanismi storici di sfruttamento ed aggressione, delle ingiustizie internazionali istituzionalizzate, insieme alla brutta gestione dei governi post coloniali propensi al neo-patrimonialismo (clientelismo) e predatocrazia. È necessario sottolineare qui la responsabilità dell'educazione ricevuta dalla classe governante africana, educata alla venerazione europea e al disprezzo delle cose africane e che René Dumont esprime in questi termini: "I dirigenti africani sono i nostri alunni. Sono stati formati nelle nostre università, eserciti ed amministrazioni o nelle università neocoloniali africane. Sono stati sedotti dal nostro modello di vita e di sviluppo ed abbiamo insegnato loro come rovinare l'Africa".

Occorre comunque relativizzare il fallimento dell'Africa, che ha ottenuto importanti progressi negli aspetti dello sviluppo umano, annichiliti dagli aggiustamenti strutturali. Si confonde qui il fallimento con la resistenza dei popoli africani al modello economico e sociale dominante, coloniale ed occidentale.

L'affermazione dei disastri africani contrasta con la seguente realtà: il tasso medio di crescita annuale, intorno al 5 % nel 2012-2013, ha reso l'Africa resistente alla crisi dei paesi industrializzati, del Medio Oriente e di quelli emergenti, e alle rivalità tra paesi come Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Cina per la conquista dei mercati africani.

"I conflitti africani sono etnici e l'Africa non è pronta per la democrazia"

Varie analisi e perfino degli accademici attribuiscono normalmente le cause dei conflitti agli unici e semplicistici aspetti etnici o "tribali". I fatti dell'ultimo decennio hanno dimostrato che questa visione è errata.

Conflitti come quelli del Sudan, Angola, Ruanda, Sierra Leona, Liberia, RDC e Somalia hanno evidenziato i molteplici fattori locali, nazionali, regionali ed internazionali, sulla questione delle lotte per il potere e gli abusi di potere, la rottura tra lo Stato e la nazione, la vicinanza agli interessi geopolitici delle potenze esterne e le industrie multinazionali petrolifere o minerarie che, nella loro ricerca del monopolio del profitto, appoggiano i governi, i movimenti di guerriglia o entrambi contemporaneamente.

L'argomento della mancanza di maturità degli africani per la democrazia, prevalente in molti circoli politici del Nord, ha una chiara connotazione eurocentrica, identificando la democrazia e perfino lo sviluppo con l'occidentalizzare.

I fatti non coincidono con questa visione. Sta nascendo una nuova generazione di dirigenti africani più democratici e rispettosi dei diritti umani.

Quello che è fallito in Africa non è lo sviluppo o la democrazia, che non sono prodotti di importazione o esportazione, bensì la riproduzione del modello occidentale o l'occidentalizzazione. Ciò deve interpretarsi come la resistenza degli africani ai modelli imposti dall'esterno.

Conclusione

Si tenta ora di rifiutare all'Africa e alle sue diaspore qualunque forma di pensiero, a partire dagli altri o dalla storia dei vincitori, i quali hanno il monopolio della parola, dei mezzi di comunicazione o informazione.

Scommettiamo sull'afro-centrismo, aperto e non chiuso, o sull'afro-centricità, che consiste nella sottomissione delle relazioni esterne alla razionalità interna, al dare priorità alle esigenze dello sviluppo interno fortificando la capacità di azione ed attuazione degli africani. Con ciò, l'Africa e le sue diaspore usciranno dalla loro esclusione internazionale ed avranno un certo controllo sul proprio destino, attualmente in mano ad altri.

(*) Mbuyi Kabunda è professore di Relazioni Internazionali e Studi Africani nell'Istituto Internazionale di Diritti umani, IIDH, di Strasburgo e del Gruppo di Studi Africani (GEA, dell'Università Autonoma di Madrid) UAM. Direttore dell'Osservatorio di Studi sulla Realtà Sociale dell'Africa Subsahariana (FCA/UAM).

 
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RATZINGER E LA CHIESA DEL POPOLO IN AMERICA LATINA

Post n°453 pubblicato il 28 Febbraio 2013 da Guerrino35

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 25-02-13 - n. 442

Come Ratzinger ha annientato la chiesa del popolo in America Latina
 
Marc Vandepitte | michelcollon.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
20/02/2013
 
Joseph Ratzinger è conosciuto essenzialmente come papa ma i suoi principali fatti d'arme vanno ricercati nel periodo durante il quale era Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. In questa veste fu difatti l'architetto di una delle più vaste campagne ideologiche e politiche del dopoguerra, ciò che venne chiamata la "Restaurazione".
 
Neoconservatorismo
 
Nel 1978, Karol Wojtyla (Giovanni Paolo II) è chiamato a dirigere la più grande comunità religiosa del mondo. Quella che si trova davanti è una chiesa post-conciliare in stato di profonda crisi: partecipazione alle funzioni religiose e vocazioni in caduta libera, elevato numero di divorzi tra i cattolici, rigetto dell'autorità papale in materia di controllo delle nascite. Un mondo pieno di eresia.
 
Egli vuole una svolta radicale. Non più rischi, né esperienze, è finito il tempo di pensare e agire di conseguenza. Si guarda probabilmente ai testi del Concilio ma se ne seppellisce lo spirito. Il papa si prepara ad una politica ecclesiastica centralizzata ed ortodossa, corredata da un riarmo morale e spirituale.
 
Per farlo gioca abilmente col clima di quest'epoca, che presenta del resto molte somiglianze col nostro. A metà degli anni '70 inizia una profonda crisi economica. L'atmosfera ottimista degli anni '60 vacilla e divengono caratteristiche l'aspirazione alla sicurezza e alla protezione, il ricorso ad un'autorità - di preferenza carismatica -, un risveglio etico, la fuga nel campo privato e nell'irrazionale, ecc.
 
È su questo sfondo che si sviluppa il "neoconservatorismo". Questo nuovo conservatorismo non si rintana più sulla difensiva ma lancia al contrario un'offensiva politica e ideologica. Questa corrente è portata dalle personalità "forti", come Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Giocando abilmente con i mass media, traducono una tendenza mondiale ad accogliere un salvatore, la sviluppano con rappresentazioni del mondo semplicistiche, risplendono di sicurezza e di ottimismo, ecc.
 
Il rottweiler di dio
 
Un rompicapo ancora più importante per il papa, è la crescita di una chiesa popolare progressista in America Latina. Wojtyla è polacco e anticomunista fino al midollo: combattere il marxismo e il comunismo nel mondo è uno degli scopi della sua vita. Poiché è innegabile l'influenza del marxismo sulla chiesa di base e la teologia della liberazione, farà di tutto per riportare il continente sulla retta via.
 
Per fare ciò conta su Ratzinger, che nel 1981 è stato nominato Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, una sorta di Ministero dell'ideologia e dell'informazione del Vaticano. Eserciterà queste funzioni per un quarto di secolo e ne farà il migliore uso per imprimere il suo marchio sugli avvenimenti.
 
Ratzinger diventa l'architetto di un'importante offensiva pastorale ed ecclesiale alla quale egli stesso dà il nome di "Restaurazione". Lo scopo è il rafforzamento dell'apparato di direzione centrale e la disarticolazione di ogni forma di dissidenza all'interno della chiesa. Ratzinger si rivela presto un vero grande-inquisitore, cosa che gli varrà il nome di "rottweiler di dio".
 
Tutta la chiesa cattolica viene messa sotto tiro ma i colpi sono diretti soprattutto verso l'America Latina, laddove l'impatto politico è di gran lunga più importante. Dunque nel seguito dell'articolo ci limiteremo a questo continente.
 
L'annientamento della chiesa del popolo e della teologia della liberazione
 
Il primo passo è la costituzione di una banca dati delle conferenze episcopali, dei teologi della liberazione, dei religiosi progressisti, dei progetti pastorali sospetti, ecc. In quasi tutte le diocesi sono nominati vescovi e cardinali ultra-conservatori e apertamente di destra. Solo in Brasile ne sono nominati una cinquantina. Alla fine degli anni '80, cinque su 51 vescovi peruviani sono membri dell'Opus Dei. Il Cile e la Colombia seguono la stessa strada. Dei vescovi dissidenti messi sotto pressione, alcuni ricevono lettere di avvertimento, ad altri è vietato viaggiare o sono chiamati a renderne conto.
 
Questa politica delle nomine è tanto più grave in quanto l'episcopato gioca un ruolo importante in questo continente. In molti casi è la sola opposizione possibile alla repressione militare, alla tortura, ecc. Con i vescovi del Brasile e del Cile ridotti al silenzio, come quelli dell'Argentina, il numero di vittime della repressione sarebbe stato ben più elevato.
 
Pulizia è stata fatta anche ai livelli inferiori. Si lavora sulla formazione dei sacerdoti mettendo sotto pressione seminari e istituti di teologia, riorientandoli o chiudendoli. Si tenta di controllare meglio i religiosi che sono spesso protagonisti della chiesa della liberazione. Particolare attenzione è riservata ai teologi. Sono tenuti sotto controllo e da questo momento viene loro fatto prestare un nuovo giuramento di fedeltà.
 
Nel 1984 Ratzinger redige la "Istruzione della Santa Congregazione per la Dottrina della fede su alcuni aspetti della teologia della liberazione". Attacca frontalmente i teologi della liberazione, soprattutto quelli dell'America Latina. Un anno più tardi è vietato a Leonardo Boff, una delle figure di punta di questo movimento, di esprimersi. Il dominio sui giornali cattolici viene rafforzato e là dove lo si giudica necessario li si censura, viene sostituito il consiglio di redazione o il giornale posto sotto pressione finanziaria.
 
I progetti pastorali progressisti vengono interrotti o messi sotto controllo. Nel 1989 il Vaticano smette di riconoscere la troppo progressista Associazione internazionale della gioventù cattolica. Deve cedere il posto al CIJOC (Coordinamento internazionale della gioventù operaia cristiana), confessionale ed opposto alla sinistra.
 
Accanto alla distruzione di tutto ciò che è progressista, vengono avviati giganteschi progetti per riportare i credenti sulla retta via. Evangelizzazione 2000 e Lumen 2000 sono progetti su grande scala per l'America Latina che hanno non meno di tre satelliti a loro disposizione. I progetti sono stabiliti da persone e da gruppi della destra ultra-conservatrice: Comunione e Liberazione, Azione Maria, Rinnovamento Carismatico Cattolico, ecc. I collaboratori di questi giganti della comunicazione paragonano le loro attività ad un tipo di nuovo "potere della luce".
 
Quelli che sanno leggere sono inondati di libri religiosi pubblicati a buon mercato. Sono organizzate pensioni per i preti e le suore. Per questi progetti spettacolari i vertici della gerarchia cattolica possono contare sull'appoggio finanziario del mondo degli affari.
 
Crociata anticomunista
 
Niente è lasciato al caso. Uno ad uno tutti i pilastri della chiesa del popolo dell'America Latina sono fatti cadere. Alcuni osservatori parlano di smantellamento di una chiesa. Abbiamo qui a che fare con una delle campagne ideologiche e politiche più importanti del dopoguerra.
 
Questa campagna è in linea con la crociata anticomunista della Guerra fredda. Ci si può anche vedere una rivincita degli USA dopo la perdita di potere degli anni precedenti.
 
Durante gli anni '60 e '70 i paesi del Terzo Mondo avevano infatti rinforzato la loro posizione sul mercato mondiale. Strappando prezzi più elevati per le materie prime avevano così migliorato il loro potere d'acquisto sul mercato mondiale. Il punto culminante è la crisi petrolifera del 1973. Nel 1975 il Vietnam infligge una schiacciante disfatta agli Stati Uniti. Poco dopo la Casa Bianca è umiliata due volte prima dalla rivoluzione dei sandinisti nel loro cortile di casa (1979), poi dal dramma degli ostaggi in Iran (1980). Fin dal suo arrivo al potere, Reagan si sente inoltre minacciato dall'atteggiamento di indipendenza economica di due Stati tanto importanti quali il Messico e il Brasile.
 
La Casa Bianca non si arrende e scatena una controffensiva su molti fronti. La teologia della liberazione diventa uno dei bersagli più importanti. Sin dalla fine degli anni '60, la teologia della liberazione, ancora ad un stadio embrionale, era considerata come una minaccia per gli interessi geostrategici degli USA, come testimonia il rapporto Rockefeller.
 
Negli anni '70 furono creati dei centri teologici che avevano il compito di combattere la teologia della liberazione. Ma è soprattutto a partire dagli anni '80 che questa controffensiva raggiunge la sua velocità di crociera. Gli Stati Uniti versarono diversi miliardi di dollari per sostenere la controrivoluzione in America Latina. Questa sporca guerra ha fatto decine di migliaia di vittime. Squadroni della morte, paramilitari, ma anche l'esercito regolare ha svolto questo sporco compito. Nelle file dei movimenti cristiani di liberazione sono caduti molti martiri. I più conosciuti sono Monsignor Romero ed i sei gesuiti del Salvador.
 
Per combattere la teologia della liberazione sul suo terreno, si introdussero delle sette protestanti. Ricevettero il massiccio sostegno finanziario degli USA. Attraverso slogan propagandistici e messaggi sentimentali dovevano provare ad attirare i credenti. Per strapparli all'influenza perniciosa della teologia della liberazione, si è fatto uso di mezzi elettronici costosi. La religione si rivela qui come l'oppio dei popoli nella sua forma più pura. Anche l'esercito è stato arruolato in questa guerra religiosa. Degli ufficiali degli eserciti latino-americani stesero un documento per dare consistenza al "braccio teologico" delle forze armate.
 
Missione compiuta
 
Gli sforzi combinati di Ratzinger e della Casa Bianca hanno pagato. Negli anni '90 un colpo molto duro fu portato alla chiesa di base in America Latina. I gruppi di base cessano di esistere o funzionano a fatica per mancanza del sostegno pastorale, per timore della repressione, perché non si crede più alla svolta sperata, o semplicemente perché liquidati fisicamente. L'ottimismo e l'attivismo degli anni '70 e '80 fanno posto al dubbio e alla riflessione. L'analisi della società perde il suo peso a vantaggio della cultura, dell'etica e della spiritualità, a tutto profitto di Ratzinger.
 
Globalmente il centro di gravità passa dalla liberazione alla devozione, dall'opposizione alla consolazione, dall'analisi all'utopia, dalla sovversione alla sopravvivenza. Il racconto dell'Esodo cede il passo all'Apocalisse e agli Apostoli.
 
In ogni caso, alla fine del secolo la chiesa di base non rappresenta più una minaccia per l'establishment. Tanto il Vaticano che il Pentagono e le élite locali dell'America Latina hanno una preoccupazione in meno per il momento. Questa tregua ha presto fine con l'elezione di Chavez alla presidenza del Venezuela, ma questa è un'altra storia.
 
Nel 2005, Ratzinger è ricompensato per il successo nella sua opera di restaurazione e viene eletto alla testa della chiesa cattolica. Ma è assai meno brillante come manager che come inquisitore. È in definitiva un papa debole. Lascia un'istituzione indebolita, minacciata da una mancanza di sacerdoti e prosciugata in occidente da ripetuti scandali. Il non riuscire a mettere ordine negli affari del Vaticano è forse una delle ragioni per cui abdica.
 
Ratzinger entrerà nella storia innanzitutto come colui che ha compiuto la restaurazione della chiesa cattolica e per aver messo la chiesa del popolo dell'America Latina in condizioni di non nuocere. E questi non sono meriti trascurabili.
 

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