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DIRITTO COMMERCIALE

Post n°2 pubblicato il 27 Novembre 2014 da valeriodilorenzo23

 

INTRODUZIONE

L'attività commerciale ha sempre avuto nel corso dei secoli una disciplina particolare anche se non ha sempre costituito una branca del diritto completamente autonoma rispetto al diritto civile. La società romana non ebbe un sistema unitario di diritto commerciale e lo jus civile non poneva le regole riguardanti la produzione e gli scambi commerciali in quanto esse erano considerate attività inferiori da parte delle stesse classi plebee.  Le origini del diritto commerciale vanno ricercate nell'età comunale grazie al grande sviluppo del commercio e alla nascita delle corporazioni di arti e mestieri. Successivamente l'affermarsi dei traffici marittimi sulle grandi tratte oceaniche determinò la nascita dei titoli documentali di credito per agevolare i pagamenti su piazze lontane. Con la rivoluzione francese del 1789 le corporazioni vennero travolte perché contrarie ai principi liberali e quindi il diritto commerciale perse il suo carattere di specialità soggettiva ( in quanto diritto dei e per i commercianti) e si passò a considerare commerciale ogni singolo atto che interessasse il commercio. Si aprì così la strada alle grandi codificazioni dove il diritto commerciale era ormai oggettivizzato: nel codice di commercio napoleonico del 1808 l'atto di commercio, da chiunque compiuto, divenne l'unico criterio di applicabilità del diritto commerciale. Il primo codice italiano di commercio venne pubblicato nel 1865 e ricalcava largamente i principi del codice francese introdotto in Italia con le guerre napoleoniche.  Il diritto commerciale venne ad affermarsi quindi come sistema di norme autonome rispetto al diritto civile, prevalente su di esso per il principio di specialità e caratterizzato dall'esistenza di principi generali propri dei rapporti commerciali. Con il codice civile del 1942   venne deciso di unificare il codice civile e il codice di commercio per unificare il diritto delle obbligazioni, partendo dalla considerazione unitaria di ogni attività economica facente capo alla figura dell'imprenditore commerciale.  Allo stato attuale possiamo chiederci se il diritto commerciale costituisca un sistema di norme che si contrappone al diritto civile come diritto speciale contrapposto al diritto generale dove il secondo regolerebbe i rapporti privati in generale mentre il primo solo una categoria particolare di tali rapporti.  Dobbiamo però rispondere negativamente. Infatti se è indubbio che i rapporti commerciali costituiscono una categoria differenziata nell'ambito dei rapporti privati  e che sono soggetti ad una particolare disciplina giuridica posta da norme speciali o eccezionali è anche vero che perché possa parlarsi di diritto speciale come sistema contrapposto al diritto generale occorre che i due sistemi di norme non si pongano sullo stesso piano.  Ciò non è ovviamente il caso del diritto commerciale che attualmente, come si è detto, è collocato all'interno del diritto civile. Nel sistema precedente del codice invece  veniva stabilito che i rapporti commerciali erano regolati in primo luogo dalle norme commerciali (scritte o consuetudinarie)  e che le eventuali lacune dovevano essere colmate con l'applicazione analogica della norme commerciali  Solo quando ciò non era possibile poteva essere applicato il diritto civile.  Si era quindi in presenza di due sistemi di norme poste su due piani diversi in quanto solo quando fosse esaurito il primo sistema era possibile fare ricorso al secondo.  La situazione non è più così nel sistema vigente dove le norme commerciali sono state poste sullo stesso piano delle norme civili e pertanto tra di esse non vi è differenza dal punto di vista formale tanto è vero che l'unico criterio di prevalenza che rimane applicabile alle norme commerciali è quello generale della specialità o eccezionalità della norma.   Ne deriva che il diritto commerciale deve essere considerato come un complesso di norme che regola una speciale categoria di rapporti privati,  che si pone sullo stesso piano delle norme contenute nel codice civile differenziandosene solo per la specialità dal punto di vista del contenuto della materia trattata  Da ciò che abbiamo detto risulta chiaro che l'autonomia del diritto commerciale rispetto al diritto civile può oggi essere sostenuta solo dal punto di vista sostanziale e cioè della particolarità della materia trattata che conduce inevitabilmente ad una specializzazione e differenziazione della relativa disciplina giuridica. Occorre anche esaminare i rapporti tra diritto commerciale e diritto della navigazione.  Nella codificazione del 1942 insieme alla unificazione tra codice civile e codice di commercio venne attribuita autonomia al diritto della navigazione e venne affermato all'art.1  del codice della navigazione la prevalenza assoluta delle norme contenute nel codice, nelle leggi, nei regolamenti e negli usi riguardanti la specifica materia nonché di quelle desumibili per analogia sulle norme del diritto civile.  Per effetto di ciò le norme di diritto commerciale si pongono attualmente in una posizione subordinata rispetto alle norme del codice della navigazione  in quanto il diritto commerciale risulta oggi compreso nel codice civile e quindi applicabile alla materia della navigazione solo in mancanza di norme espresse o ricavabili per analogia  Tuttavia tale posizione subordinata è più formale che sostanziale. Infatti se guardiamo al contenuto del codice della navigazione e del diritto commerciale rileviamo che diritto commerciale e diritto della navigazione  regolano in genere rapporti diversi e anche quando regolano gli stessi fenomeni (nel campo dell'impresa e dell'attività imprenditrice) lo fanno da punti di vista diversi in modo tale che la disciplina del codice della navigazione non esclude  quella dettata nel codice civile ma si aggiunge ad essa.  Occorre ricordare infatti che impresa ai sensi del codice civile è nozione diversa da impresa di navigazione che consiste nel semplice esercizio di una nave o di un aeromobile non richiedendo necessariamente quei caratteri che sono invece necessari perché si abbia impresa economica alla quale è applicabile lo statuto dell'imprenditore.  Trattandosi quindi di fenomeni diversi e non esistendo nel codice della navigazione un regolamento dell'impresa economica se nel campo della navigazione viene a configurarsi una impresa economica ad essa è applicabile lo statuto dell'imprenditore anche se  sono applicabili anche i principi particolari del diritto della navigazione. Le norme del diritto di navigazione quindi integrano ma non sostituiscono le norme sull'impresa economica e quindi il diritto della navigazione non si pone rispetto al diritto commerciale come diritto speciale rispetto ad un diritto generale ma si pone come complesso di norme parallelo che regola istituti non regolati dal diritto commerciale, istituti che possono trovare applicazione nell'esercizio dell'impresa.  Per comprendere il sistema attuale del diritto commerciale occorre tenere conto della evoluzione che si è verificata nei principi generali alla base della iniziativa economica in quanto nel tempo si è passati da una concezione liberistica che sosteneva l'assoluta autonomia dell'iniziativa economica rispetto allo stato (in quanto il processo economico sarebbe stato in grado di autoregolarsi sulla base delle proprie leggi basate sul meccanismo della domanda e dell'offerta) ad una concezione sociale dell'iniziativa economica in base alla quale essa non può godere di libertà assoluta nella misura in cui deve soddisfare, oltre ai bisogni individuali anche quelli della collettività.  La concezione sociale della iniziativa economica può condurre anche all'abrogazione della proprietà privata dei mezzi di produzione ma anche negli stati in cui ciò non accade è chiaro che essa non può essere rimessa esclusivamente ai privati e comunque non può esplicarsi senza limiti e interventi statali diretti ad adeguare l'azione del privato alla funzione sociale che essa deve esplicare.  Nel nostro paese il principio della concezione sociale dell'impresa economica viene consacrato per la prima volta nella Carta del Lavoro del 1927 ma è sancito anche dalla nostra costituzione. Infatti la costituzione pur sancendo all'art. 41 che l'iniziativa economica privata è libera stabilisce anche che essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale e che la legge deve determinare i programmi e i controlli opportuni affinché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Ovviamente la costituzione pone il principio che deve essere applicato in base alle scelte del legislatore ma tale principio sussiste e quindi non si può sostenere la libertà di iniziativa economica di cui al primo comma senza tenere conto dello svuotamento che di essa può essere fatto rispetto ai commi successivi.  Occorre dire che senza dubbio la costituzione permette di restringere il campo di applicazione del principio di libertà di iniziativa economica privata  assicurando la sola garanzia della necessità di una legge.  Nel momento attuale imprese pubbliche e private coesistono nell'ambito dello stesso sistema economico operando in un regime di libera iniziativa economica e di libera concorrenza anche se non mancano limitazioni alla iniziativa privata poste attraverso la determinazione legale di prezzi massimi o minimi, o attraverso il controllo delle esportazioni e importazioni o del mercato dei capitali e delle divise. Non sono mancate inoltre anche fenomeni di dirigismo economico come nel caso delle leggi contenenti provvedimenti per il mezzogiorno che hanno imposto addirittura l'obbligo per le imprese di investire parte dei capitali nel territorio del mezzogiorno.  Non si deve però trascurare, il fatto che nell'ultimo periodo abbiamo assistito ad una specie di riaffermazione del liberalismo economico attraverso la globalizzazione dell'economia  che ha reso possibile agli imprenditori di delocalizzare le attività produttive scegliendo così il contesto giuridico in cui operare e sottraendosi in tal modo alla imperatività delle norme dello stato localizzando in altro territorio l'impresa.  Per comprendere l'ordinamento commerciale vigente occorre tenere conto anche della comunità europea  tesa alla soppressione di ogni limite statale alla libertà dei traffici ed alla integrazione delle economie dei vari paesi determinando un nuovo ordinamento giuridico che concorre con l'ordinamento statale nelle materie che formano oggetto dell'attività della comunità.  Poiché l'ordinamento comunitario integra l'ordinamento interno soprattutto per quanto riguarda l'attività economica e i rapporti tra gli imprenditori esso permea profondamente gli istituti del diritto commerciale attribuendo ad esso un rilievo europeo.

 

CAPITOLO I:  L'ATTIVITA DELL'IMPRENDITORE

L'impresa come attività nel codice di commercio e nel codice vigente -  L'impresa era stata oggetto di considerazione anche da parte del legislatore del 1882 solo che in questo codice essa non era considerata come organismo 18) economico  e pertanto  rientravano nel concetto di impresa anche gli atti speculativi isolati che non davano luogo alla creazione di un organismo produttivo mentre non vi rientravano ad esempio le imprese artigiane in quanto non realizzavano una intermediazione a scopo speculativo.  Il codice civile del 1942 invece non considera l'impresa ma l'imprenditore e ne deriva pertanto che la definizione di impresa deve ricavarsi dalla nozione di imprenditore.

 

19) L'impresa come attività economica - Secondo l'art. 2082 cc l'imprenditore è colui che esercita professionalmente una attività economica organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi.  Ne deriva che impresa è innanzitutto attività economica e pertanto non costituisce impresa l'esercizio di attività non economiche anche se attuata professionalmente e attraverso una organizzazione. Non sono pertanto imprenditori ai sensi del codice civile il medico o l'avvocato  anche se l'esercizio della professione implica necessariamente una stabile organizzazione.  Soltanto quando l'esercizio della professione si inserisce in una attività economica organizzata e professionale può configurarsi l'impresa (es. quando un medico istituisce una casa di cura e in essa esercita la sua professione). 

20) L'impresa come attività professionale - Anche l'elemento della professionalità è essenziale per l'esistenza dell'impresa e quindi non vi è impresa in caso di attività  isolata anche se per l'attuazione di essa è necessaria una organizzazione di capitale e di lavoro (es. non è impresa l'organizzazione una tantum di uno spettacolo pubblico).  Il termine professionalità sta quindi a significare  abitualità ma non vuol dire permanenza né  esclusività. Pertanto se non sono imprese le attività occasionali (es. costruzione di un edificio da parte del libero professionista che dispone di eccedenze liquide) lo sono le imprese stagionali come ad esempio gli stabilimenti balneari e le imprese di trasformazione dei prodotti agricoli.  Non è inoltre impresa l'attività economica organizzata per il soddisfacimento dei propri bisogni e quindi non è imprenditore chi produce per sé stesso mancando in questa ipotesi il requisito della professionalità in quanto deve ritenersi che chi produce professionalmente beni o servizi necessariamente li produce per altri.

........

CAPITOLO III - LO STATUTO DELL'IMPRENDITORE 

(PER IL RESTO DEL RIASSUNTO CONTATTARMI IN PRIVATO)

 

 
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LA LEGGE PENALE

Post n°1 pubblicato il 27 Novembre 2014 da valeriodilorenzo23

LA LEGGE PENALE

Due sono le categorie in cui le sanzioni si distinguono
-Sanzioni esecutive
-Sanzioni punitive
Le prime consistono nell'esecuzione del precetto giuridico violato.
Le seconde hanno come contenuto una diminuzione di beni giuridici (libertà personale, patrimonio), di cui è titolare un soggetto, che in diritto pena le non può essere che l'autore del fatto condizionante la conseguenza sanzionatoria.
La differenza si coglie facilmente con un esempio: nel caso di furto, la sanzione prevista dall'art 624 c.p. (reclusione e multa) è sanzione punitiva: la restituzione della cosa rubata (sanzione di diritto civile, disposta dall'art 185 c.p.) è sanzione esecutiva.

Art 25 Cost: riserva di legge in materia penale
Il principio della riserva di legge in materia penale, già accolto dal Codice Penale vigente all'art 1, è stato costituzionalizzato, congiuntamente al principio della irretroattività della legge penale incriminatrice, all'art 25 Cost. il 2 comma di detto articolo stabilisce che :"nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

Ci si chiede se la riserva prevista dall'art 25 Cost. , sia riserva di campo di materia o di tipo di disciplina.
Se si trattasse di riserva di campo di materia si dovrebbe ammettere la competenza delle regioni ad emanare regole che comminino sanzioni penali nell'ambito delle materie elencate dall'art 117 Cost (es. caccia e pesca).
Dottrina e giurisprudenza sono generalmente orientate di escludere la competenza delle regioni in materia penale.
Gli elementi piu probanti, a sostegno della opinione che nega la legittimazione delle regioni a statuire in materia penale, sembrano quello delle inderogabili condizioni di uguaglianza, sancite dall'art 3 Cost, in tema di libertà personale, nonché il divieto, posto alle regioni dall'art 120 Cost, di adottare provvedimenti che ostacolino o limitino l'esercizio da parte dei cittadini, di diritti fondamentali. Esercizio che verrebbe inevitabilmente compromesso dalla previsione di fatti di reato ad opera di leggi regionali.

Assai importante è stabilire se dalla regola costituzionale discende un regime di riserva assoluta o relativa.
(Vige un regime di riserva assoluta di legge).
L'art 1 c.p.:"nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, ne con pene che non siano da esso stabilite", pare disporre una riserva di carattere assoluto.
L'art 25 Cost. :" nessuno può essere punito se non in forza di legge ", sembra consentire che anche un regolamento possa corredare di sanzioni criminali i propri precetti.
Deve respingersi l'opinione secondo la quale la legge conferirebbe la sua stessa forza alle regole secondarie richiamate dal disposto penale. Si può infatti osservare che se la norma secondaria acquistasse il rango di legge, non potrebbe essere modificata o abrogata che da un'altra legge.
La legge va considerata come unica fonte normativa del disposto penale.
Se ne deve concludere che ogni volta ce il potere legislativo si spoglia del monopolio che gli è attribuito, per delegarlo al potere regolamentare, comunque ciò avvenga, esso rinuncia all'esercizio della funzione di cui è investito in forza del principio della riserva. Ogni ipotesi di rapporto legge autorizzazione-regolamento delegato (futuro) è in contrasto con la regola della riserva di legge, e va per tanto considerata illegittima.
La lettera dell'art 25 Cost, come quella dell'art 1 c.p., pare limitare la riserva di legge alle regole incriminatrici, nonché alle relative conseguenze d'ordine criminale.
Ci si domanda se il regime di riserva assoluta di legge si estenda o no alle regole che hanno funzione modificativa o estintiva dell'illecito e dei suoi effetti giuridici.
La risposta: stante il principio che i fatti costitutivi di illeciti penali, e le conseguenze (criminali) ad essi ricollegate, debbono essere previste da regole ordinarie, qualsiasi effetto modificativo o estintivo , vuoi del fatto, vuoi della sanzione, non può essere stabilito a mezzo di regola secondaria (futura rispetto alla regola primaria). Se cosi non fosse, si verrebbe ad ammettere che ciò che la legge dispone è derogabile o modificabile da atti normativi di grado inferiore. Conclusione, questa, inammissibile

Norme penali in bianco
Con tale denominazione è individuata quella legge o quell'atto avente forza di legge che fa riferimento ad un atto normativo di grado inferiore per indicare tutte le connotazioni di un fatto che la stessa legge considera penalmente illecito limitandosi, la legge, a determinare la sanzione.
Ora, se questa previsione è contenuta in regole secondarie, già entrate in vigore nel momento in cui è prodotta la regola penale che ricollega la sanzione alla violazione di quelle regole, il principio della riserva assoluta di legge è rispettato.
Parliamo di economia normativa, la regola primaria, anziché ripetere il contenuto dei precetti o dei divieti secondari la cui inosservanza si vuole sanzionare penalmente, opera un rinvio a ciò che fa già parte dell'ordinamento giuridico.
Nessuna violazione insomma della riserva assoluta di legge.
Ovviamente ci veniamo a trovare in un irrimediabile situazione di contrasto col principio costituzionale, allorché la regola penale in bianco operi un rinvio ad una regola secondaria non ancora entrata in vigore.

Il rinvio operato da una regola primaria ad altra regola o ad altro sistema di regole, può essere di due tipi: rinvio meramente recettizio o rinvio formale.
-Si ha il primo allorchè la regola di diritto che rimanda ad altra regola , o ad altro sistema normativo, prende come riferimento il contenuto delle regole, rispetto alle quali è effettuato il rinvio, cosi come queste sono vigenti non momento in cui l'operazione di rinvio è enunciata. Tale operazione persegue solo un risultato di economia normativa. Non viene ripetuto quanto è già disposto in altro settore dell'ordinamento e ci si limita ad integrare la fattispecie prevista dalla regola primaria.
-Il rinvio è per contro, formale, quando la regola che lo ha effettuato esprime l'intenzione del legislatore di adeguare la disciplina dettata per una determinata materia alla disciplina già stabilita da regole diverse. Adeguamento raggiunto imponendo che, man mano che si modificano o sono abrogate le regole rispetto alle quali si opera il rinvio, gli effetti si riverberano, immediatamente e direttamente sul contenuto della regola di rinvio.

Ci domandiamo quale sia il tipo di rinvio, formale o recettizio, adottato in campo penale.
Il rinvio non può essere che meramente recettizio. La legittimità costituzionale, infatti, esige che il potere legislativo abbia la possibilità di vagliare, controllare, modificare, le regole con riferimento alle quali si compie il rinvio. Ma ciò può avvenire unicamente in relazione al contenuto della regola in vigore nel momento in cui è enunciata la regola primaria che ad essa rinvia.

La consuetudine nel diritto penale
Con il termine consuetudine si intende sia il modo di produzione di una regola giuridica, sia la regola così prodotta.
Nel primo caso si parla di processo di formazione di una regola, per consuetudine, che è la ripetizione generale, frequente e pubblica di un comportamento tenuto con la convinzione di adempiere ad un precetto giuridico.
La consuetudine presenta rilevanza diversa , e qualche volta diversa connotazione (ad es., si stabilisce talora che la ripetizione deve raggiungere un minimo di durata) a seconda dei diversi ordinamenti e dei diversi settori di uno stesso ordinamento.
Nel nostro ordinamento la consuetudine è fonte primaria per tutte le materie non regolate da leggi o regolamenti.
Ci chiediamo quale sia il ruolo che la consuetudine svolge in campo penale.
Deve escludersi innanzi tutto la legittimità di regole consuetudinarie incriminatrici. Quando è che si formi, per via di consuetudine una regola che preveda una figura di reato non contemplata da legge, tale regola sarebbe per definizione, in contrasto con l'art 25 2 comma Cost.
Diverso secondo alcuni, sarebbe il caso di regola consuetudinaria integratrice, cui la legge faccia rinvio per completare la descrizione di elementi di fattispecie.
Deve essere chiaro però, che di vera e propria consuetudine integratrice si può parlare solo quando la legge rinvii, per esplicitare la sua previsione, non ad un uso come mera abitudine, compatibile con altri precetti legali, bensì ad una regola giuridica formatasi per consuetudine.
Si è di solito concordi nell'escludere la possibilità di abrogazione di regole penali per consuetudine. A sostegno si assume che la ragione per la quale la consuetudine non può esplicare efficacia abrogativa sta nel fatto che, presentando in genere contorni troppo vaghi, si presta ad interpretazioni assai disperate, si da non garantire la certezza, indispensabile in materia penale.

Analogia in diritto penale
L'analogia consiste nel procedimento con cui ad un caso concreto non previsto dalla legge, si applica la disciplina prevista espressamente per un caso analogo, avente in comune col primo la "ratio legis". Accanto a tale forma di analogia (c.d. analogia legis) è ammesso anche il ricorso ai principi generali dell'ordinamento giuridico (c.d. analogia juris), nel caso in cui non vi siano previsioni di casi analoghi tali da colmare la lacuna legislativa.
Distinta dall'interpretazione analogica, è l'interpretazione estensiva. Infatti mentre con quest'ultima si precisa l'ambito della norma, dilatandone la portata fino al limite massimo di espansione, con l'analogia, al contrario, l'interprete va oltre i confini della norma, applicando quest'ultima ad una fattispecie che non ha nulla in comune con quella oggetto della norma penale incriminatrice, se non l'eadem ratio di disciplina.
Il divieto di analogia in diritto penale trova un ‘affermazione testuale nell'art 14 Disp.prel. (le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati), ed è stato successivamente costituzionalizzato dall'art 25 Cost.
La dottrina ritiene ammissibili la sola analogia in bonam partem poiché si dice, il divieto di analogia nel campo penale sarebbe lo strumento per evitare l'introduzione di indebite restrizioni alla libertà dei cittadini, mentre l'analogia in bonam partem potrebbe sortire unicamente effetti favorevoli, e non sfavorevoli.
Può pertanto concludersi che il divieto di analogia in diritto penale è costituzionalizzato soltanto con riguardo all'ambito punitivo: il divieto concerne l'aggravamento della situazione giuridica del cittadino (elementi del reato, sanzioni). È esatto dire, allora, dal punto di vista della costituzione, vi è soltanto un divieto di analogia in malam partem.
E' necessario precisare che nella dottrina favorevole all'analogia in bonam partem si effettua un distinguo, nel sostenere che mentre le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza, nella misura in cui contribuiscono a determinare i presupposti generali di applicazione delle norme incriminatrici, appaiono senz'altro suscettive di applicazione analogica, non lo sono invece, le ipotesi di immunità, le cause di estinzione del reato e delle pena e le cause speciali di non punibilità, ipotesi tutte che fanno riferimento a situazioni particolari o riflettono motivazioni politico-criminali specifiche e dunque, hanno carattere particolare e non generale.

(per il resto del riassunto contattarmi in privato)

 
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