DUE MONDI

SCRIVERE CHE LA TERRA TREMA


Scrivere La terra trema non è solo citare un capolavoro del cinema neorealista firmato Luchino Visconti, che rileggeva a suo modo I Malavoglia di Giovanni Verga. Scrivere che la terra trema o ha tremato è in queste ore la cronaca, disadorna e crudamente vera, di ciò che accade o è accaduto in Abruzzo. Dove la terra ha tremato non per dare titolo a una pellicola ma realmente, nelle viscere. Là dove più che il pessimismo con cui Verga raccontava il suo meridione risuona quel pessimismo "cosmico" con cui Giacomo Leopardi definiva la natura "matrigna" che con una colata lavica recideva il fiore del deserto, la ginestra. Ma senza che quel fiore avesse mai chinato il capo. Così come non lo chinò Ignazio Silone: nato a Pescina, Abruzzo, nella Marsica, nel 1915 il terremoto di Avezzano provocò nel suo paese oltre tremila vittime. Sotto le macerie chinarono il capo sua madre e i suoi familiari, lui si salvò insieme al fratello e scrisse, qualche anno più tardi, che la terra aveva tremato: << Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone - scriveva Silone nel '49 nell'autobiografia Uscita di sicurezza -. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni >>. Molte meno spiegazioni si quelle che Leopardi travestito da islandese pretendeva dalla Natura cieca e sorda nel celebre dialogo, Cieca Natura e per questo imparziale: << Nel terremoto morivano - scrive sempre Silone - infatti ricchi e poveri, istruiti ed analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l'uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie >>. L'unico risarcimento può esere diventare poeti, ovvero lucidi testimoni del proprio vissuto: come Salvatore Quasimodo, che dopo il catastrofico terremoto del 1908 si trasferì da Modica a Messina. Come tanti altri superstiti, visse a lungo dentro i vagoni ferroviari. Tre anni dopo quel bambino di appena 10 anni cominciò a scrivere poesie e a scorgere nei tramonti messinesi << riverberi di vespro / sanguinolenti come carne / macellata da poco >>. Infine un sonetto, edito sul "Piccolo" di Trieste nel 1909 ma mai inserito nelle raccolte poetiche è stato ripescato neanche un anno fa: è di Umberto Saba ed è ispirato anch'esso al tragico sisma messinese: >> Io non la vidi mai, che d'essa noto / n'era il nome e non più. Nel mio pensiero, / quanto vedevo immaginando il vero / è quello che distrusse il terremoto >>. Saba immaginava ciò che non poteva vedere. Ma non gli bastò andare oltre una siepe, come sarebbe bastato al Leopardi de L'infinito. Il terremoto aveva inghiottito anche quella.<< Il terremoto ribolle, le notti cadono nei carri merci e noi bestiame infantile contiamo sogni polverosi >>  Salvatore Quasimodo   Articolo tratto da E-polis di Roma del 7.04.09 Sezione Culture di Giambernardo Piroddi