DUE MONDI

Record e fatica: magia Mennea quando Bolt era un bianco


Trent'anni fa a Città del Messico il record dei 200. Pioggia, altitudine, niente tabelloni: "Capii dalle voci. Nessuno faticherà più come me. Mi allenavo a Natale, mangiavo i resti dei banchetti nuziali"di EMANUELA AUDISIOROMA - I due si guardarono. Il più giovane aveva ventisette anni. Dovevano lasciarsi, separarsi, dirsi le ultime cose. C'è un punto della vita in cui devi per forza correre da solo, anche se guardi allo stesso orizzonte. Si sarebbero di nuovo incontrati, ma dopo, alla fine della curva. Sentivano di essere sull'orlo di qualcosa, l'aria era elettrica. "Questa è la volta buona", disse il giovane. L'altro, l'allenatore, si meravigliò: non l'aveva mai sentito così sicuro. "Dagli dentro", rispose. Sopra avevano il cielo di Città del Messico, 2.248 metri sul livello del mare. Universiadi, 12 settembre 1979, ore 15.15. Il ragazzo andò ai blocchi, corsia numero 4. "E il vento suona la sua armonica, che voglia di piangere ho". Messico e nuvole, meglio non pensarci. Cominciò a piovere. Gocce leggere, fitte, dolci. Il ragazzo guardò la pista, era liscia e consumata. Gli seccava che nei giorni precedenti fosse comparsa la scritta Petro Menea, il suo nome storpiato, senza la i e una n, come la nazionalità, francese. Aveva tirato molto nelle tre prove precedenti, aspettare l'ultimo turno era un rischio. Si convinse o almeno ci provò: "Il mio punto di riferimento saranno le voci. Quando arriverò, ascolterò, e saprò". Il ragazzo partì con una fretta perfetta. 1.8 metri di vento a favore. C'è sempre una magia nello scappare verso qualcosa. Corse come non aveva mai fatto in vita sua e superò il mondo. Si lasciò dietro l'infanzia, i complessi, i torti, il suo sud. Ci sono curve che ti restringono, sbandi, diventi piccolo, mentre ai lati i muri crescono. Dove entri bambino e esci vecchio. E altre: dove sbuchi nella felicità. Pietro Paolo Mennea di Barletta corse la sua curva: senza perdere velocità, con la spalla sinistra più bassa, remò per contenere la sbandata. Il professor Carlo Vittori, suo allenatore, notò che i muscoli del viso non erano contratti. Faticava come una bestia invece il polacco Leszek Dunecki. Gli avevano detto di fare la gara sul ragazzo italiano, di stargli dietro. Ma dov'era? Laggiù, sei metri più avanti, in un altro secolo, già arrivato. 19''72, record del mondo, nei 200 metri. "Il pubblico urlò. Io capii, ma non ero sicuro. Non c'erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L'unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, forse che avevano sbagliato anno? Eravamo nel '79 non nel '72, poi mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione". Quel giorno l'Italia scoprì un altro Coppi. Veniva dal meridione, era magro, un po' storto, molto contorto. Figlio di un sarto. Suo padre tagliava abiti, lui si cucì l'atletica addosso. Corse i primi cento in 10''34 e i secondi in 9''38. Una progressione strepitosa: dai 100 ai 150 metri alla velocità di 40 chilometri orari. Quell'anno l'Italia capì che correre alla Mennea era una scienza. Il professor Vittori studiava la formula, Pietro Paolo la realizzava. Trent'anni dopo un record così neorealista, made in Italy, non sembra più possibile. Mennea che ha scritto un libro "19"72. Il record di un altro tempo", ne è sicuro: "Noi abbiamo indicato una strada che ora tutti hanno abbandonato. Forse c'è ancora qualcuno che conosce la misura della fatica, ma è diversa, non sarà mai quella nostra. Su 365 giorni l'anno, tutti di allenamento, ne saltavo solo 15. A casa mia, a Barletta, tornavo solo tre volte. Per il resto, sempre a Formia, mattina e pomeriggio, anche a Natale e Pasqua. Alla sera mangiavo come un matto, ma niente alcolici e cibo piccante. Stavo in un albergo che ospitava ricevimenti nuziali, a me andavano i resti, era una pacchia: antipasti, primi, secondi, contorni, frutta, dolci. Ero abituato bene, con mia madre che mi preparava la pasta al forno alle tre di pomeriggio. Non sono mai stato male di stomaco e a livello muscolare in 20 di attività non mi sono mai strappato. Quelli che si allenavano con me, non reggevano il ritmo, se ne andavano dopo un anno, sfatti. Quando Vittori nei convegni mostrava il programma di lavoro gli chiedevano: ma chi ha fatto queste cose è ancora vivo?". Ci sono record che non sfondano solo il tempo, ma che bucano anni. "Nessuno mi dava credito, quel primato sembrava destinato a cadere in fretta. Infatti è durato 17 anni. Dal '79 al '96, al 19''66 di Michael Johnson. C'è un destino nei numeri: corsi sulla stessa pista dove Tommie Smith nel '68 aveva stabilito il mondiale con 19''83. Undici anni prima. E io migliorai quel tempo di 11 centesimi. Come anche Bolt a Berlino. Ero in forma, affrontavo tutti, battevo gli americani. Incontrai Muhammad Ali a Las Vegas. Mi presentarono come l'uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: 'Ma tu sei bianco'. Sì, gli risposi, ma sono nero dentro". Nessun bianco da quel '79 ha più corso una curva così perfetta. E oggi dietro a Bolt e al suo 19"19 Pietro Paolo Mennea sarebbe secondo, medaglia d'argento. Ci sono curve che proprio non si raddrizzano mai. (8 settembre 2009)