Isla de tortuga

LE MANI DI MOZART


Avevo sei anni quando cominciai a prendere lezioni di piano: mio padre ci teneva moltissimo. Lui quando era giovane suonava la fisarmonica: io però non l’ho mai sentito suonare. Si sa come va con i genitori frustrati: non hanno raggiunto un risultato e provano con i figli. La musica non mi piaceva. Sì, insomma, mi piaceva fare qualcosa che gli altri bambini non sapessero fare. Tutto qui.La musica era costrizione: quelle cinque righe, note bianche o nere e mai diverse. Hai mai visto un do rosso? O una semibiscroma azzurra? E come si fa a non sentirsi dei rincoglioniti, che scacciano mosche fastidiose se solfeggi? IL solfeggio: incredibile pensare come la mente umana possa partorire simili idiozie. Ascolta la musicalità della parola solfeggio: solfeggio, solfeggio sol-feg-gio. Non ha musicalità: è una parola brutta, cacofonica. Cosa c’entra con la musica poi non l’ho mai capito. Andare a lezioni di pianoforte era un supplizio che mi toccava due volte alla settimana. Martedì e venerdì pomeriggio: non importava a nessuno che ci fosse il sole o che tutti i bambini del cortile fossero giù a fare casino. IO dovevo andare a lezione. Facevo quattro piani a piedi perché l’ascensore non lo potevo prendere.Ero così stupido che pensavo a quando sarei diventato grande, di lì a sei anni e sarei salito al quarto piano in ascensore, come tutte le persone normali che non fanno le scale se c’è la comodità. Altri sei anni di lezione dalla signora Laffranchi: ogni volta era come andare al patibolo per me. Ancora per sei anni. Nemmeno morto, piuttosto non proverò mai la sensazione di libertà a prendere l’ascensore da solo per salire al quarto piano. Lei era triestina, con un inconfondibile accento del nord est, con una voce un po’ stridula, gli occhiali sempre sulla punta del naso, le mani affusolate, dita lunghe da pianista e piedi lunghi da giocatore di pallacanestro. Cantava nel coro della RAI, una del coro,  sicuramente un’altra frustrata, che non poteva mai fare assoli: ma le sue dita volavano tra le ottave. Quando suonava non la consideravo più come persona: sentivo solo i martelletti che picchiavano con il feltro sulle corde. Erano  velocissimi e l’armonia del suono era spettacolare. Non ricordo la marca del suo strumento, ma ricordo che al semplice tocco del tasto la corda vibrava, segno che il feltro era nuovo e non usurato, a differenza del nostro Holiferarten, gran pezzo da museo. Appena smetteva di suonare e ascoltava me che ripetevo gli esercizi studiati, tornava ad essere quella che conoscevo. Poco simpatica, incline a criticare costantemente la lunghezza delle mie unghie che, a suo dire, impedivano alle mia dita di sfiorare in maniera corretta e pulita i tasti. Chissà come erano le mani di Mozart: e chissà se prendeva lezioni da una mancata maestrina frustrata e pedante.La musica è altro.Cazzo è vita, è il sangue del mondo che scorre. E’ come mi sento ora quando suono con il mio gruppo, in sala di registrazione o nel box di Davide. La mia chitarra elettrica è un arto di legno e metallo, una protesi estesa del mio corpo: mi fa vivere e mi fa sentire Dio. Volo sopra le vite di merda che vivete, a cavallo del mio suono, come i cavalieri della tempesta dei Doors. Chi se ne fotte se quando torno a casa mia madre comincia a rompere perché il libro di storia è ancora vergine? Chi se ne fotte se i miei capelli sono troppo lunghi per non passare inosservato agli insegnanti del liceo? Io vivo.Silvia viene a sentirci ogni tanto: ieri mi ha regalato un cappello a forma di cilindro, non so dove lo abbia trovato. L’ho messo per suonare, come Slash dei Guns. Lei è dolce, si siede per terra, scarpe di camoscio e palestinese: sa di sigarette, sempre. Mi piace baciarla: mi piace stare con lei perché non mi chieda mai nulla, né come sto né cosa ho fatto. Vive il presente perché dice che il futuro non esiste e che il passato è già vecchio. Una poetessa: un giorno ho tradotto in inglese queste parole ed ho composto alcuni accordi. Glieli farò sentire. Li regalerò a lei perché sono suoi.Mi sento molto importante quando viene a sentirci: segue il ritmo della batteria con le dita  a mimare bacchette, piatti, o rullante quando Angelo pesta, o muove le dita a schiacciare chissà quali corde quando Davide imita Adam Clayton degli U2 in Gloria. Certo canta a squarciagola con Massimo In the name of love. Ma se io parto con l’assolo di Another brick in the wall, chiude gli occhi e comincia il nostro volo: ci prendiamo per mano e in pochissimo siamo sulle cime delle Alpi, sorvoliamo Parigi con i suoi mille colori, il canale della Manica e in pochi secondi siamo a Londra, hide Park, Wenstminster, la torre dell’orologio, l’inglese, la Union Jack, i punk. E’ il nostro volo e nessuno è capace a volare come noi due. L’assolo lo so a memoria, l’ho imparato provando e riprovando, conosco quella canzone a memoria: certo, la Laffranchi, comunque, mi ha insegnato a leggere la musica ma, suonandolo, capisco perché tutti i chitarristi chiudono gli occhi e lasciano muovere le dita sulle corde. Le note sono lì, devi solo prenderle, nell’ordine preciso in cui sono state pensate. E chiudo gli occhi per afferrarle con le mie mani. Quando li riapro Silvia è lì, con gli occhi che si aprono con i miei....scritto pensando un po' a me, e ai miei anni 80!