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La speranza nell’attesa del CAOS - Siamo anelli aperti o chiusi di catene mai costruite. IinA_M@

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AUGURI DI NATALE N° 2: UN PENSIERO PER LA NOSTRA DEMOCRAZIA - Insegnare democrazia di Gustavo Zagrebelsky

La democrazia non promette nulla a nessuno ma richiede molto a tutti.

E’ non un idolo ma un ideale corrispondente a un’idea di dignità umana e la sua ricompensa sta nello stesso agire per realizzarlo.

AUGURI DI BUON NATALE ALLA NOSTRA ........... DEMOCRAZIA

Insegnare democrazia di Gustavo Zagrebelsky

Secondo un luogo comune, l’attaccamento alla democrazia si svilupperebbe da solo, causa ed effetto della democrazia stessa: tanta più democrazia, tanta più virtù democratica. Un circolo meraviglioso! La democrazia sarebbe l’unica forma di governo perfettamente autosufficiente, rispetto a ciò che Montesquieu denominava il suo ressort, la molla spirituale. Basterebbe metterla in moto, all’inizio; poi, le cose andrebbero da sé per il meglio.

Ebbene, a distanza di qualche decennio dalla Costituzione, uno scritto famoso di Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, 1984) tra le “promesse non mantenute” della democrazia indicava lo spirito democratico.  Invece dell’attaccamento, cresce l’apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per convinzione, ma per assuefazione e l’assuefazione può portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto. E’ vero però che la partecipazione può improvvisamente infiammarsi e l’indifferenza può essere spazzata via da ventate di mobilitazione, in situazioni eccezionali. Sono però reviviscenze che non promettono nulla di buono. Gli elettori, eccitati, si mobilitano su fronti opposti per sopraffarsi, al seguito di parole d’ordine elementari: bene-male, amore-odio, verità-errore, vita-morte, patriottismo-disfattismo, ecc., cose che lestofanti della politica spacciano come rivincita dei valori sul relativismo democratico. Parole che potranno forse servire a vincere le elezioni ma intanto spargono veleni, senza che un’opinione pubblica consapevole sappia difendersi, dopo che la routine l’ha resa ottusa. Un difetto e un eccesso: l’uno indebolisce, l’altro scuote alle radici.

Apatia e sovreccitazione sono qui a dimostrare che l’ethos della democrazia non si produce da sé. Monarchie, dispotismi, aristocrazie e repubbliche hanno avuto i loro pedagoghi: Senofonte, Cicerone, Machiavelli, Bossuet, Montesquieu... Le rivoluzioni hanno avuto i loro catechismi. La democrazia invece ha politologi e costituzionalisti. Non bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole esterne di funzionamento ma ciò che qui importa, il fattore spirituale, normalmente sfugge. Il loro pubblico, poi, non è certo il cittadino comune, come dovrebbe essere, in quanto si sia in democrazia. Naturale dunque è che si guardi alla scuola e al suo compito di formazione civile.

Il decalogo che segue è una semplice proposta. - La trattazione dei 10 temi è riportata, distintamente, nei primi dieci commenti.   In tal modo risulta anche più razionale l'appropriata pubblicazione di eventuali commenti, grazie. 

1. La fede in qualcosa che vale. 
2. La cura delle individualità personali. 
3. Lo spirito del dialogo.
4. Lo spirito dell’uguaglianza.
5. Il rispetto delle identità diverse.
6. La diffidenza verso le decisioni irrimediabili.  
7. L’atteggiamento sperimentale.
8. Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza.
9. L’atteggiamento altruistico.
10. La cura delle parole. 
 
Abbiamo detto della democrazia e cercato di mettere in luce dieci implicazioni pratiche della sua stessa nozione. L’interesse era rivolto agli atteggiamenti spirituali che ne devono conseguire. Sarà stato certamente notato, tuttavia,  che il problema più importante e, al tempo stesso, più difficile è stato finora evitato. Si è infatti è taciuto della premessa, l’adesione alla democrazia. Trattandosi di pedagogia, la domanda è se si possa insegnare non che cosa è la democrazia ma a essere democratici, cioè ad assumere nella propria condotta la democrazia come ideale o virtù da onorare e tradurre in pratica. In breve, si tratta di sapere se ideali e virtù, in particolare quella virtù politica che sta a base della democrazia, siano insegnabili oppure no.

Siamo così pienamente, di nuovo, al centro di un argomento tipicamente socratico. Se solo alcuni e non altri sono predisposti alla virtù politica, gli uni saranno destinati a governare e i secondi a obbedire e la democrazia sarebbe un esperimento contro natura, destinato a vita breve e a produrre gran danno. Essa ci consegnerebbe indifesi nelle mani di maggioranze di ignoranti senza testa politica, nella migliore delle ipotesi, di malvagi con testa criminale, nella peggiore. Il mito del Protagora racconta di come Prometeo, avendo distribuito agli esseri viventi,  per conto degli dei, tutte le facoltà necessarie per una vita buona, si accorse che mancava agli uomini l’euboulía, l’assennatezza nelle deliberazioni comuni. Onde gli uomini fondavano città per difendersi dai pericoli della vita ferina ma, una volta radunati, scoppiavano dissidi che li disperdevano di nuovo ed essi perivano. «Ora Zeus, temendo l’estinzione della nostra stirpe, manda Ermes a portare tra gli uomini rispetto e giustizia, affinché siano ornamenti e vincoli, propiziatori d’amicizia. Ermes dunque interroga Zeus in qual maniera virtù e rispetto si debbano distribuire tra gli uomini. ‘Debb’io distribuirle come furono distribuite le arti? E le arti furono distribuite così: un solo che possiede la medicina basta a molti che non la possiedono; e così anche i cultori delle altre arti: devo io dunque collocare allo stesso modo giustizia e rispetto tra gli uomini, o distribuirla tra tutti?’. ‘Tra tutti - risponde Zeus - e che tutti ne abbiano parte, perché non potrebbero esistere le città, se ne partecipassero pochi, come avviene per le altre arti. E poni il mio nome per legge, affinché chi non partecipi al rispetto e alla giustizia sia ucciso come peste della città’». Tutti sono dunque capaci di virtù politica. Basta che la conoscano. Questa era la convinzione socratica: la virtù esiste in sé, la possono conoscere e, poiché nessuno è malvagio se non per ignoranza, ciò che occorre e basta per essere virtuosi è la retta conoscenza.

Noi sappiamo che, disgraziatamente, non è così; che Socrate erra, sia perché le virtù non sono realtà obiettive ma valori soggettivi; sia perché, comunque, nella natura umana la conoscenza non coincide affatto con la coscienza, perché si può essere malvagi con la perfetta consapevolezza di esserlo.

Se dunque non è la conoscenza che fonda l’adesione alla virtù, potrà essere l’utilità? Possiamo cioè pensare di promuovere adesione alla democrazia mostrandone i vantaggi? Purtroppo, anche qui la risposta è no. Se ci riferiamo a beni come, per esempio, lo sviluppo economico, la promozione delle arti e della scienza, la pacifica convivenza, la sicurezza pubblica come frutti benefici della democrazia, non possiamo non considerare che esistono momenti critici in cui, proprio per garantirceli quando paiono sfuggirci, siamo disposti a limitare la democrazia, o addirittura a rinunciarci, per rimetterci nelle mani salvifiche di qualcuno che provveda per tutti. Onde, una fondazione solo strumentale e utilitarista della democrazia potrebbe rivelarsi un suicidio.

Né dunque essenzialismo alla Socrate, né mero utilitarismo, nella pedagogia democratica. Che dire allora, senza cadere in melliflua, ideologica e alla fine falsa e controproducente, propaganda di un valore? Chi ha qualche esperienza di insegnamento di temi politici e costituzionali – la legalità, la libertà, la solidarietà, la democrazia, per l’appunto - conosce bene questo pericolo. Un pericolo che comporta anche una contraddizione: qualsiasi altro sistema di governo, ma non la democrazia, può far uso di propaganda. In ogni propaganda è implicito una tentata violenza all’altrui libertà di coscienza. La democrazia è dialogo paritario e, se vuol essere tale, deve farsi deponendo ogni strumento di pressione: innanzitutto pressione materiale, come quella che viene dalla violenza e dalle armi, ma anche pressione morale, come quella che può essere esercitata nel rapporto asimmetrico di autorità-soggezione che si crea talora, quando degenera in autoritarismo, tra padre e figli, maestro e allievo: un rapporto che può mancare di rispetto e contraddire libertà e democrazia.

Pensando e ripensando, non trovo altro fondamento della democrazia che questo solo. Solo, ma grande: il rispetto di sé. La democrazia è l’unica forma di reggimento politico che rispetta la mia dignità nella sfera pubblica, mi riconosce capace di discutere e decidere sulla mia esistenza in rapporto con gli altri. Nessun altro regime mi presta questo riconoscimento, poiché mi considera indegno di autonomia, fuori della cerchia stretta delle mie relazioni puramente private. La democrazia è, tra tutti, l’unico regime che si basa sulla mia dignità in questa sfera più ampia. E’ per questo – cosa notevole – che la Chiesa cattolica, pur in origine favorevole a regimi politici autocratici e poi indifferente, purché essi fossero rispettosi dei suoi diritti e del suo diritto naturale, ha da ultimo fatto affermazioni preferenziali nei confronti della democrazia, stante il rapporto tra questa e la dignità umana, un pilastro del suo insegnamento sociale attuale.

Ma non basta il rispetto di sé, occorre anche il rispetto, negli altri, della dignità che riconosciamo in noi. Il motto della democrazia non può che essere: “Rispetta la dignità del prossimo tuo come la tua stessa”. Infatti, il rispetto solo di se stessi e il disprezzo degli altri portano non alla democrazia ma alla lotta per l’affermazione della propria autocrazia, onde evitare la necessità e la limitazione del coordinamento reciproco.

Questo rispetto è qualcosa di moralmente elevato, ma non necessariamente incontestabile. Si può rispettare in sé la propria dignità, e così negli altri; ma ugualmente ci possono essere buone ragioni per disprezzare sé e gli altri: ragioni personali, che affondano le loro radici nelle storie individuali, ma anche ragioni universali, come quelle offerte dalle religioni che annichiliscono l’essere umano, peccatore fin dall’origine, di fronte al suo Dio e si predispongono così a forme di governo teocratiche o autocratiche su base religiosa. Anche a questo proposito, la storia meno recente della Chiesa cattolica e dei suoi rapporti con l’autorità politica è istruttiva. E lo sono anche certi tentativi recenti di imporre verità dogmatiche tramite la forza dello stato, in questioni eticamente sensibili come quelle che riguardano la tecnologia applicata alla nascita, alla vita e alla morte.

D’altra parte, il rispetto di sé e degli altri è sempre esposto al peso della spossatezza. La democrazia stanca. L’oppressione dispotica suscita reazione e ribellione. La democrazia invece stanchezza. La virtù democratica è cosa “pénible”, come annotava già Montesquieu: “La virtù politica (della democrazia) è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua dell’interesse pubblico agli interessi propri”. Dunque, rispetto agli istinti egoistici, essa, se non proprio una cosa contro natura, almeno è una sfida permanente.

Ma vale la pena questa rinuncia?  A che pro? Abbiamo già ricordato le “promesse non mantenute” della democrazia, di  cui ha parlato il professor Bobbio. L’elenco delle delusioni sarebbe lungo: l’ingovernabilità delle società pluraliste; la rivincita degli interessi corporativi che soffocano l’interesse generale; la persistenza di oligarchie economiche, politiche e di ogni altra natura; lo spazio limitato della democrazia, che non è riuscita a penetrare dappertutto nella società; il potere occulto che contrasta con l’esigenza democratica che il potere si mostri pienamente in pubblico e ha indotto a parlare di un “doppio stato”, uno visibile e un altro invisibile; l’apatia politica; il fanatismo e l’intolleranza; tecnocrazia e burocrazia (e quindi gerarchia) invece che democrazia; sovraccarico di domande e difficoltà delle risposte, cioè ingovernabilità. Questo elenco, col senno dell’oggi, è incompleto. Parliamo di videocrazia, conseguente alla crescente concentrazione a livello mondiale e nazionale della comunicazione politica; di plutocrazia, determinata dall’assunzione del potere politiche in mani di pochi detentori di smisurate ricchezze personali, e di cleptocrazie, quando quelle ricchezze sono il frutto di attività illecite. Si assiste con un senso di impotenza allo sviluppo di una dimensione ormai planetaria delle organizzazioni degli interessi industriali e finanziarie dell’odierno capitalismo, in un mercato che palesemente sfugge al controllo dei poteri politici nazionali, ammesso che essi, anziché essere conniventi con tali interessi, intendano porre regole e controlli. L’aumento delle disuguaglianze e delle ingiustizie su scala mondiale alimenta l’identificazione dei regimi democratici con le plutocrazie, da cui l’identificazione della democrazia, ideale universale, con un regime di casa nostra, regime dei forti e dei ricchi, che credono talora di poterla imporre con lo strumento tipico dei prepotenti, la guerra.

Queste sarebbero “promesse non mantenute”. Ma che significa questa espressione? Non nasconde forse un malinteso? E’ un modo di dire approssimativo che mette fuori strada. E’ come se ci fossimo affidati alla democrazia, aspettandoci un contraccambio, e quindi potessimo lamentarci se le nostre attese sono andate deluse. Ma la democrazia non è un’Alcina o una Circe. Non ci hanno detto una volta: venite da noi ché vi promettiamo una vita di amorose delizie, e si siano poi scoperte per megere ributtanti che ci riducono a una vita animalesca. Non è qualcosa fuori di noi, indipendentemente da noi e tanto peggio per noi, se ci siamo illusi. Non è lecito parlare di promesse non mantenute della o dalla democrazia, come se questa ci avesse un tempo dato affidamenti, poi rivelatisi vani. La democrazia non promette nulla a nessuno ma richiede molto a tutti. E’ non un idolo ma un ideale corrispondente a un’idea di dignità umana e la sua ricompensa sta nello stesso agire per realizzarlo. Se siamo disillusi, è per illusione circa la facilità del compito. Se abbiamo perduto fiducia è perché siamo sfiduciati in noi stessi, non nella democrazia. Le promesse sono quelle che ci scambiammo tra noi nel dire di volere la democrazia (art. 1 della Costituzione) e, se non sono state mantenute, è perché che noi stessi abbiamo mancato verso noi stessi ed è qui, in questo scarto tra ciò cui aspiriamo e la bruta realtà delle cose, che, naturalmente, si innesta il nostro tema: la pedagogia democratica, l’insegnar democrazia.

Lo spirito attuale, di fronte a queste disillusioni, non è certo quello trionfante in cui cinquant’anni fa si celebrava la vittoria delle democrazie sui totalitarismi. Nel 1951, pochi anni dopo la fine della II guerra mondiale, si tenne un simposio sulla democrazia promosso dall’Unesco cui parteciparono centinaia di studiosi di tutto il mondo e di ogni orientamento politico. Per la prima volta nella storia dell’umanità, in quegli anni la democrazia riceveva il riconoscimento di unica definizione ideale di tutti i sistemi di organizzazione politica e sociale e diventava la categoria-base su cui collocare e a cui confrontare tutte le azioni, i pensieri e le relazioni politiche. Essa risuonava come sintesi di tutto ciò che di bello e buono esiste nella vita collettiva. Nessun regime, capitalista o socialista, liberale o sociale, pluripartitico o a partito unico, rappresentativo o basato su auto-investiture carismatiche, ecc. intendeva rinunciare ad autoproclamarsi democratico. Il problema dell’adesione sembrava universalmente risolto. Fin da allora, però, doveva risultare chiaro proprio da quell’illimitata adesione che il nobile concetto era sottoposto a una tale estensione da perdere di significato analitico e soprattutto ideale, predisponendosi così, fin da allora, a corrompersi e anche a rendere bassi servigi a chi avesse voluto travestirsi in democratico per servirsene ai propri scopi.

Quello spirito trionfante non c’è più e ci si accorge sempre più spesso che la democrazia esige ricostruzione, dove c’è da recuperare le posizioni, e resistenza, dove c’è da salvaguardarle. E si fa sempre più chiara la consapevolezza che si abbia a che fare con macro-difficoltà, mentre la democrazia è predisposta ad affrontare i suoi problemi piuttosto in micro-dimensioni. Ma cos’altro possiamo fare se non considerare che la diffusione nelle coscienze dell’attaccamento alla dignità delle persone e al valore della democrazia e delle sue condotte che ne deriva si possa generalizzare al punto da insidiare, a sua volta, le insidie che la minacciano?

I primi dieci commenti sono parte integrante del post, grazie.

 
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