Il Mio Elfo

RENATO PALAZZI DICE LA SUA


BlastedNel 1995, quando fu rappresentato per la prima volta, Blasted, il testo d'esordio di Sarah Kane, fece scalpore sulla stampa inglese: il suo intreccio ricco di richiami forti, stupri, defecazioni, cannibalismo, truculenze di ogni tipo, scandalizzò i settori più benpensanti del pubblico e della critica. In Italia, dove un paio d'anni dopo lo rappresentò la compianta Barbara Nativi, sempre attenta a quanto di provocatorio accadeva sulla scena internazionale, la reazione non fu proprio la stessa: spettatori e addetti ai lavori più avvezzi alle trasgressioni sorrisero di quegli eccessi, e non presero il fenomeno troppo sul serio.Poi è accaduto ciò che si sa: la Kane si è suicidata a soli ventotto anni, e un po' perché la morte prematura conferisce agli artisti una statura mitica, un po' perché l'atrocità di questa fine ha gettato una luce disperata sulla sua scrittura, si è dovuto riconsiderarne la parabola creativa. Così è iniziato un processo di riabilitazione che ha riguardato non soltanto i suoi ultimi testi, quelli più legati agli abissi della depressione, come Psicosi delle 4.48, ma anche la produzione precedente. Ed è in questa chiave che Elio De Capitani si è accostato a Blasted, cercandovi gli echi di un orrore più ampio, di una tragedia che investe i valori stessi della cultura occidentale.Il regista ha costruito uno spettacolo molto coerente con questa idea, trasformando i brutali accoppiamenti di un giornalista con una ragazzina disadattata, e gli abusi che costui subisce da parte di un soldato che poi gli mangia gli occhi, sullo sfondo di un'ignota guerra, in una sorta di inesorabile tragitto "a stazioni", sottolineato da pause di buio che ne scandiscono la fatale progressione. A ogni tappa di questa discesa agli inferi corrisponde un'ulteriore devastazione della stanza d'albergo in cui si svolge l'azione, pavimenti divelti, pareti che crollano formando via via un desolato paesaggio di macerie, metafora di un mondo di rovine interiori.La sua proposta, salvo qualche pausa introspettiva di troppo, specialmente nella prima parte, dove gioverebbe un ritmo più incalzante, è molto meditata e costruita con attenzione ed estremo rispetto nei riguardi dell'autrice, oltre che ben recitata soprattutto da Paolo Pierobon. Come spesso accade, però, proprio la qualità della messinscena fa ancor più risaltare i limiti del testo, il quale a mio avviso non è quella lancinante testimonianza che il regista vi scorge: sbaglierò, ma a lungo andare il crescendo di effetti non risulta agghiacciante ma meccanico, voluto, riconfermando certe vecchie sensazioni di un gusto trash compiaciuto e gratuito.di renato palazzi (11:06 - 28 ott 2008 - delteatro.it)