Il Mio Elfo

13 marzo 2009 - Lola che dilati la Camicia all'Elfo. "la vita non è punto bella".


Attraverso un angusto corridoio ed entro in punta di piedi nella stanza di Adalgisa Conti, una stanza di assi e bende logore, sudate, sporche, disfatte dal tempo e dal dolore. Adalgisa e la sua infermiera sono già li, nel cupo quadrato che delimita il mondo dell’ospedale psichiatrico. La paziente è seduta, di spalle, sembra parlare tra sé, in silenzio mentre l’infermiera, in piedi, sistema con gesti lenti dei nastri di tessuto: bende.Rose di carta sparse sul pavimento. Adalgisa viene lavata, denudata, spogliata di tutto, della sua dignità e dell’intimità.  Una sorta di battesimo, che battesimo non è. Non sembra una rinascita, ma la cancellazione della vita passata, la privazione dei propri vestiti, degli effetti personali, l’arrendersi alle mani meticolose di altri che si occuperanno della pulizia del corpo e dell’anima. Le mani altrui che lavano, vestono, pettinano i capelli incessantemente. Il ritorno ad essere bambina, la privazione della volontà e dell’autonomia.  E, da questo momento Adalgisa apre la sua anima ed il suo cuore a noi spettatori seduti in silenzio di fronte a lei. Racconta il suo racconto ossessivo e lascia intorno a sé dietro di sé, addosso a sé elle lettere. Nell’atto dello scrivere riesce a dare senso al tempo ed al suo vissuto. L’infermiera parla con lei , risponde pacatamente creando un contrappunto di voce, un duetto a tratti ripetitivo, a tratti complementare. Le due donne danno un’unica voce ai ricordi intonando un coro che quasi assomiglia ad un canto. La narrazione soggettiva di Adalgisa – la sua percezione del vissuto – s’intreccia, si confonde e si oppone alla narrazione oggettiva dell’infermiera – portavoce del resoconto della cartella clinica della paziente “Adalgisa Conti” e della lettura delle ritrovate lettere. Momenti intensi, toccanti, mescolano la vita in manicomio ai ricordi. S’intrecciano come fotografie, episodi della vita passata: l’esuberanza di ragazza, la scoperta di un amore che non era amore, il matrimonio, la sua sessualità scontenta, i sensi di colpa e la sua pazzia. Risate, urla di rabbia, sogni lontani. Le esperienze di bambina, le illusioni di ragazza, i desideri di donna. Il matrimonio frettoloso, la prima deludente notte di nozze, la finzione coniugale,  il senso di castrazione per la mancata maternità, il suo sentirsi donna a metà. E poi l’ingresso in manicomio, l’incontro in parlatorio con il marito. Il vissuto della mente che si confonde con la realtà.  Le richieste di aiuto di Adalgisa sono semplici e sono indirizzate al “dottore” che metaforicamente diventa pura luce bianca ed accecante al di là della porta: un messia, colui che “Può”, che potrebbe dare un senso alla vita di Adalgisa  privandola dell’inedia e dell’ozio. Lei chiede ossessivamente un’occupazione qualsiasi, lavorare, scrivere, impegnare le ore vuote dell’esistenza reclusa. L’assenza di scansione del tempo l’allontana dalla realtà, le confonde la mente ed i pensieri portandola alla pazzia.E’ un crescendo di emozioni che, incontrollate ed incontrollabili,sfociano in una crisi rabbiosa e violenta. Una pazzia che non è pazzia ma repressione. Adalgisa, diventa incapace di controllare l’irruenza dei suoi ricordi: improvvisamente si agita, urla di rabbia, e di dolore. L’infermiera con pochi e pacati gesti l’afferra, la placa, ne distende il corpo e le mani. Adalgisa si
placa, ansimante ed esausta tra le sue braccia. Nella sua ricerca infinita d’amore si aggrappa a chi l’accudisce, amando, accarezzando, baciando. La donna stenta ormai a trovare le parole per continuare il suo racconto, l’infermiera le suggerisce, lei dimentica. Il suo monologo diventa sempre più frammentario: non resta ormai che la rassegnazione della vecchiaia e del silenzio. L’infermiera diventa artefice del decadimento fisico di Adalgisa. Con pochi abili tocchi di trucco la trasforma in  un vecchio cadavere, i capelli sporchi e spettinati, i denti marci, le guance scavate, gli occhi vuoti. Del suo vivere rimane soltanto la lunga vecchiaia del manicomio, scandita dal passare degli anni, dall’elenco di date di una cartella clinica, dai sintomi del degenerare della malattia, dall’imbruttimento, e dal silenzio.  L’incalzare delle date si conclude con l’accenno al nostro presente: “oggi 13 marzo 2009”.  Adalgisa, abbandonata cade in ginocchio, e grida senza voce. E’ il suo muto grido finale, disperato, sdentato, rassegnato che contiene tutta la sofferenza del mondo; del tempo di allora e di quello di oggi. Un grido che rivela il senso definitivo, intimo ed assoluto delle parole dette quando ancora era una donna giovane, sana, viva: "la vita non è punto bella".Grande, intensa, immensa, commovente, coraggiosa e forte Cristina Crippa. Decisa, solida, avvolgente, pietosa l’infermiera Patricia Savastano. Coraggiosa Cristina, che sa mettersi a nudo, piccola e nel contempo grandissima davanti a noi. Uno spettacolo che lascia un segno forte, che fa riflettere, appassionare ed emozionare. Che ci ricorda i limiti della nostra libertà, che è prima di tutto dell’anima. Che srotola il leggero filo che unisce salute e pazzia, mostrandone la vacuità.Mille intense suggestioni che lasciano il segno nella bella regia di Marco Baliani: le parole affidate alle lettere, un ombrellino ed un vestito da sposa, Il colloquio continuo con il pubblico, il canto doloroso dell’infermiera, la musica, il canto di Adalgisa. Ed infine le rose sul pavimento, costruite con cura dall’infermiera/nutrice, le rose raccolte, poi rigettate e sparse per terra, come fiori morti, lasciati lì ad appassire. Daniela Conti. Il bellissimo disegno è di Renzo Francabandera ed è stato eseguito nel corso dello spettacolo.