Il Rigattiere

Post N° 19


IV Chissà perché mi viene in mente “Fai la cosa giusta”. Forse perché è una delle domande che mi pongo regolarmente tutti i giorni, più volte al giorno. “Quello che devo fare è andarmene da questo posto”. Tira su col naso e si guarda intorno. Nonostante le botte, sembrava ancora energico. Probabilmente era talmente pieno di robaccia che i dolori avrebbero aspettato ancora una notte prima di presentare il conto. Un fastidioso nervosismo cominciò ad insinuarsi. Non riuscivo a capire. Spesso non riesco a capire. Strano. Stavo facendo ciò che avrei dovuto fare, quanto mi sarei aspettato da una qualunque delle persone che conosco e che stimo. Pensavo agli uccelli, fuggono molto prima che la natura si risvegli. Presi la cassetta ed andai a riporla. Decisi di non soffermarmi troppo su dei ridicoli pensieri. “Se vuoi possiamo andare a prendere un caffé” La risposta tardò particolarmente. “Vuoi?” Dissi affacciandomi verso l’interno della stanza. “No grazie, me ne vado a casa”, poi mentre stava prendendo i pochi soldi nel cassetto incustodito, “faccio la cosa giusta credi Babbo Natale!” Un brivido mi scosse la schiena ed un forte pulsare s’impadronì della mia mente. Sembrava proprio un mal di testa, un dolore sopraccigliare profondo che si estendeva dritto al centro degli occhi e giù per il setto nasale fino a ripiegare verso i denti molari. Gli spensi il ghigno con una botta di scopa dritta su quel viso che avevo appena medicato con scrupolo. L’uomo ruzzolò a terra ai piedi del tavolo imprecando a lasciando cadere al suolo il misero bottino. “Che cazzo vuoi, brutto bastardo, ma che cazzo credi di fare”. Parlava, imprecava e si trascinava all’indietro verso l’uscita. “Sei uno stronzo come tutti gli altri, sei un bastardo come qui figli di puttana che provavano piacere a sbattere le loro cazzo di scarpe lucide sui miei vestiti.” Non volevo ascoltarlo. Avrei voluto vederlo uscire e dimenticare tutto. Volevo dimenticare di me, con i muscoli tesi, lo sguardo spianato e le mie mani contratte intorno ad un manico di scopa. Avrei potuto gridare, parlargli, fare altro. Avevo fatto quanto odiavo di più fare. Quel ricircolo di sangue nel corpo mi sorprendeva per la sua elettricità. Quasi tremante ero ebbro d’ira, il mio corpo rilasciava sostanze prodotte nella notte dei tempi per soddisfare quanto in me era ancora legato ai miei avi, alla terra, alla natura: alla semplice causa effetto, senza la compensazione di secoli di pensiero. Ero l’uomo allo stato grezzo, argilla compattata, e, improvvisamente, potevo percepire la presenza dei miei simili attraverso le mura, le strade, le città. Li vedevo ridere di me, delle mie certezze, delle mie debolezze. Ridere nel vedermi nudo di fronte a loro nudi. Guardavo i soldi a terra, trenta anzi quaranta euro in fogli da dieci. Guardavo le vetrine, i pezzi dell’orologio che stavo riparando sparsi un po’ ovunque come i miei pensieri. Non udivo rumori: solo il ritmo tribale del mio cuore che mi pulsava ad ogni estremità del corpo. Disse qualcosa d’altro prima di uscire. Disse varie cose a dire il vero. Non potevo sentire. Non riuscivo ad afferrare i concetti. Le sue labbra sembravano semplicemente torcersi in spasmi d’isteria. Sembrava un pupo siciliano senza narratore. Il silenzio in cui scese il luogo fu desolante. Gettai a terra la scopa e mi sedetti al posto di guida della nave. Non doveva andare esattamente così. Questo non era quello che mi sarei aspettato dalle persone che amo. Questo non era nulla. Questo era il non senso. Il vuoto della ragione assomigliava incredibilmente al risveglio dopo una serata alcolica. Continuavo a ripetermi che glieli avrei pure dati quei maledetti soldi se solo li avesse chiesti. Non riuscivo a giustificarmi; non riuscivo a capire come lo stesso uomo che l’aveva difeso da persone inferocite - -probabilmente per gli stessi motivi – si era potuto trasformare anche lui in una belva inferocita cieca di rabbia. Mi tornarono vivi ricordi trascorsi, d’adolescenza.