Creato da redsector il 02/01/2006
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I

Post n°1 pubblicato il 02 Gennaio 2006 da redsector

Permettete che mi presenti? Rodolfo Izzo. Da Lecce. Ma sono cresciuto a Milano. Già, il solito "complesso di inferiorità" del meridionale che vuole atteggiarsi a settentrionalizzato. Se penso agli sberleffi dei miei compagni di scuola, quando a sedici anni venni a frequentare l'istituto commerciale a Milano, a causa del mio accento leccese…

Che è rimasto, non c'è niente da fare. Imposto, a volte, il mio parlare con piglio e tonalità milanese. Specie nelle frasi interrogative non è difficile. Ma non è questione di accento, si tratta di fonetica. O di fonazione, se più vi piace (che, fra l'altro, è più esatto). Resta sempre, nei suoni che mi escono di bocca, quell'asprezza leccese, quella venatura meridionale, quel non so che di cadenza mediterranea che caratterizza la parlata della città che è e resta "mia". Perciò consonanti irragionevolmente rafforzate e quell'indifferenziazione fra i suoni "nt" e "nd" che fa suonare sovente "quanto" come "quando" e viceversa e altre peculiarità di pronuncia che tradiscono la mia vera origine. E ho un bell'appiccicare la cantatina milanese alle frasi interrogative. Non ci concludo nulla. E allora mi arrabbio con me stesso - ma ho ben più gravi motivi di questo per essere in litigio con me - e mi dico "ma parla come madre natura, o l'ambiente in cui hai emesso i primi suoni, t'ha fatto le corde vocali."

Eppure, sapete, a rigore, non sono neanche leccese. Sono nato a Secugnago, il paese di mia madre. Più lombardo di così? L'anno di nascita chiarisce tutto: 1944. Mio padre - lui sì veramente di Lecce - faceva il soldato in provincia di Milano, non ricordo più se a Lodi, Codogno o Casalpusterlengo.

Fatto il calcolo fra la mia data di nascita e quella di matrimonio dei miei genitori, mi risultò chiaro che dovette essere "un matrimonio di gran fretta". E anche una sorta di fortuna per mio padre, che non finì impacchettato dai tedeschi, come tutti i soldati del suo reparto, e spedito in carro piombato in un campo di concentramento per "traditori italiani". Scusate, non so come la pensiate voi, ma il voltafaccia di quella mezza-calzetta del re e di Badoglio voi come lo chiamate?

Insomma i miei genitori si sposarono alla fine di agosto 1943. Così l'8 settembre mio padre era in licenza matrimoniale e si intanò nella cascina dove lavorava mio nonno. Il resto - come mio padre se la cavò fino alla Liberazione (cosiddetta) - non sto a raccontarvelo, perché se no finirei col raccontarvi la storia sua e non la mia.

Potreste dirmi: ma chi mi ha pregato di raccontarvela? Giusto, è una libertà che mi prendo io... e, stavo per scrivere "prento", come pronuncio dentro di me. Mi son messo in testa di fare il narratore. Vogliate scusarmene. Ero bravo nei temi fin dalle elementari (c'è chi crede che sia questa l'"investitura" alla carriera, se così vogliamo chiamarla, di scrittore). La mia maestra, nella sua presuntuosa ignoranza di cose linguistiche, aveva un odio viscerale per il dialetto. E io ero il ragazzo che padroneggiava meglio degli altri la lingua nazionale. Era ovvio d'altra parte. Mio padre e mia madre usavano fra loro l'italiano, anche se mia madre finì col capire benissimo il dialetto leccese e io stesso mi rivolgevo spesso a lei in dialetto. Ma lei preferiva che parlassi in lingua e mi fece imparare qualche espressione dialettale lombarda. Continuarono anche dopo le elementari i risultati positivi nei compiti in classe di italiano e a qualche mio professore, non so se della media o dei primi anni dell'istituto, deve essere scappata di bocca una frase come "particolare disposizione allo scrivere" o "stoffa del futuro giornalista" che non è stata senza conseguenze dentro di me.

Mi "sospettai" scrittore una diecina d'anni fa, sui vent'anni, e mi sarebbe piaciuto coltivare questa vocazione, ma non mi ci son potuto dedicare mai con impegno e quelle poche e brevi cose che ho scritto non sono riuscito mai a pubblicarle. Vocazione, dunque, la narrativa per me? O tentazione? Non lo so né me ne importa. Mi è venuta voglia di parlare degli anni della mia giovinezza travagliata o ormai, direi, conclusa. E lo farò.

A chi, d'altronde, fa di professione come me il giornalista è una tentazione, quella del narrare, che può venire. Dalla matrice del giornalismo, si sa, provengono le leve più fitte di coloro che si cimentano con la narrativa. Di cui tutti annunciano, con accenti apocalittici, la morte, ma con la quale - statene certi - dovremo fare i conti per anni e anni ancora. Il narratore per immagini ha, sì, tutto per sé il futuro, ma il rapporto di muto colloquio fra pagina scritta e lettore non perderà mai il suo fascino.

Sono giornalista, dunque. Regolarmente iscritto all'albo. Cronista, per l'esattezza, di un giornale romano. Un giornale che vi dice subito la mia fede politica, "Il secolo d'Italia". Ma di questo dopo, se permettete. Voglio venire subito ai fatti.

E da dove posso cominciare per narrarvi la mia storia, cari amici - ché tali m'apparite, se siete arrivati a voltare pagina, e meritate perciò, comunque voi la pensiate in fatto di politica, che io vi chiami così - da dove per rievocare i miei errori, le mie incertezze, le mie crisi? Questo quaderno, così, tutto bianco ancora, mi fa persino paura. Eppure so che lo riempirò. Ne sento il bisogno.

Lascio Roma: mi son dovuto licenziare. Ho trovato lavoro in un giornale di Milano. Un giornale non politico "Il Sole-24 ore". Ho bisogno, per un po' di tempo, di non pensare più alla politica, di infischiarmene. O, forse, di portare un po' di ordine nella confusione che mi si è creata in testa.

Vorrei, quasi, non portarmi dietro me stesso rientrando a Milano, per iniziare una vita rinnovata. Forse è un tentativo di liberarmi dai miei ricordi la stesura di questa specie di confessione che ho intrapreso. Ma le mille cose di cui vorrei parlare mi si affollano, carosellando, in testa e non so come sceverarle per dipanare l'intricata matassa. Ma sì, cominciamo ab ovo.

Se ne sentono mille, s'intende, storie come la mia, la storia di un cantante per matrimoni. Che interesse può avere? direte. Ma la mia s'intreccia con quella della mia collocazione politica, di cui non so se riuscirei, anche volendo, a spiegare bene le origini, perché anch'essa, come il matrimonio, è scaturita da tanti e tanti fattori, fra cui la libera determinazione non so quanto posto occupi. Matrimonio in chiesa e collocazione politica sono venuti, com'era naturale, in frizione quando, postosi il problema del referendum abrogativo del divorzio, la mia parte si trovò schierata per il sì. E io ero con una causa di separazione ancora in corso, in attesa di potermi assestare legalmente con la mia nuova famiglia e "bisognoso" quindi del divorzio. Mentre, per coerenza ideologica verso il mio partito, ero chiamato a dire "sì, toglietelo pure di mezzo il divorzio."

Non so quale sia stato il dramma interiore dei "cattolici del no"; forse il loro avrà avuto una dimensione più generale, un respiro magari universale, se è vero - come credo sia vero - che per molti di essi votare "no" significava imprimere ancora una svolta, dopo quella, in parte ormai rientrata, del Vaticano Secondo, all'ansia, al bisogno della Chiesa di svincolarsi dalle beghe politiche e di stemporalizzarsi (se mi consentite di usare questo neologismo brutto ma sintetico e quindi comodo). Ma non credo che di assai minore entità sia stato il dramma dei "camerati del no" (e se fate bene i conti, ce ne sono stati parecchi e vi basti pensare solo ai dati della città "nera" d'Italia: Catania), che non potevano, o per situazioni personali o per esperienze familiari o per precise convinzioni, condividere la posizione, tutto sommato fatta per tatticismo politico, del partito.

Tattica del resto sbagliata, come poi s'è visto e come io continuavo a "predicare" nel nostro ambiente (creando i primi dissapori e buttando il seme delle prime diffidenze verso di me).

E, comunque, il mio dramma è il "mio". Allo stesso modo come - l'ho sentito dire tante volte a un mio antico compagno di scuola, Antonio, rimastomi amico e da qualche anno entrato in magistratura - allo stesso modo come, per chi è implicato in un episodio giudiziario, "quel" processo è "il" processo. E il giudice, aggiungevi, non deve scordarselo.

Anche a te, vedi, dirigo queste mie righe. E vorrei proprio che tu, almeno tu, le leggessi. È necessario, sai, che tu mi legga. Mi pare che s'è creata fra noi una certa aria di incomprensione, quando ci siamo visti l'ultima volta a Milano. Tu, sostituto procuratore, con istruttorie in mano contro uomini della mia parte e io, con tuo grande disappunto, nelle file cosiddette neofasciste (locuzione, però, che io rifiuto, almeno per me). E lo strano fu, poi, che, caduto il discorso sull'imminente referendum, ero io a sostenere la tesi divorzista, mentre tu - che ti dichiari di fede "democratica" e ti atteggi a progressista (ma un magistrato può essere progressista?) - esitavi e dicevi che, sì, in fondo, la legge del divorzio era bene che restasse, soprattutto per allineare l'Italia agli altri paesi (una questione, precisavi, per non creare discrepanze nel diritto internazionale privato), ma che, tutto sommato, l'ideale del matrimonio indissolubile

E io a cercare di persuaderti. A dirti che tu, proprio tu, uomo di legge, avevi il dovere di riflettere sulle norme che regalare musica per matrimonio da noi prima della Baslini-Fortuna. A precisarti che, anni or sono, avevo meditato di lasciare l'Italia proprio per sciogliermi dal vincolo che soffocava la mia vita e poter dire agli italiani: non volete il divorzio? affari vostri, mettetelo, toglietelo, io me ne vado e non me ne impiccio più, sbrogliatevela voi. Ci pensavo seriamente, sai? Ho parenti di mia madre in Australia, e son certo che mi avrebbero aiutato a sistemarmi. Ma tu pensaci, ti dicevo. E pensa proprio a questo, che, per chi riesce ad andarsene, il problema non esiste più, perché altrove, prima o poi, il divorzio si ottiene. E ci riuscirà sempre, e con grande velocità, chi ha molto denaro. Se ti sembra, tutto questo, aggiungevo un tantino polemico, applicazione del principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, vedi un po' tu. Sapevo di toccarti così nel tuo "punto debole", il punto dolente dell'anima di ogni magistrato che crede nel suo mestiere: il conflitto fra giustizia e legalità.

"Lo so bene, " ti avevo sentito dire una volta non so a che proposito, ma certo, comunque, sulla non rispondenza di certe leggi, specie vecchie, al senso attuale della giustizia, "lo so bene, il giudice non è legislatore. Ma ha le leggi, ogni giorno, in mano. E se esse sono vecchie o inefficienti o ingiuste, egli deve averne coscienza, avvertirlo e fare in modo che altri lo avverta, perché il congegno che porta alla loro modificazione si metta in moto. Penso che ogni giudice debba rendere testimonianza alle leggi, con la sua fedeltà innanzi tutto, ma anche, quando occorre, con la sua critica, fatta da uomo onesto".

Non so se sono riuscito a persuaderti. Ti lasciai perplesso. Ma credo che anche tu, come me, avrai votato "no". La magistratura italiana (si vedeva chiaramente) era compatta per il mantenimento della legge sul divorzio. Era in fondo una questione di "gelosia di mestiere". Perché far regolare le questioni di scioglimento del matrimonio ai giudici con tonaca di prete e non ai giudici dello Stato che portano pantaloni e hanno moglie e figli? Disquisiscano pure i giudici rotali (che, da preti, a rigore, non dovrebbero avere pratica di sesso) dei vari tipi di coitus e delle varie forme di impotentia vel coeundi vel generandi e ci parlino nelle loro sentenze con abbondanza di particolari degli acta per se idonea ad generandum, ma lascino che i drammi delle famiglie li risolvano coloro che sono inseriti nelle famiglie e nella società statale. Il matrimonio appartiene alla gelosa giurisdizione dello Stato dalla Rivoluzione francese in poi.

Ma divago. Ab ovo ho detto che voglio cominciare la mia storia. Sì, forse, se non voglio perdermi in chiacchiere, è bene attaccare subito da quel viaggio da Genova a Milano di tanti anni fa.

Ero andato a trovare mio cugino Davide che lavorava presso un'importante industria siderurgica. Un tecnico altamente specializzato. E dirigente sindacale per giunta. Speravo che egli riuscisse a mettermi al lavoro in fabbrica. O mi trovasse una qualche sistemazione altrove.

Da qualche mese era morto, ancora in giovane età, mio padre. Neanche tre anni era riuscito a mettere insieme della sua "nuova vita" milanese, da quando aveva afferrato… al volo un posto di operaio in un'industria chimica, riportando nella sua terra mia madre, che per quindici anni si era sentita in esilio, sradicando me dalla mia, e togliendo se stesso da una situazione, nell'ambito della sua famiglia di origine, divenuta intollerabile.

Precipitammo, mia madre e io, dopo la sua improvvisa scomparsa, nella più nera disperazione. Mi restavano ancora pochi mesi di scuola per diventare ragioniere. Decisi di lasciare gli studi e trovarmi assolutamente un lavoro. Avrei completato il corso alle scuole serali. Mia madre, che si era trovato intanto un lavoro come donna di servizio, non consentì che io lasciassi la scuola. Ma raggiunto il traguardo del diploma, mi pareva un impegno d'onore lavorare.

Facevo tanto assegnamento su Davide. Di qualche anno più vecchio di me, era stato la prima persona a cui, appena giunto a Milano, mi ero attaccato. Fratelli più che cugini.

Suo padre, che era fratello di mia madre, lavorava come contadino, capo-uomo per l'esattezza, in una azienda agricola di Secugnago. Perciò Davide, nell'ultimo anno del suo corso scolastico, aveva abitato da noi, da poco arrivati a Milano, nella nostra povera casetta al terzo piano - un abbaìno quasi - in Ripa Alzaia del Naviglio grande.

Ero certo, andandolo a trovare, che egli non mi avrebbe lesinato il suo aiuto. Ma le sue promesse erano state vaghe: egli aveva poche conoscenze, poca influenza; avrei potuto trovare più facilmente un lavoro a Milano; e poi… con la crisi di Cuba...

La crisi di Cuba. Ne sentii parlare per tutto il viaggio di ritorno, il pericolo di una guerra di proporzioni planetarie, i missili sovietici, la ferma posizione di Kennedy. E chi diceva che terza guerra mondiale, fatta dapprima a base di "confetti" atomici distribuiti a manciate qua e là e poi da una logorante lotta fra i superstiti, era ormai inevitabile. E chi diceva che questa, davvero, sarebbe stata, a differenza della seconda, una "guerra-lampo", un lampo che avrebbe inghiottito il mondo. E chi, invece, insisteva nel dire che un conto è il lampo e un conto la tempesta. E tempesta è la guerra, non lampo.

"È uno schifo!" aveva esclamato un tale che sedeva in un angolo dello scompartimento e raramente interveniva nella conversazione. Aveva tutta l'aria di un professore in pensione. "Ma mi facciano il piacere. Le bombe atomiche! La prospettiva soltanto di un conflitto nucleare avrebbe dovuto far scomparire dal mondo l'idea stessa della guerra. Se nell'umanità ci fosse un residuo di saggezza. Ma non c'è. A paragone i carri armati e i bombardamenti sulle città della seconda guerra mondiale hanno la nobiltà di armi di "cavalieri antiqui"!"

Aveva detto proprio così il "professore": antiqui. E a me era venuta voglia di ridere, ma il discorso era, invece, serio. Quelle discussioni su una possibile guerra non mi facevano né caldo né freddo. Mi sembravano fastidiose, come se non mi riguardassero.

Guardavo fuori dal finestrino. Nel cielo batuffoli di nuvole sparsi qua e là raccoglievano gli ultimi raggi del sole. C'era tanta pace.

Oppure, di sfuggita, di tanto in tanto, mentre gli altri nello scompartimento s'accaloravano nella discussione guardavo una ragazza che stava seduta, timida timida (o così pareva), di fronte a me.

Da dove viene? Dove è diretta? Come si chiama? Mi sarebbe piaciuto saperlo. Ogni essere umano che si incontra è un mondo sconosciuto. Quello fu, certo, il primo mondo a cui avrei voluto accostarmi.

Cosa pensava? Pareva ora annoiata, ora malinconica. Ma noia e malinconia non ne alteravano i bei lineamenti.

I viaggiatori che occupavano lo scompartimento erano scesi via via, chi a Serravalle, chi a Tortona, chi a Voghera, l'ultimo, il "professore", a Pavia. Eravamo rimasti solo io e quella ragazza ancora sconosciuta.

C'era in me un'impazienza, un nervosismo che non riuscivo più a dominare. La sosta in stazione mi parve estremamente lunga. E forse lo fu davvero. Si aspettava una coincidenza.

Altra gente era salita e io seguivo, senza riuscire a capire il perché, il rumore dei passi. Poi, messosi il treno in moto, lo scalpiccìo nel corridoio era andato cessando, ognuno aveva trovato da sistemarsi.

Capii che se volevo "vincere il mistero" della sconosciuta dovevo cominciare a parlare subito, che tra Pavia e Milano non mi restava, ormai, che pochissimo tempo.

Con che pretesto cominciai a parlare? Non me lo ricordo più. Probabilmente con la storia del finestrino che mi dichiarai disposto a chiudere o aprire, non saprei, secondo che a lei facesse più comodo. Ma mi piacque poi, per molto tempo, immaginare che la conversazione fosse scaturita spontanea dai nostri sguardi, che gli occhi avessero fatto un lungo e chiaro discorso e le labbra si fossero mosse inconsapevolmente.

Seppi poi che quello era stato il primo viaggio da sola di Silvia, che tornava a casa dopo aver trascorso un periodo di vacanza a Sestri Levante con la nonna.

Di quante cose, che poi mi turbinarono nel cervello farraginosamente, avevo parlato con Silvia. Di letteratura e di cinema, di sport e di scuola. Certi momenti, la mia timidezza aveva fatto arenare la conversazione. E un silenzio, che mi faceva quasi paura, era dilagato ogni volta nello scompartimento. In quegli attimi, forse pesanti per entrambi, perché certo in entrambi era vivo il desiderio di parlare, di conoscerci, di fare amicizia, il mio sguardo correva fuori, quasi per afferrare, fermare un pensiero qualsiasi.

Ma era come se la mia capacità di formulare pensieri e di esprimerli... sobbalzasse ritmicamente col vagone, girasse oziosamente intorno e si disperdesse nella campagna circostante.

 
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