JAMBOREE

Quando hai paura


Son giorni bui, son giorni di attesa. Attesa di un qualcosa che si sa che accadrà, qualcosa di inevitabile e già scritto. Ma non da me.Come mi giro sento parlare di licenziamenti, tagli, ristrutturazioni aziendali. Parole diverse, che però conducono tutte ad un unico futuro possibile: a breve perderò il lavoro. Di nuovo.Mesi passati ad imparare un lavoro che non era il mio, tempo impiegato a farmi accettare da chi pensava non ce l’avrei mai fatta. Colleghe, colleghi, capi, capetti e lacchè: mille caratteri diversi, approcci diversi, situazioni diverse. Ogni giorno uno sforzo per venire incontro a tutti, nella convinzione che il lavoro non sia fatto solo di quello che fai quando sei alla scrivania, ma anche di rapporti  personali, contatti e disponibilità. Ma non era vero niente: alla fine sei solo un numero, una cifra, quella che compare nella tua busta paga. Se è troppo alta, sei solo un peso.Quando si è sparsa la voce dei licenziamenti ci siamo sentiti vicini, solidali uno con l’altro. Dopo un paio di giorni sono cominciate le crisi di pianto, le accuse e le recriminazioni reciproche. Oggi, a due settimane dalla notizia, ci si guarda in cagnesco, cercando di carpire informazioni, di conoscere i nomi dei condannati per poter tirare un respiro un sollievo. Per poter dire che ti dispiace ma che in fondo meglio a lui che a te. E che alla fine un po’ se lo meritava, con tutte quelle lagne per ogni cosa.Perché è questo che fa la paura: mette uno contro l’altro, tira fuori il peggio delle persone in una guerra fra poveri che non potrà mai vedere nessun vincitore. Solo vinti. “Certo che tu non perdi mai il sorriso – ha osservato con una puntina di cattiveria una collega dell’accettazione – eccerto, voi del piano nobile avete contatti importanti… non vi tocca nessuno. Sono i poveretti come noi ad andarci di mezzo. Al tuo posto me la riderei anch’io… oh come riderei.”Avrei potuto risponderle che non ho proprio nessun motivo per ridere. Che la vita mi sta regalando sberle tutti i giorni, e non solo sul lavoro. Che sono ad un quarto d’ora dall’esaurimento nervoso. E che forse quel sorriso è l’unica cosa che mi resta.Avrei potuto dirle mille cose, non ultima che dovrebbe badare meno a me e curarsi di più di suo marito, troppo spesso in giro per i bar, ma è un gioco cui non voglio partecipare, perché il mio destino è già scritto, so che il mio nome è su quella lista: ma se non posso evitare di essere licenziata, so che nessuno mi potrà mai obbligare ad essere anche meschina. E restare la stronza di sempre mi sembra una scelta infinitamente migliore.