KUSHINAGARA

Post N° 115


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  .          Passò l’agosto.. finì il settembre. L’inevitabile incombeva. Si avvicinava l’inverno.. e.. nel mondo degli uomini.. quella che sarebbe stata la paralisi invernale.. ormai scontata.. era nell’aria e nei discorsi di tutti.     La gente in città era impotente come i bambini di fronte all’ignoto che si avvicinava.. un ignoto che nel suo cammino rovesciava tutto.. le abitudini acquisite e lasciava dietro di sé la devastazione.. benché fosse esso stesso una creatura della città.. opera dei suoi abitanti.     Tutti si illudevano.. parlavano a vuoto. La vita quotidiana zoppicante.. barcollante.. ancora si trascinava secondo vecchie abitudini.. ma il dottore vedeva le cose senza falso ottimismo: non poteva nascondersi che la vita di un tempo.. il suo mondo e lui stesso erano condannati. Lo aspettavano dure prove.. forse anche la fine. I giorni contati che gli erano rimasti scivolavano via sotto i suoi occhi.     Sarebbe impazzito se non avesse avuto le piccole noie dell’esistenza.. le fatiche e le preoccupazioni. La famiglia.. la necessità di procurarsi denaro rappresentavano la sua salvezza: il regolare ritmo quotidiano.. le abitudini.. il lavoro.. l’ospedale.     Capiva di essere un pigmeo davanti alla mostruosa macchina del futuro: ne aveva paura e in segreto ne era orgoglioso.. e.. per l’ultima volta.. come per un addio.. guardava con occhi avidi le nuvole e gli alberi.. la gente che camminava per le strade.. la città che lottava contro le sventure: era pronto ad offrirsi.. a morire.. perché tutto andasse meglio.. ma non poteva fare nulla.     Il dottore lavorava seduto alla sua vecchia scrivania.. accanto alla finestra.. e davanti a lui stavano accatastate le istoteche. Talvolta.. di quando in quando.. oltre a periodici appunti per i propri studi di medicina.. scriveva il suo “note”.. tetro diario di quei giorni.. o taccuino quotidiano composto di prose e/o di versi.. una specie di brutta copia di zibaldone ispirato dalla convinzione che la metà del genere umano avesse cessato di essere se stessa e non sapesse più quale parte recitasse.     La sala luminosa e soleggiata.. con le pareti verniciate di bianco.. era invasa da quella luce color crema dell’autunno dorato che distingue le giornate quando al mattino sopraggiungono i primi geli e le prime cinciallegre invernali e le gazze svolazzano nei boschetti variopinti e luminosi che cominciano a diradarsi. Il cielo.. in queste giornate.. raggiunge una altezza estrema e.. attraverso la diafana colonna d’aria che si alza tra cielo e terra.. viene dal nord un gelido nitore azzurro cupo. Aumentano la visibilità.. la percettività di tutte le cose del mondo: i rumori si trasmettono a distanza con una risonanza gelata.. distinti e scanditi.. gli spazi si sgombrano come ad aprire la vista per molti anni a venire.. attraverso l’intera vita. Una tale rarefazione non si potrebbe sopportare se non fosse di così breve durata e non sopraggiungesse alla fine di una corta giornata d’autunno.. alle soglie di un crepuscolo anzitempo.     Di questa luce era diffusa la stanza: una luce di sole autunnale.. a precoce tramonto.. succosa.. vitrea e acquosa.. come una mela troppo matura.     Il dottore sedeva accanto alla finestra.. prendeva la penna.. rifletteva e scriveva.. mentre fuori volavano vicinissimi certi uccelli silenziosi : le loro tacite ombre proiettate nella stanza coprivano le mani in movimento del dottore.. il tavolo con le carte.. il pavimento.. le pareti.. a tacitamente scomparivano.     Il dottore alzò la testa. I misteriosi uccelli che passavano davanti alla finestra non erano altro che le rosse foglie dell’acero che volavano via liberandosi dolcemente nell’aria e come curve stelle arancione andavano a posarsi sul prato dell’ospedale.