KANEDAKACCIA BLOG

il perdono


di Giuliana Proietti Chiunque sia stato vittima di qualcosa (crimini, incidenti, abusi, tradimenti e così via) si trova prima o poi chiedersi se concedere o meno il perdono. Il perdono infatti è un mezzo attraverso il quale una persona, offesa da un torto subito, cessa di provare risentimento e ostilità verso un'altra persona, che ha perpetrato il torto. Può concesso come atto di bontà, empatia, altruismo, oppure, pragmaticamente, perché il fine di vivere meglio giustifica il mezzo del perdono. Perdonare infatti molto spesso produce una sensazione di sollievo, annullando quella tensione e quel legame esclusivo che lega vittima e offensore e che li rende parte separata del contesto sociale. Il perdono può essere concesso anche se non è stato richiesto e può riguardare anche persone che non si incontrano più nella propria vita, anche perché potrebbero essere decedute. Sono state le religioni ad insegnare per prime la pratica del perdono, sull’esempio del perdono che Dio (o chi per lui) riserva agli esseri umani. Ma ci sono state anche molte voci contrarie. Nel Talmud ad esempio è scritto che ‘chi è pietoso contro i crudeli finisce con l’essere crudele verso i pietosi’; Voltaire diceva che ‘chi perdona al delitto ne diventa complice’. Friederich Nietzsche era contrario al perdono, ma soprattutto era contrario alla morale cristiana, che riteneva essere la ‘morale degli schiavi’. Per il filosofo, chi perdona è un debole, è un incapace di far valere i propri diritti; la bontà è solo la dimostrazione della incapacità di ribellarsi, di rivalersi; la pazienza è codardia ed il perdono è l’incapacità di vendicarsi. Schopenhauer è della stessa idea: tra i suoi aforismi sulla saggezza della vita troviamo il seguente: ‘Perdonare e dimenticare vuol dire gettare dalla finestra una preziosa esperienza già fatta’ Anche Freud aveva affrontato l’argomento, mostrandosi anch’egli contrario al perdono. Lo riteneva infatti una pretesa assurda e incomprensibile, dannosa per la salute psichica dell’individuo, perché avrebbe fatto toccare il limite di sopportazione dell’Io rispetto alle pressioni pulsionali interne, producendo o una rivolta o la nevrosi (Freud S., Il disagio della civiltà). Perdonare, secondo il padre della psicoanalisi, può aver senso solo in due casi: come prova di sottomissione alla legge del più forte, in modo da lenire la sua aggressività, o come accettazione del predominio del SuperIo, per ricavarne una soddisfazione narcisistica nel ritenersi superiori agli altri. Oggi la moderna psicologia ha cominciato ad interessarsi del perdono perché si è visto che nella pratica clinica, una terapia riuscita spesso porta il paziente a perdonare le offese ricevute. Questo atto, producendo una diminuzione di amarezza e risentimento, ha un effetto catartico, di liberazione, perché è capace di eliminare o attenuare i sentimenti di rabbia, di vendetta, di vergogna e di risentimento, liberando delle energie, che possono essere dunque meglio spese su altri fronti. Perché ci sia vero perdono devono essere coinvolti tutti i sistemi: cognitivo, emotivo e comportamentale. Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il perdono richiede tempo: infatti può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio di vendetta o di punizione della persona che ha perpetrato l’offesa. Il gesto del perdono è solo l’ultimo atto che riguarda questo lungo processo.   Il perdono richiede dunque un grande sforzo, emotivo ed intellettuale e non dovrebbe dunque essere confuso con la timidezza o la debolezza morale. Chi perdona non è chi non vuole assumersi la responsabilità di punire, correggere, vendicare, non è chi vuole necessariamente chiudere un occhio sulla realtà che lo fa soffrire, lasciando correre e guardando oltre: perdonare non significa cercare di dimenticare l’offesa ricevuta, ma solo fare in modo che essa, pur permanendosi nel ricordo, non provochi più dolore. La dimenticanza infatti non equivale al perdono. Il perdono implica la propria liberazione da un nemico interno, costituito dall’odio. L’odio, come l’amore, è un sentimento molto forte, che può legare indissolubilmente ad una persona e che dunque fa si che l’offensore sia sempre nei pensieri dell’offeso, nei  suoi ricordi, nei suoi progetti. L’odio crea una dipendenza. Per questo, dal punto di vista psicologico, il perdono viene considerato un valido strumento terapeutico: permette di lenire la sofferenza, di riguadagnare la fiducia in sé stessi, e spesso di ristabilire relazioni interrotte fra due persone, attraverso una rinegoziazione delle regole del rapporto. Il perdono tuttavia non implica la riconciliazione: vi possono essere valide ragioni per scegliere di non vedere più il proprio offensore (che tra l’altro potrebbe anche non essere più in vita), sebbene si sia concesso il perdono. Al contrario, non può esservi una vera riconciliazione senza perdono. Dal punto di vista etimologico perdonare significa concedere un dono: è così in tutte le lingue, dall’inglese ‘forgive’ al francese ‘pardonner’ ed al tedesco ‘vergeben’. Non sono molte le persone predisposte all’atto di donare, ed anche se dal punto di vista etico o religioso si può essere d’accordo sul principio, metterlo in pratica è tutt’altra cosa. Un atto offensivo subito ingiustamente del resto suscita nella vittima una sofferenza psicologica, che si esprime poi in reazioni di tipo aggressivo, etero o auto-dirette. L’aggressività nei confronti dell’offensore può esprimersi nella rabbia, nel desiderio di vendetta o di punizione dell’altro, mentre l’autoaggressività la si riscontra nei sensi di insicurezza di sé e di vergogna per l’umiliazione subita, nelle costanti ruminazioni del pensiero relative al ricordo dell’offesa. Il desiderio di giustizia potrebbe essere una razionalizzazione, un modo per canalizzare le proprie emozioni verso consolazioni più socialmente accettate, ma esso non implica automaticamente il perdono. Per perdonare occorre sapersi spogliare dei propri panni e sapersi mettere in quelli dell’offensore, cercando di vivere e reinterpretare la realtà guardandola da un’altra prospettiva, giustificando e comprendendo quelle che possono essere state le motivazioni o le pulsioni delle quali possa essere stato, a sua volta, vittima chi ha offeso. Il processo del perdono richiede meno sforzi affettivi e cognitivi se l’offesa non è grave, se non è intenzionale, se l’offensore mostra rammarico e chiede scusa. Quando si riceve un’offesa per prima cosa si sperimenta uno stato generale di smarrimento, di perdita momentanea dell’equilibrio, anche a causa dell’effetto-sorpresa e della mancanza di adeguate strategie difensive. Questo è ancor più vero quando fra vittima e offensore c’è un legame profondo di affetto o di amore, come può avvenire fra parenti, coniugi, amici o affini. Dal momento in cui si riceve l’offesa viene messo in crisi tutto un sistema di attribuzioni e di aspettative riguardo ad una certa persona, il tutto abbinato ad emozioni fortemente negative e distruttive, difficili da contenere, come accade quando si sperimentano dolore, rabbia, delusione, depressione, vergogna.  La vergogna soprattutto è ciò che influisce particolarmente nella stima di sé stessi: ‘come ho fatto a lasciarmi ingannare dalla persona che amo’? ‘Come ho fatto ad essere così debole e stupido di fronte agli inganni del mio amico’?   A volte si reagisce cercando di colmare tutti i vuoti di attenzione che si ritiene di aver avuto nei confronti della persona che ha offeso. Questa ricerca e considerazione ossessiva dei dettagli che hanno reso possibile l’offesa può portare ad accrescere ulteriormente la diffidenza ed il sospetto verso l’altro, rinforzando i pensieri negativi e rimuginativi. Del resto, cercare di comprendere è sicuramente necessario, anche per considerare in senso empatico i fattori esterni che possono aver contribuito a creare le condizioni del gesto offensivo, valutando anche eventuali possibili responsabilità nell’aver determinato nell’altro la volontà offensiva. Pur nella asimmetria delle responsabilità, spesso il rendersi conto che in una relazione tutti possono fare errori, avere colpe o essere causa di mancanze, può essere un fattore facilitante nella comunicazione.   Ammettere i propri errori, se ce ne sono, può facilitare infatti l’ammissione del torto da parte dell’offensore e permettere all’offeso una meno traumatica concessione del perdono. Sicuramente questo è un buon punto di partenza per reimpostare la relazione su basi più solide, che prevedano un codice di maggiore rispetto reciproco.