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Messaggi di Marzo 2019

Brexit, adesso che succede? Tre opzioni per la May e per l’Europa

Post n°4419 pubblicato il 31 Marzo 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia Occulta | 31 Marzo 2019 

 

Il 29 marzo è stata una bellissima giornata di sole, primaverile, la prima dopo l’inverno. E così ce la ricorderemo, non come il giorno in cui il Regno Unito ha lasciato l’Unione Europea.

Sulla Brexit ormai si è detto di tutto e si continuerà a dire di tutto fino a quando arriveremo a una risoluzione del problema. Intanto, però, è il caso di spiegare alcuni punti. Venerdì non c’è stata nessuna Brexit. Il motivo va ricercato nelle difficoltà incontrate dal primo ministro Theresa May a far approvare in Parlamento l’accordo da lei stipulato con l’Unione europea. All’indomani del referendum il Parlamento aveva ratificato il risultato, si badi bene secondo la legge britannica il Parlamento poteva anche non farlo, ma l’ha fatto, quindi bisogna presumere che due anni fa la maggioranza era d’accordo sulla separazione da Bruxelles.

Le cose sono cambiate perché ci si è accorti che di Brexit non ce ne è solo una, le possibilità sono infinite dal momento che non esiste un protocollo specifico sull’uscita dall’Unione. In altre parole quando l’Ue è nata non si era pensato che qualcuno, in un ipotetico futuro, potesse volerne uscire, quindi le modalità di separazione non sono state studiate e legiferate, esiste l’articolo 50 che mette in moto il processo di negoziazioni per l’uscita e nulla di più. Il caos politico in cui il Regno Unito è precipitato, dunque, a causa della Brexit era prevedibile, ma nessuno ci ha pensato né a Londra né a Bruxelles. E questo è stato un grosso errore per entrambe le parti.

I problemi della May sono anche i problemi di Junker, l’incertezza riguardo ai rapporti tra Londra e Bruxelles è negativa su tutti i fronti. Basta menzionare il flusso di beni e servizi tra i due. Su entrambe le sponde della Manica in previsione della Brexit del 29 marzo si sono spesi soldi: per aumentare le scorte, per assumere più personale e gestire le nuove pratiche di dogana, senza parlare delle coperture finanziare legate ai tassi di cambio. La sterlina questa settimana è scesa e salita disegnando un grafico da montagne russe e con molta probabilità questo andamento erratico e volatile continuerà nelle prossime settimane.

Quali le opzioni che abbiamo davanti?

1. In primis va detto che proprio perché non esiste un iter legale ben definito tutto è possibile, le decisioni sono prese dai Paesi membri, dai loro leader, quindi tutto può cambiare purché la maggioranza assoluta sia d’accordo. L’unica mossa che il Parlamento britannico può fare da solo, senza che l’Ue abbia alcun potere, è revocare l’articolo 50, e quindi restare nell’Unione. Succederà? È improbabile, ma la possibilità esiste.

2. In secondo luogo il Parlamento britannico avendo rifiutato per la terza volta l’accordo stipulato dalla May deve decidere cosa fare e farlo sapere a Bruxelles. Le due opzioni che hanno la possibilità di essere votate dalla maggioranza lunedì prossimo sono l’unione doganale, simile al vecchio Mercato economico comune europeo, o un nuovo referendum.

3. La terza opzione, che non verrà votata ma che potrebbe verificarsi se Theresa May decide di gettare la spugna, sono le elezioni politiche. Tuttavia, il pericolo per i conservatori è non soltanto di perderle ma di ritrovarsi con un partito dimezzato.

Che succederà?

Difficile, quasi impossibile a questo punto fare qualsiasi previsione, le alleanze, le pugnalate politiche alla schiena e la serratissima lotta per guidare il Paese creano scenari che cambiano costantemente. Una cosa è però certa, la Brexit ha messo a nudo i pericoli della propaganda politica nell’era virtuale, si è votato senza conoscere le conseguenze tecniche del voto, si continua a discutere su come l’uscita debba essere strutturata senza conoscere gli ostacoli che si hanno davanti, si manipola la crisi per avanzare personalmente in politica, senza tenere conto degli interessi del Paese e della popolazione.

È vero, tutto ciò è già successo, la storia è piena di esempi simili, ma oggi è particolarmente difficile districarsi all’interno della complessità dei fatti veri e falsi perché viviamo sotto un bombardamento di notizie. Non ci resta che sperare che lunedì una delle opzioni venga votata, a quel punto almeno usciremo dall’incertezza attuale. Ma siano ancora molto, molto lontani dalla risoluzione finale.

Economia Occulta | 31 Marzo 2019

 

 

 
 
 

Salari, Italia peggio di 10 anni fa. Ma anche la Germania arranca

Post n°4418 pubblicato il 28 Marzo 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 27 Marzo 2019, di Daniele Chicca

 

Che le discrepanze in Europa siano colossali quando si tratta di mercato del lavoro è risaputo. Nel 2016 per esempio si andava dai 4,40 euro di costo del lavoro orario della Bulgaria ai 42 euro della Danimarca o più di 50 euro della Norvegia. Ma sono i salari nel Sud d’Europa a destare le maggiori preoccupazioni degli economisti.

Come si vede bene nel grafico sotto riportato, il costo del lavoro è aumentato più velocemente in Francia che in Germania o in Italia. Ma i salari in questi ultimi due paesi sono fermi da tempo. L’anno scorso il costo del lavoro è salito del 2,9% in Francia, contro il 2,4% di media dell’Eurozona e l’1,8% della Germania.

Se ci si rifà ai dati Eurostat del 2016, si scopre quanto la situazione sia da anni particolarmente distorta in Italia. Sebbene il costo del lavoro non sia di molto maggiore di quello del Regno Unito, a Londra le retribuzioni sono state e rimangono di gran lunga superiori, nonostante le turbolenze generate dalla Brexit.

L’Unione Europea deve agire in fretta per ridurre i tanti gap e incrementare le buste paga, secondo i sindacati europei. Per farlo potrebbe per esempio incoraggiare e promuovere un contratto collettivo di lavoro tra datori e sindacati, secondo Luca Visentini, Segretario Generale della European Trade Union Confederation (ETUC).

il resto qui su W.S.I.

 

 
 
 

Ue toglierà Arabia Saudita dalla lista nera del riciclaggio

Post n°4417 pubblicato il 26 Marzo 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 1 Marzo 2019, di Alberto Battaglia

 

L’inclusione dell’Arabia Saudita nella lista nera Ue dei Paesi troppo morbidi nella lotta al riciclaggio vedrebbe contraria una larga maggioranza dei Paesi membri. Lo affermano a Reuters due fonti comunitarie, citando un blocco ostile all’inclusione di Riyad che conterebbe 20 membri su 28: fra gli stati contrari ci sarebbero il Regno Unito, la Francia “e tutti i maggiori membri” Ue. In precedenza la lista nera aveva irritato anche Panama, che aveva sollecitato Bruxelles a riconoscere i passi avanti compiuti dopo il caso Panama Papers.

Il sovrano saudita, Salman, si era mosso in prima persona per convincere le autorità europee a riconsiderare l’inserimento del suo Paese nella black list, in alcune lettere viste da Reuters. Tale decisione “danneggerà la reputazione del regno e creerà difficoltà nel commercio e negli investimenti fra Arabia Saudita e Unione Europea”, aveva scritto il re Salman.

Riyad ha minacciato di stracciare i contratti con gli stati Ue nel caso in cui la lista fosse approvata, ha affermato una delle fonti Ue. “Stanno davvero tirando fuori le armi pesanti”, avrebbe detto un diplomatico commentando la vicenda.

Le armi persuasive del regno saudita starebbero ottenendo i risultati sperati. Perché la lista nera venga emendata occorre una maggioranza di almeno 21 stati membri. A quanto si apprende, tale maggioranza sarebbe a portata di mano.

Fra i Paesi insoddisfatti della black list non mancano gli Stati Uniti, che in essa vi hanno ritrovati quattro dei propri territori. Si tratta di Samoa, Guam, Puerto Rico e le Isole Vergini.

Fra gli altri nomi che compongono la lista nera del riciclaggio e del finanziamento al terrorismo compaiono anche Corea del Nord, Libia, Iran, Pakistan, Nigeria, Afghanistan e il già citato Panama.

 

 
 
 

Yemen, quattro anni di guerra. E non se ne vede la fine

Post n°4416 pubblicato il 25 Marzo 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quiotidiano Mondo | 25 Marzo 2019 

 

Il 25 marzo 2015 la prima bomba della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti cadeva sullo Yemen. Da allora, questa scena si è ripetuta migliaia di volte, portando distruzione e devastazione nel paese più povero del mondo arabo.

L’obiettivo della coalizione, sostenuta sul terreno dalle forze leali al presidente ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, era e resta quello di sconfiggere le forze huthi, pro-iraniane, che nel settembre 2014 hanno preso il controllo della capitale Sana’a e di altre zone dello Yemen.

Di questo nuovo capitolo dello scontro tra Arabia Saudita e Iran per la supremazia nel Medio Oriente stanno pagando il prezzo milioni di civili yemeniti, vittime di una gravissima catastrofe umanitaria provocata dalla guerra.

In questi quattro anni, tutte le parti in conflitto hanno inflitto sofferenze inimmaginabili alla popolazione civile.

Il catalogo degli orrori, gravi crimini di diritto internazionale se non veri e propri crimini di guerra, comprende attacchi aerei indiscriminati (contro centri abitati, scuole e scuolabus, mercati, moschee, ospedali, banchetti nuziali), detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture, aggressioni sessuali, arruolamento di bambini soldato e l’imposizione di restrizioni all’ingresso e alla circolazione di beni e aiuti essenziali.

Di tutto questo non si vede la fine: il numero delle vittime civili aumenta e la situazione umanitaria peggiora di giorno in giorno.

Diversi Stati occidentali – tra cui Usa, Regno Unito, Francia e anche Italia – continuano a fornire armi agli stati membri della coalizione nonostante vi siano prove schiaccianti che esse sono state usate per commettere crimini di guerra. Solo una manciata di Stati – Olanda, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Svizzera – hanno sospeso questi trasferimenti.

La vita dei civili yemeniti non vale niente rispetto ai lucrosi commerci di strumenti di morte.

Mondo | 25 Marzo 2019

 

 

 
 
 

Via della Seta, finalmente l’Italia arriva prima

Post n°4415 pubblicato il 22 Marzo 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Senatore M5s, direttore di Dissensi Edizioni

 

Le polemiche che hanno anticipato la visita del presidente cinese Xi Jinping in Italia, per siglare il memorandum di intesa sulla Nuova via della Seta, ovvero il più grande progetto di investimento infrastrutturale internazionale della storia hanno montato un uragano diplomatico, che, per quanto strumentale, ci fornisce l’occasione di parlare di futuro delle relazioni commerciali e di porsi, per la prima volta dopo anni di arrendevole politica estera, in una posizione di vantaggio rispetto ai nostri alleati europei e americani.

Il progetto della Belt and road, infatti, coinvolge 68 nazioni e prevede finanziamenti (quasi un trilione di dollari) che potrebbero superare di 12 volte quelli del celebre Piano Marshall attraverso investimenti infrastrutturali in strade e porti per costruire nuove vie commerciali terrestri e marittime. L’Italia e il suo governo, fermo restando alcuni principi come il controllo sul nostro sistema economico, se vuole ottenere benefici tangibili per il proprio export, deve assolutamente partecipare a questa iniziativa e attirare investimenti che ricadranno positivamente sull’occupazione.

Secondo le intenzioni del governo, il Memorandum pone le basi per permettere alle nostre imprese di esportare in Cina, visto che le merci cinesi arrivano da noi già da anni. Il potenziamento delle vie di comunicazione e scambio, è una enorme opportunità per le nostre medie e piccole imprese con prodotti all’avanguardia, ma che non esportano verso la Cina. Con questa iniziativa avranno maggiori possibilità di vendere le proprie merci a centinaia di milioni di cinesi e ad altrettanti cittadini di altri paesi asiatici, che adorano il made in Italy. Quando sono stato in Cina e ho visitato Chongqing da dove partono i container carichi di merci verso l’Europa, ho chiesto in quale percentuale ritornassero con prodotti europei e italiani in particolare. La risposta è stata molto emblematica, il funzionario cinese mi ha risposto che spesso tornano vuoti; il nostro obiettivo nei prossimi anni è riempirli made in Italy.

 

 .. il resto a questo link: Il Fatto Quotidiano

 
 
 

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